Il singolarismo, colpo di frusta a certo appiattimento nelle esperienze di partecipazione comunitaria

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L’autore, già professore di Filosofia morale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Macerata, membro della direzione del Centro di studi filosofici (Gallarate) e del Centro di etica generale e applicata (Pavia), entra nel merito della riflessione sul “singolarismo” aperta, su questo sito, dalla recensione di Sandro Antoniazzi a un saggio del filosofo del diritto, Francesco Viola. L’autore, in realtà, si è rivolto direttamente ad Antoniazzi, di cui è amico, con una lettera, dopo aver letto la recensione sul portale di Demos Milano (associazione in cui Antoniazzi è impegnato e al cui portale manda gli articoli che scrive per c3dem).

 

 

Caro Sandro, ho letto la tua riproposizione del pensiero di Francesco Viola –  stimatissimo filosofo del diritto dell’Università di Palermo e molto noto tra gli intellettuali “cattolici” –  sul “singolarismo”.

Il carattere essenziale del singolarismo sembra essere la ricerca della eccezionalità. Questo lo distinguerebbe dall’individualismo. Viola cita alcuni pensatori a sostegno della sua analisi. Mi sembra che manchi un riferimento a un filosofo che egli stesso non esiterebbe a inserire nella lista: Friedrich Nietzsche. A lui dobbiamo l’idea dell’oltreuomo, portatore di una nuova scala di valori certamente non conformisti e affidati alla capacità di superamento creativo dei modelli etici consolidati. Non voglio fare una citazione dotta, ma indicare ulteriori piste di riflessione, che tra i “filosofi di professione” sono state parecchio esplorate. Del resto, slogan nietzschiani li possiamo leggere sulle T-shirt indossate da giovani, e non solo (ne ho sott’occhio una con la scritta “No price is too high to pay for the privilege of owning yourself”). Per fortuna – a mio avviso –  Nietzsche non è riducibile a questo uso.

L’eccezionalismo, per così dire, è in azione da molto tempo ed è senz’altro opportuno metterlo sotto i riflettori della nostra attenzione. La ricca analisi di Viola, che vuole essere anzitutto di tipo descrittivo, consente qualche considerazione che potrebbe far luce su fattori strutturali del costume “singolaristico” e delle sue ambivalenze, riassumibili forse con l’imperativo di “stare dentro” (i gruppi, la comunità e persino le istituzioni) “rimanendo fuori”, pena l’assorbimento e la omologazione.

Un fattore strutturale è il sistema dei media e dello spettacolo da essi veicolato, a partire da eventi reali che vengono amplificati in una logica di estensione illimitata delle performance di soggetti e personaggi che si offrono a tutti rimanendo al tempo stesso diversissimi da tutti. Se ci si documenta sulla vita di una star dello spettacolo come David Bowie, si può comprendere, forse più che leggendo trattati di filosofia, cosa comporta la ricerca continua dell’assolutezza della propria singolarità. Una tale ricerca è imposta dal compito irrinunciabile di avere sempre un séguito di massa, che non può essere deluso e va alimentato con l’invenzione incessante di profili sorprendenti e imprevedibili. Il singolo “eccezionale” è infatti quasi condannato a dar conto di sé allo stuolo dei soggetti “normali”, ma bisognosi di identificarsi con l’eccezione per fruirne mimeticamente con effetti moltiplicatori. Dire se questo meccanismo produce una vera e propria dipendenza, sia per chi lo gestisce attivamente sia per chi ne fruisce secondariamente, esigerebbe un’analisi non solo di tipo descrittivo.

Un altro elemento strutturale mi sembra il sistema della moda e il codice di distinzione-omologazione  che esso alimenta.  Probabilmente, però, l’elenco non finisce qui e non posso dilungarmi.

In tutto ciò emerge una contraddizione, inseparabile dall’eccezionalismo. Esso si offre a tutti ma non può essere di tutti: se tutti fossero o diventassero eccezionali, nessuno lo sarebbe. Si potrebbe osservare che ognuno può diventare eccezionale a suo modo. Ma, allora, l’eccezionalismo diventerebbe né più né meno che la ricerca della personalità di ciascuno, e questo sarebbe il modo migliore di intenderlo e di valorizzarlo, detronizzandolo però dalla illusione di acquisire un privilegio unico e liberandolo dalla inclinazione a suscitare una logica di preminenza, la quale può culminare nella volontà di esercitare un dominio e di creare subordinazione.

Non penso in ogni caso, anche per i motivi che ho cercato di esporre frettolosamente, che il singolarismo sia la cifra unica o prevalente per la lettura e l’interpretazione del nostro tempo. Viviamo in una società nella quale il nuovo che emerge non cancella il precedente, bensì piuttosto gli si sovrappone in una stratificazione che costituisce ciò che chiamiamo “complessità”.  Abbiamo perciò una convivenza di modelli che non solo si sovrappongono, ma si intrecciano e spesso confliggono tra loro. Decifrare intrecci e conflitti, senza cadere in rappresentazioni unilaterali, è per noi irrinunciabile. Si apre uno scenario di competizione: chi ha più filo da tessere…

Infine, dovremmo forse cominciare ad ammettere  che i modelli di partecipazione comunitaria, ai quali noi siamo legati e per i quali diamo senso al nostro agire, spesso sono associati a stereotipi di appiattimento e di sottovalutazione della originalità di chi è chiamato a condividerli. Il singolarismo può essere allora un colpo di frusta che ci induce a superare la coltre di conformismo e l’esito di svuotamento dell’apporto di ciascuno, che invece dovrebbe a ragione essere apprezzato sempre come “eccezionale” in ogni costruzione comune.

 

Franco Totaro

 

 

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