Il problema del fine vita. Serve una nuova legge?

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L’autrice, infettivologo di fama internazionale, per decenni primario di Malattie infettive all’Ospedale Sacco di Milano e membro attivo nella Chiesa ambrosiana, ha presentato questa riflessione nel corso di un incontro nella sua parrocchia della Chiesa Rossa, a Milano, il 12 ottobre scorso, e ne ha consentito la pubblicazione sul nostro sito. Si tratta di una conversazione proposta con linguaggio semplice in cui si toccano, con competenza e grande umanità, temi cruciali

 

 

Un tema come quello di stasera è molto delicato; per affrontarlo bisognerebbe avere molto più tempo. Infatti, esso tocca numerosi aspetti: l’autonomia della persona, l’idea di salute (siamo passati dalla definizione di salute come assenza di malattie a quella nel 1948 dell’OMS che parla di salute come uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, quindi non solo assenza di malattie o infermità), la questione dell’accanimento terapeutico, le cosiddette DAT (Disposizioni anticipate di trattamento) che ormai sono una legge dello Stato italiano, anche se ancora troppo poco conosciuta, e poi anche quali dovrebbero essere le caratteristiche di una legge democratica, quali sono i problemi etici implicati in una legge sul fine vita, ecc. ecc..

Questa sera, non affronterò tutti questi temi. Dirò solo una piccola parola sul problema dell’autonomia del soggetto, perché secondo me questo è il problema di fondo; dirò qualcosa a riguardo dell’accanimento terapeutico; affronterò il tema dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente, tutti temi che ritengo molto importanti per affrontare il tema dell’eutanasia.

 

L’autonomia del soggetto

A riguardo dell’autonomia vorrei solo ricordare che non è una autonomia assoluta, ma è un’autonomia storicamente segnata dal nostro rapporto con gli altri. Non è necessario ricordare che la nostra esperienza ci fa confrontare con loro fin dall’inizio della nostra esistenza: noi abbiamo ricevuto la vita da altri ed essa si rapporta con gli altri: la nostra identità personale è costitutivamente un’identità relazionale. La nostra libertà è quindi responsabile di fronte agli altri che ci precedono e con i quali siamo chiamati a vivere e a collaborare. Tutto questo è molto importante ricordarlo, anche a riguardo delle decisioni del fine vita.

 

Medico e paziente, un’alleanza terapeutica

Vorrei questa sera riflettere sul tema dell’alleanza terapeutica – così io la chiamo – tra medico e paziente, che è centrale a mio avviso per parlare del fine vita. Quest’alleanza esige innanzitutto la presenza di una relazione vera tra due persone. Nella relazione io sono interpellato come donna o uomo libero; ciò comporta, se si vuole istituire una relazione autentica, che anche l’altro sia riconosciuto e rispettato come essere libero, capace di autonomia. A me pare che questo sia molto importante

Il rapporto medico-paziente, rispetto a un recente passato, è oggi profondamente cambiato (anche se forse non è ancora cambiato del tutto), passando da una concezione paternalistica dello stesso a modalità di rapporto che tenga fortemente conto dell’autonomia del paziente. Un tempo, infatti, tale rapporto si fondava sulla fiducia del malato nei confronti del proprio medico; lui prescriveva gli esami da eseguire, decideva le terapie e dava le disposizioni al paziente e alla sua famiglia in ordine alla cura. Era il medico, cioè, a prendere le decisioni per il paziente così come fa un adulto nei confronti di un bambino. E quindi le  preferenze del paziente, il suo giudizio sulla qualità di vita e sul contesto sociale, inteso come religione e famiglia, erano considerate in secondo piano o assolutamente ignorate; così come pure era ignorato il rapporto con la società. Oggi questo modello è molto cambiato, e invece si insiste molto sull’autonomia del paziente, al punto che alcune volte il paziente decide di fare a meno della competenza del medico perché lui ha letto su internet, ha visto, sa già tutto, quindi può benissimo occuparsene lui.

Ora, nell’attuale contesto sociale, l’alleanza tra medico e paziente chiede davvero di salvaguardare quelli che devono essere considerati gli elementi ideali del rapporto medico-paziente: la possibilità di scelta del proprio medico, la sua competenza, la comunicazione, la compassione, la continuità, il non conflitto di interesse. Queste sono cose veramente molto importanti.

In particolare, nella fase terminale di una malattia cronica o al momento di una morte avvenuta improvvisamente o, comunque, quando essa si avvicina, è molto importante che quest’alleanza custodisca e realizzi il desiderio del morente, proprio maturato all’interno di questa relazione, che deve essere una relazione seria.

In essa occorre, quindi, che il tema della comunicazione sia fortemente valorizzato. La legislazione italiana, giustamente, impone la richiesta del consenso informato prima di alcune procedure diagnostiche o terapeutiche particolari; tuttavia, una relazione medico-paziente che voglia essere una alleanza non può accontentarsi di ciò. Informare il paziente non si limita, infatti, a spiegargli il percorso diagnostico e terapeutico, a dirgli la verità sul suo stato di salute, nei modi e nei tempi che egli riuscirà a sopportare, ma richiede che quest’informazione scorra in due direzioni, diventi, cioè, reciproca. Occorre, quindi, saper ascoltare le richieste e i bisogni che il paziente, talvolta in modo inespresso, fa al proprio curante; porre attenzione a tutti quei messaggi che vengono trasmessi attraverso la comunicazione anche non verbale (a volte noi possiamo non dire nulla, ma la nostra faccia parla per noi…). Tutto ciò richiede capacità di compassione (cum patior = portare, sopportare insieme). La virtù della compassione si sviluppa come una disposizione favorita da un sentimento spontaneo di vicinanza e di empatia che spinge ad assumere il punto di vista dell’altro. Essa, nella tradizione cristiana, svela un circolare e costitutivo rapporto tra amore del prossimo e amore di se stessi: non si può sapere davvero che cosa vuol dire amare se stessi se non amando il prossimo, e non si può veramente amare il prossimo se non si è capaci di amare se stessi. Si ama l’altro allo stesso modo in cui si ama se stessi: addirittura l’esperienza dei propri bisogni e, più generalmente, di sé, diventa un punto di partenza per il compimento della legge e i profeti. Il sentimento spontaneo della compassione è una forma del farsi prossimo ed esce dalla sua ambiguità soltanto in quell’agire libero e intelligente, sapiente e prudente, che non si sbarazza dell’altro, ma si fa carico di lui, lasciandosi implicare nel rapporto concreto che cerca il suo bene e testimoniandogli una cura – assai concreta! – per la sua vita mortale. Si tratta quindi molto di più di un sentimento interiore (non è solo un “sentirsi”), bensì di un modo inizialmente spontaneo di conoscere e di incontrare l’altro che ci viene incontro. La compassione, quindi, è una forma di relazione in cui il dare e il ricevere si attivano reciprocamente.

Un altro aspetto assai importante della relazione medico-paziente è quello della continuità, del patto di non abbandono. Chi si rivolge ad un medico e gli chiede di essere preso in carico, deve poter sapere che il curante non lo abbandonerà; questo diventa ancor più importante se il paziente è affetto da una malattia cronica. Il non abbandono richiede anche la garanzia che, se non è possibile essere guariti, è comunque sempre possibile essere curati. Noi sappiamo che gli inglesi hanno due termini, to cure e to care: to cure che vuol dire curare e guarire e to care prendersi carico dell’altro. Noi quando parliamo di cura mettiamo dentro tutti questi aspetti. La medicina palliativa è, a quest’uopo, un ausilio veramente importante. Di solito quando noi parliamo di palliativo pensiamo a qualcosa che si dà quando non c’è niente da fare, mentre invece la parola palliativo viene dal latino  pallium, mantello, qualcosa che dà dignità a chi lo indossa e protegge dalle intemperie e dal tempo avverso.

 

Cure palliative e accompagnamento alla morte

La definizione che l’OMS dà delle cure palliative sottolinea trattarsi di cure che “affermano il valore della vita, considerando la morte come evento naturale; non prolungano né abbreviano l’esistenza dell’ammalato; provvedono al sollievo dal dolore e dagli altri sintomi; integrano gli aspetti psicologici e spirituali dell’assistenza; offrono un sistema di supporto per aiutare il paziente a vivere il più attivamente possibile fino alla morte; offrono un sistema di supporto per aiutare la famiglia dell’ammalato a convivere con la malattia e poi con il lutto” .

Esse possono essere offerte al paziente fin dall’inizio e per tutto il corso della malattia, in parallelo alle terapie eziologiche. Man mano che la malattia avanza le cure palliative acquistano sempre più spazio a differenza di quelle eziologiche che tendono ad averne sempre meno. Le cure palliative, come è facilmente intuibile, richiedono un’integrazione di competenze, di professionalità e di contributi riguardanti gli aspetti fisici, psico-sociali e spirituali della persona malata; per questo esse prevedono la presenza di un’équipe curante multidisciplinare.

Tale équipe è attenta ai bisogni della persona nella sua interezza; tratta ciascuna persona come un individuo, con rispetto e accettazione, riconoscendo a ciascuno il diritto alla riservatezza e confidenzialità, le restituisce il più possibile e appena possibile il controllo della situazione; promuove la qualità della vita attraverso una buona assistenza, comprendente sussidi per la vita quotidiana, alloggio adeguato, efficace controllo dei sintomi, consentendo al paziente di vivere il più pienamente possibile fino al momento della morte; favorisce una morte dignitosa; fornisce un supporto al lutto dei familiari, partner e amici, includendo tutte le persone significative per il paziente.

L’accompagnamento alla morte, infine, è uno tra i compiti più delicati delle cure palliative. Occorre aiutare il paziente a morire con dignità e speranza, rispettando i suoi desideri, anche quando non è cosciente, e le sue richieste religiose, sia esplicite che implicite.

Specie in questa fase, i temi etici da affrontare sono numerosi; tra i più scottanti, secondo me, sono quelli dell’accanimento terapeutico e dell’eutanasia.

 

L’accanimento terapeutico

Ora dirò poche parole sull’accanimento terapeutico. E’ giusto rifiutare l’accanimento terapeutico. E’ un agire che occulta e non riconosce la condizione mortale; è un’ostinazione che combatte la morte, assolutizzando il finalismo biologico, cioè muore il corpo muore tutto. Se si vuole affrontare il problema dei criteri per valutare l’accanimento/ostinazione terapeutica, essi possono essere così sintetizzati, in ordine di importanza, ma tutti necessari. Il tempo, innanzitutto, considerato non solo come uno scorrere quantitativo (quello che i greci chiamavano chronos), ma anche come un aspetto qualitativo (che i greci chiamavano kairos), cioè una situazione favorevole perché in qualche modo ti dà degli spazi vitali. Occorre quindi anche valutare la proporzione tra benefici e danni della terapia. E, tra i benefici, vanno considerate  le relazioni che il paziente riesce a mantenere. Bisogna anche considerare la possibilità da parte dei familiari di sostenere in tutti i sensi tale situazione. Occorre, dunque, che vi sia una proporzionalità tra i mezzi che mettiamo in atto e i benefici che raggiungiamo. Infine, vanno valutati anche gli oneri della collettività, che devono garantire un’equa distribuzione delle risorse.

In questo senso, le Direttive anticipate di trattamento (dette brevemente DAT) possono essere importanti per esprimere le preferenze dei pazienti circa il trattamento che desiderano. Potrebbero rappresentare un consolidamento della comunicazione tra medico e paziente, specie quando si devono prendere decisioni importanti come quelle del fine vita. Quindi il medico e il paziente parlano di questo problema e il paziente dice al medico i suoi desideri.

Tra le tante questioni, vorrei dire una parola su quella del rifiuto e della conseguente sospensione della nutrizione e idratazione artificiali (NIA), che la legge italiana ha incluso fra i trattamenti che possono essere rifiutati, sia nelle DAT sia nella pianificazione anticipata. Si tratta effettivamente di interventi medici, non sono soltanto mangiare e bere; e quindi non si sfugge al giudizio di proporzionalità. In un articolo, posto sul sito ufficiale di “Aggiornamenti sociali”, scritto dal Gruppo di studio sulla bioetica di “Aggiornamenti Sociali”, si dice che, poiché non si può escludere che in casi come questi la NIA divenga un trattamento sproporzionato, la sua inclusione fra i trattamenti rifiutabili è corretta.

Nelle DAT è poi anche previsto l’addormentamento profondo della persona terminale. Cioè, ad un certo punto, una persona terminale può salutare i suoi parenti, stare con loro, e poi, poiché non può più accettare questa situazione, può essere richiesto l’addormentamento profondo. Per cui tu l’addormenti, non la uccidi; tu non fai nulla contro di lei, lasci che la malattia faccia il suo corso.

 

L’eutanasia

A questo punto occorre fare una riflessione sul tema dell’eutanasia richiesta dal malato. Questo è effettivamente un problema molto delicato. Si pongono a questo proposito almeno due questioni: anzitutto, l’interpretazione della volontà di morire espressa dal paziente, che rimanda alla più originaria questione del suo vissuto complessivo. Una seconda questione, non aggiunta ma intrinseca alla precedente, si pone poi in relazione alla volontà in qualche modo espressa dal soggetto: quale ne è la sua qualità morale? E in che misura va esaudita? Come si vede è una questione molto complessa. La rivendicazione dell’eutanasia come un diritto, anche quando si attende qualche tempo a eseguire la richiesta e la si realizza solo dopo una reiterata domanda, non può che apparire, quantomeno in prima battuta, una scelta frettolosa e impaziente, se non addirittura una volontà di sbarazzarsi dell’altro, ridotto ormai a peso ingombrante.

Ma questa critica si può avanzare quando la richiesta è avanzata dallo stesso paziente? Noi vediamo molti pazienti dire:  “Dottore, mi aiuti a morire!” e “Non ce la faccio più. Lasciatemi morire in pace”…

Alla domanda: “è possibile desiderare la morte?” io credo che non si possa dare una risposta definitiva in astratto. Nelle singole situazioni essa va ogni volta riproposta e implica il darsi attivo di una relazione di accoglienza e di prossimità, senza cui non si può nemmeno immaginare di formulare una risposta. Nel singolo caso però siamo rimandati a una questione universale: che cosa si nasconde dietro l’invocazione a morire da parte di un malato terminale?

Più  radicalmente, quindi, la domanda implica – come dice il teologo morale Maurizio Chiodi, a cui molto mi riferisco in questa mia riflessione sull’eutanasia – un’ermeneutica del desiderio che si nasconde nella parola del lamento del malato. In questo lamento si esprime “una ferita del desiderio umano” .

Questa ermeneutica, naturalmente, è  ben più che interpretazione di un eventuale desiderio di morte, perché rimanda a una questione originaria: che cosa desidera un uomo, malato, anche e proprio nell’approssimarsi della morte? Superando la tentazione di un rapporto distaccato e disimplicante, ove ci si limiti a prendere atto di una richiesta, diventandone frettolosi esecutori materiali, più radicalmente è necessaria un’ermeneutica del senso obbiettivo che si cela nel lamento del soggetto sofferente: come è possibile riconoscere nel dolore la promessa della vita? In questo lamento si potrebbe esprimere l’insopportabilità di un dolore fisico che non lascia scampo e da cui non ci si può disinvischiare, oppure l’impotenza, la schiavitù e la passività che ottunde la sensibilità, o la debolezza mortale di una vita che si spegne, o il disagio e la pesantezza di un corpo sentito come “nemico”, o l’estraneità e l’insidia della malattia che consuma e corrode anche la volontà di vivere, o la solitudine e l’incomunicabilità degli altri che per quanto vicini rimangono comunque estranei, o la paura di perdere tutto – affetti, legami – e di doversi definitivamente separare da tutto ciò cui ci si è attaccati nella vita, o la rivolta e la ribellione davanti a un non senso da cui ci si sente schiacciati, o il desiderio di un sollievo assai difficile da esaudire…

Lenire il dolore fisico, in tale situazione è molto importante. Ma il dolore non è solo una questione fisica. “Esso designa un’esperienza dell’uomo intero, nella sua indivisibilità, biologica, psichica e spirituale. In questa luce si ripropone la questione: dentro il lamento del malato terminale c’è sempre davvero un desiderio di morte?  Questo lamento non può essere invece il suo modo di condividere, oppure non è esso anche la richiesta – a qualcuno o a qualcuno con la q maiuscola – di una pausa e di un po’ di respiro? Il lamento, forse maggiormente di un dignitoso silenzio, non dice piuttosto la debolezza dell’uomo che, di fronte al dolore, alla prova, al buio, all’oscurità e perfino di fronte al ‘salto’ della morte, è tentato di soccombere e disperare? E allora il lamento – e la stessa invocazione alla morte – non sarebbe piuttosto una supplica da supportare, o un’invocazione che non verrebbe affatto esaudita se fosse impazientemente liquidata? Il lamento non potrebbe, ancora, esprimere il giusto desiderio di una qualità diversa della presenza degli altri, la richiesta di non essere lasciati soli e di ricevere un nuovo e altro tipo di attenzione e di cura?”

La cura del morente sarà anche obbiettivamente la migliore predisposizione di quelle condizioni che evitano il nascere della richiesta di morire, interpretando il vero senso di questo desiderio e prendendosi cura del morente con una presenza responsabile, nel rispetto del mistero della morte.

La soluzione del problema, quindi, non sembra tanto quella di esaudire la richiesta di morte, quanto quella di ridare una speranza. Questa speranza può essere tenuta viva anche dalla presenza di coloro che stanno attorno al morente con affetto e solidarietà, accompagnandolo, sostenendolo, aiutandolo nelle sue necessità quotidiane.

Le cure palliative sottolineano a questo proposito la necessità di non accanirsi; vi è un momento in cui al paziente non devono più essere praticati né esami diagnostici, né terapie aggressive, ma solo curati i sintomi dolorosi e non dolorosi. In fondo, l’accanimento terapeutico ha in sé la stessa logica dell’eutanasia. Se voi ci pensate, l’eutanasia è un’anticipazione frettolosa della morte, è una scelta di violenza, è una sorta di caricatura dell’abbandono e della rassegnazione alla morte. Imponendosi la morte e abdicando precipitosamente ad essa, si trasgredisce quel debito di fedeltà nei confronti della promessa della vita… Ugualmente anche l’accanimento terapeutico è un agire che occulta e non riconosce la condizione mortale, un’ostinazione che combatte la morte assolutizzando il finalismo biologico e i meccanismi biologici che, se sono condizioni obbiettive della vita, non coincidono tuttavia con l’intero dell’uomo. Il vero compito posto dal superamento dell’alternativa tra eutanasia e accanimento terapeutico è allora la necessità di superare l’alternativa tra il decidere di morire (suicidio) o il lasciarsi morire e il non voler morire a tutti i costi. Il vero compito dell’uomo è invece – noi sappiamo –  quello di una morte buona.

Certo, resta il problema di chi non è d’accordo con noi, chi non pensa queste cose, chi non accetta tutto ciò, oppure qualcuno che, pur non essendo in stato terminale, non riesce ad sopportare la situazione in cui sta vivendo. Però, capite?, non è più un’eutanasia proposta a tutti. Perché, per il malato terminale abbiamo già detto che esiste l’addormentamento profondo e non c’è la necessità di fare ancora un’altra legge; mentre, per chi non è terminale, si potrebbe chiedere allo Stato come poter garantire la tutela di queste posizioni, di queste persone, dando loro la possibilità di una morte dignitosa, anche se non sono malati terminali. E’ proprio quindi necessario fare una legge che consente di rendere l’eutanasia disponibile per tutti? Ecco, io penso che noi dovremmo sforzarci di capire che oggi abbiamo già molte cose in mano per poter andare avanti a fare in modo che le persone possano morire in modo dignitoso. Ma esiste una realtà di persone non malate terminali per cui forse occorre pensare che ci possa essere qualche intervento apposito per loro. Ma questo sarà il tema di un prossimo incontro che noi faremo, qui, con il prof. Luciano Eusebi, dell’Università Cattolica, per vedere se effettivamente è possibile evitare di avere una legge che indiscriminatamente – come per esempio avviene oggi in Olanda – consente l’eutanasia a chiunque la chiede; e che invece riguardi soltanto persone che non hanno una visione cristiana, religiosa, della vita e che, non essendo terminali, potrebbero sfuggire all’accompagnamento che invece noi possiamo fare anche con un addormentamento profondo.

 

Antonietta Cargnel

 

Nota redazionale: chi volesse seguire il suo intervento e il dibattito che ne è seguito  con i partecipanti all’incontro può cliccare qui sul sito della Rosa Bianca.

 

 

 

 

One Comment

  1. Sul suicidio medicalmente assistito e sull’eutanasia.

    Si discute sulla possibilità di depenalizzare l’aiuto al suicidio, previsto come reato dall’art. 580 c.p..
    La sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019 ha già escluso, di fatto, la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219, o con modalità equivalenti, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
    La Corte, infine, ha auspicato che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore, conformemente ai principi precedentemente enunciati.
    Si è dunque giunti a una decisione giurisprudenziale storica, in quanto viene riconosciuta, per la prima volta nel diritto italiano, insieme con il diritto alla vita, “la decisione del soggetto passivo di porvi fine”.
    È stato pertanto introdotto nel nostro ordinamento il suicidio, “deciso da un soggetto che esercita una libertà costituzionale”, la libertà della persona di autodeterminarsi anche in ordine alla fine della propria esistenza, scegliendo quando e come essa debba aver luogo, quando “é tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili”.
    La legge n. 219 del 2017 che prevede il rifiuto, anche anticipato, delle terapie salvavita ha indubbiamente agevolato la decisione della Corte.
    Il suicidio è stato finora riconosciuto dal diritto come un fatto, mai previsto come un diritto, ma, d’ora innanzi, assumerà la forma di atto giuridico, sebbene allo stato, nei limiti stabiliti dalla Corte costituzionale.
    Nel rispetto della decisione giurisprudenziale sia permessa una riflessione sul fine vita.
    I fatti di cronaca, all’origine del pronunciamento del giudice delle leggi, hanno messo in luce una realtà di profondo dolore e sofferenza che accompagna tantissimi ammalati i quali, ad un certo momento della loro storia, si trovano smarriti e impossibilitati a continuare a lottare, non riuscendo più ad affrontare il male che ha invaso le loro vite. L’istinto vitale cede di fronte all’immensità del dolore e sopraggiungono propositi di morte.
    Nessuno può entrare in questo abisso se non in punta di piedi, con uno sguardo di fiducia nelle cure mediche, anche palliative, e restando vicini all’ammalato con la presenza fisica e con l’assistenza necessaria.
    Inevitabilmente tali vicende coinvolgono le persone congiunte, che spesso sono impreparate ad affrontare una storia di grande dolore.
    Vi sono anche tante vicende esemplari di accettazione del dolore “buio”, che ci interrogano su quale sia il limite di sopportazione delle sofferenze della malattia e della vita.
    Il diritto, tuttavia, non può sottrarsi a contribuire ad alleviare la sofferenza, con gli strumenti che gli sono propri e che, anzitutto, pongono l’ammalato al centro dell’attenzione dello Stato, in quanto la salute ricade tra i diritti inviolabili dell’uomo (art. 2 e 32, co. 1 Cost.).
    È urgente, in proposito, partire dalla figura dell’ammalato nell’odierna società.
    Quali sono i diritti dell’ammalato? Quanto è accettata la sofferenza nel comune vivere?
    Se da una parte i progressi della ricerca scientifica e della scienza medica migliorano ogni giorno la qualità della vita, dall’altra si constata come la barriera del dolore non può essere completamente abbattuta, anche perché essa rappresenta una componente del nostro essere persone.
    Si discute in proposito di diritto di vivere e di diritto di morire.
    Bisogna, allora, preliminarmente, per tentare di inquadrare l’intera vicenda umana, esaminare attentamente la nozione di diritto alla vita, presupposto dalla nostra Costituzione e premessa dello sviluppo della persona (art. 3, co. 2 Cost.).
    La vita umana è riconosciuta dall’ordinamento fin dal suo concepimento (artt. 1, co. 2; 231, 232, co. 1, 234, co. 1 e 3, 462, 643, 715, 784, 803, co. 2 c.c.; ) mentre con la nascita si acquista la piena capacità giuridica (art. 1, co. 1, c.c.).
    Dunque, la vita umana è un fatto che il diritto fa proprio nell’ordinamento giuridico.
    Difficile fissare la nozione di vita umana che, nella sua corsa, determina nel tempo e nello spazio situazioni giuridiche mutevoli.
    Ma di tali situazioni giuridiche il diritto deve farsi carico se vuole approntare i rimedi appropriati.
    La nascita, ad esempio, viene considerata in relazione (in rapporto) con la famiglia, di cui ne costituisce l’edificazione o con i beni, che potrebbero già appartenere al nascituro, o essere da questi acquistati per diritto di successione. Il neonato entra a far parte di obblighi e diritti che lo proteggono e lo inseriscono a pieno titolo nella società giuridica di cui presto sarà protagonista.
    La vita umana, pertanto, si impone nel suo essere e nel suo divenire, spinta dalla libertà che gradualmente e consapevolmente verrà acquisita e che la condurrà a piena maturazione.
    Molti concetti in tema di vita e di esistenza che oggi appartengono all’esperienza realmente vissuta, non lo erano nel passato. Ad esempio il considerarsi “attore della propria vita” è un concetto recente nella nostra tradizione giuridica, mentre nei decenni scorsi i minori e le donne (talvolta anche gli uomini adulti) erano totalmente affidati alla volontà dei genitori o dei tutori, anche in ordine a scelte personalissime, quali l’istruzione o il matrimonio.
    Al giorno d’oggi la vita, pur inserita dentro le numerose relazioni umane e giuridiche costitutive della persona, ci appartiene in toto, anche grazie alle scelte operate dalla Costituzione, che ha messo al centro dell’interesse sociale proprio lo sviluppo della persona.
    Ciascuna esperienza umana, totalmente intesa, è unica perché unici sono gli elementi di cui è composta, perché diversi sono i rapporti che la circondano, così come unici sono gli interessi che la dominano.
    Pur non potendo scomporre la vita degli uomini e delle donne dagli elementi reali (i beni materiali, fondamentali per la sopravvivenza), si cercherà qui di analizzare solo alcune situazioni fondamentali personali dell’esperienza umana, al fine di rilevarne l’orizzonte finale e il patrimonio unico e insostituibile (in dogmatica, il fine e la struttura).
    La vita, dunque, si costituisce in sé, per quanto sia desiderata o giunga imprevista, appare nella storia umana segnandone la sua prosecuzione.
    Essa trascende i propri limiti fisici ed è costantemente orientata a superarli nel continuo desiderio di una felicità eterna o definitiva. La nostra Costituzione, diversamente da altre, non si sofferma su tale elemento di felicità, insito nella natura umana, ma traspare da essa la volontà di realizzare una società in cui il cittadino si senta realizzato nelle sue più profonde aspirazioni. Non può essere sottovalutato l’elemento spirituale nella ricerca della felicità o, più sommessamente, nell’affermazione di una società più giusta. Non si vuole introdurre qui un argomento religioso, ma solo richiamare le aspettative profonde radicate nella coscienza di ciascuno.
    Descrivere la vita è compito arduo ed è esperienza nota che, per quanto riusciamo a studiarla nelle sue manifestazioni, tanti suoi aspetti naturali e spirituali sono inaccessibili.
    La nostra civiltà giuridica ha fatto un salto notevole rispetto al passato, laddove la società era costruita intorno al potere o allo Stato, mentre oggi, è utile ribadirlo, per scelta costituzionale, la società è costruita intorno alla persona. Questo passaggio epocale è fondamentale per comprendere l’affacciarsi dei nuovi diritti sulla scena giuridica, perché ciascuna situazione fattuale aspira ad essere riconosciuta quale situazione giuridica dall’ordinamento statale, cosicché oggi siamo entrati nella ”età dei diritti”.
    Intorno al tema della vita sono state compiute dall’ordinamento repubblicano italiano numerose scelte che riflettono il modo attuale di concepire la libertà personale.
    Si diceva prima che la vita è un fatto (giuridico) e come tale ha un suo svolgimento; occorre considerare la vita umana anche da questa prospettiva, perché accettare un ordinamento giuridico democratico significa anche decidere di “viaggiare” inseriti in un sistema che ci protegge, e ci mette al riparo da scelte personali, ritenute vantaggiose inizialmente, ma che poi possono rivelarsi, per noi stessi, dannose.
    È utile pertanto che tutti i convincimenti, anche profondi, della nostra esistenza si confrontino con il tessuto giuridico che si è costruito nell’esperienza sociale.
    L’esperienza umana incontra, insieme alle sue meravigliose manifestazioni che la rendono straordinariamente bella, momenti di profonda incertezza e fragilità quando vengono meno i parametri fondamentali dell’esistenza: lavoro, cibo, riparo, salute.
    La condizione oggettiva di fragilità, che si determina con la malattia, espone la persona ad una serie di bisogni che lo Stato, negli ultimi decenni, ha convogliato verso l’organizzazione dell’assistenza sanitaria pubblica e privata che in Italia ha raggiunto livelli di eccellenza nel contesto mondiale.
    Nonostante tanti progressi nella ricerca e nell’organizzazione delle cure, la persona ammalata può sperimentare una condizione di peggioramento irreversibile della qualità della vita, che non riconosce più come tale, interrogandosi se valga la pena ancora che essa venga vissuta.
    Sono gli interrogativi di cui il diritto si è dovuto occupare con i provvedimenti normativi sopra richiamati.
    Il tema è molto scottante, ma non si dovrebbero trarre su di esso conclusioni e soluzioni affrettate.
    La letteratura recente (per tutti, G. Fornero, Indisponibilità e disponibilità della vita. Una difesa filosofico giuridica del suicidio assistito e dell’eutanasia volontaria, UTET, 2020) ritiene oramai vincente la teoria del principio di autodeterminazione della propria vita e della propria morte, con ampie e approfondite ricerche e argomentazioni, fondamentalmente riconducibili alla considerazione e alla constatazione della piena maturità e disponibilità della condizione umana e della sua libertà.
    Ma dispiace che sia stata rapidamente avvalorata una lettura eutanasica della legge n. 219/2017, che risponde, al contrario, al principio opposto di voler conservare in capo all’ammalato la disponibilità della propria vita e delle sue cure nel rispetto della persona, cure che in un dato momento possono essere ritenute inaccettabili, e invece interpretata quale richiesta di soppressione della vita.
    Basta considerare gli attuali dissensi e rifiuti di molti sull’opportunità della somministrazione del vaccino contro la pandemia (c.d. no-vax), che non impediscono però poi, alle stesse persone che hanno rifiutato di vaccinarsi una volta contagiate dal virus covid-19, di accedere a tutte le prestazioni sanitarie necessarie e disponibili affinché abbiano salva la vita.
    È necessario non forzare mai lo spirito di una legge per non dover giungere a risultati disastrosi.
    In verità si fa fatica ancora a individuare una situazione, per quanto dolorosissima, che faccia sorgere la necessità da parte del legislatore di predisporre un diritto di morire; ciò sia detto nel pieno rispetto di coloro che sono realmente sofferenti e che invano chiedono un sollievo, ma a cui il diritto non può rispondere togliendo ogni speranza (G. ZAGREBELSKY, 2011).
    Lo Stato ha nei confronti di costoro un dovere di assistenza integrata e di sostegno anche psicologico, nonché spirituale, secondo le premesse sopra accennate, perché deve incoraggiare la vita e rafforzarla, altrimenti uscirebbe sconfitto dal suo ruolo istituzionale di tutela delle persone, con grave compromissione delle fondamenta dell’assetto costituzionale.
    Alla domanda di aiuto sacrosanto proveniente da un letto di sofferenza tutta l’organizzazione scientifica e amministrativa dovrebbe corrispondere con i numerosi strumenti che il progresso può mettere in campo, a partire da una capillare diffusione delle cure contro il dolore.
    La vita rimane un mistero a noi stessi, compreso il dolore, e il diritto è alla vita, non sulla vita, perché è bene sempre ricordarlo essa è sacra, e neanche il diritto può liberamente manipolarla.
    Occorre, forse, che tutti rimaniamo al di qua della soglia del dolore, perché esso, nonostante tutto, ci interroga e ci rende uomini e donne migliori.
    L’efficientismo tecnologico mal sopporta il dolore, ma esso fa parte della condizione umana, mentre alcuni Stati corrono veloci nel volerlo abolire per legge!
    Non precipitiamo nell’abisso, rimaniamo uomini e donne che sanno anche soffrire. La ragione, anche in tali circostanze, rimanga serena e lucida perché la nostra vita è capace di donare anche nella malattia. Queste sono considerazioni “civili”, umane, non religiose.
    La nostra Costituzione ha predisposto tutti i rimedi necessari per affrontare anche il dolore con coraggio e dignità.
    La bioetica rimanga sulla soglia, non si trasformi in etica del potere!
    La medicina incoraggia questa direzione; i medici sono (da sempre) contrari a percorrere strade “sbrigative” (v. Dichiarazione WMA, Resolution on euthanasia, 2019). Vinca il diritto di vivere sul diritto di morire.
    La vera condizione di minorità da cui uscire è quindi l’accettazione della nostra condizione di uomini, sia detto col massimo rispetto di chi può cedere allo scoraggiamento, e non la proclamazione di essere oramai divenuti adulti, e quindi poter autodeterminare ogni scelta.
    Forse la nostra vita è destinata a pulsare (e a farsi sentire) fino all’ultimo, come il nostro cuore.
    Lucianosalvatorerocca@gmail.com
    Dottore in giurisprudenza

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