Il mondo sospeso: nazione e cittadinanza tra «città nuove» e «vecchi stati»

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L’autore è ricercatore di Storia contemporanea alla IULM di Milano e membro della redazione di “Appunti di cultura e politica”

Nell’estate del 1952, quando il demografo Alfred Sauvy diede fama al concetto di terzo mondo in un articolo per «L’Observateur», il suo connazionale Charles-Eduard Jeanneret-Gris, meglio noto come Le Corbusier, stava lavorando in India al progetto urbanistico di Chandighar, la «città d’argento», un luogo sospeso tra passato e futuro, dove tra azzardate soluzioni urbanistiche svettava la forma di una mano tesa che si apriva verso il cielo. Era quello il simbolo di un incontro tra due progetti utopici: da una parte quello dell’architetto francese, che fin dagli anni ’20 aveva cercato di dare forma alla sua idea di costruzione della cittadinanza attraverso la riorganizzazione degli spazi urbani, ispirandosi in parte alle culture del pluralismo organico; dall’altra quello del presidente Nehru, fautore di uno Stato forte e pedagogico che si facesse guida di un paese uscito dall’esperienza coloniale e frammentato in una miriade di pluralità. Un progetto che, attraverso una statualità sperimentale e una politica rivendicativa si muoveva alla ricerca di un prototipo originale che unisse il fardello del passato alle spinte della modernità (spesso con risultati contraddittori come nel caso della green revolution).  

Il terzo mondo ipotizzato da Sauvy, prima della grande ondata di decolonizzazioni africane, doveva essere portatore di novità demografiche, politiche, culturali, sociali, in grado di scardinare le paratie stagne della guerra fredda: attraverso formule diplomatiche di non allineamento ma anche grazie alla sperimentazione di inediti cammini di modernità. Processi che avrebbero dovuto rinnovare il dualismo tra un Occidente e un Oriente che sembravano sul punto di scontrarsi in una potenziale deflagrazione resa sempre più apocalittica dalle logiche della corsa atomica.

Sessant’anni dopo quelle utopie, il mondo è profondamente mutato e i fenomeni di globalizzazione hanno subito una drastica accelerazione. L’ascesa e crisi del terzo mondo, la sua frammentazione in un quarto e quinto mondo, la contrapposizione tra paesi più industrializzati e in via di sviluppo, il deterioramento dei termini dello scambio, la crisi debitoria, la nuova guerra fredda, la fine del bipolarismo, la New Economy, le incertezze dell’unipolarismo americano e le difficoltà di maturazione del sistema Onu hanno lasciato spazio a una fase nuova, di complessa transizione, in cui i diversi attori internazionali, statuali e di cittadinanza hanno ridefinito i propri orizzonti ed equilibri, aprendosi a prospettive e soluzioni, spesso inedite.

Dopo una lunga germinazione, che ha le sue origini nelle svolte economiche degli anni ’70 del ’900, i rapporti tra quelli che sono stati ribattezzati «Nord» e «Sud» sono mutati radicalmente, ridefinendo la mappa degli equilibri mondiali. Sulla scia dell’ultraventennale processo di crescita cinese, della diffusione dei poli finanziari, del consolidamento di realtà «intermedie» e del ritorno delle materie prime, si sono aperte nuove interdipendenze e ridefiniti i rapporti di forza, dentro e fuori il sistema composito delle organizzazioni internazionali. Il tutto su uno sfondo in cui sono mutati anche gli equilibri tra le grandi corporations, con il ridimensionamento di colossi come Itt, Gm e Ibm, a fronte di una prepotente avanzata di società finanziarie, distributive e petrolifere (nel 2013 la lista di Global Fortune 500 vedeva ai primi posti per fatturato Royal Dutch-Shell, Wal-Mart, Exxon-Mobil, seguite dalle cinesi Sinopec, Cnp e State Grid).

Nell’ultimo triennio, segnato dalla crisi economica dei paesi occidentali, il declino dei G7-G8 e la sua sostituzione con il G20, così come l’ascesa dei cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), ha rimesso in gioco non solo equilibri economici e commerciali, diritti del lavoro e processi di delocalizzazione ma ha inciso (come evidenziato dalle ricerche di Undp e Unrisd) anche sulla logica dello sviluppo, della crescita e della distribuzione della ricchezza, fino a sfiorare i nervi sensibili del rapporto stato-cittadino.

Ricordava La Pira nel 1963, in occasione della visita a Firenze di Le Corbusier, che lo strumento privilegiato per comprendere le trasformazioni di questo rapporto sensibile è offerto dalle città. Se diamo una rapida occhiata alle vicende dei «nuovi grandi» troviamo che proprio lo sviluppo urbano resta uno snodo cruciale, in cui si gioca la partita tra vecchio e nuovo, tra processi migratori, economici, di concentrazione del potere e di ridefinizione della cittadinanza. Nel caso della Cina, il paese che ha sperimentato il più dirompente sviluppo urbanistico del nuovo millennio, il tema della «crescita armoniosa» nel rapporto città-campagna (costa-regioni interne), è diventata la sfida più delicata, come riconosciuto pubblicamente dagli stessi vertici del Partito comunista nel passaggio di consegne alla quinta generazione, consumatosi nell’autunno del 2012. Il Sudafrica dei grandi slums, ha avviato un processo di trasformazione importante ma senza riuscire ad emanciparsi dal modello della township consolidatosi nella stagione del segregazionismo. L’India ha raggiunto alla fine del 2012 una popolazione di 1,27 miliardi di persone (il 17,3% della popolazione mondiale) con un tasso di urbanizzazione ancora relativamente basso (il 31,89%, contro il 52% della Cina, il 62% del Sudafrica, il 74% della Russia e l’85% del Brasile), nonostante l’impatto iconico di megalopoli come Mumbay, Delhi o Bangalore.

Mentre l’Europa vive un rapporto piuttosto statico con i propri grandi centri urbani (l’Italia in modo particolare), le città nuove stanno spezzando in molti paesi emergenti le logiche tradizionali degli insediamenti umani, creando nuove barriere e confini, reali e simbolici. Proprio la città è il luogo in cui si respira in modo forte la crisi delle istituzioni statuali e la fragile incompiutezza di quelle internazionali, attraverso la riproduzione di mondi separati sempre più lontani dalle utopie delle periferie «vive» del secolo scorso. In Brasile i grandi progetti edilizi legati ai prossimi mondiali e olimpiadi hanno isolato le favelas più scomode di Rio e Brasilia, mondi inconciliabili a livello istituzionale ma al contempo incorporati al tessuto urbano. In Messico, la 12° economia mondiale per Pil, mentre le grandi maquilas industriali disseminate lungo la frontiera appaiono come grandi isole metalliche, sospese tra il muro (la línea), città e deserto, le nuove élite economiche e finanziare si sono isolate in quartieri separati che proliferano in tutti gli snodi sensibili del paese: da Puebla a Monterrey. Simbolico risulta il caso di Santa Fé, costruita negli anni ’90 sul vecchio basurero (discarica) della città, ancor oggi circondata da sobborghi poverissimi, e fisicamente lontano decine di km dal centro e dai simboli politici e religiosi nazionali. Se nello zócalo (la grande piazza centrale di Città del Messico) la cattedrale spagnola si guarda negli occhi con il palacio nacional, divisi solo dai resti archeologici del vecchio templo mayor azteco, a Santa Fé la storia scompare e il paesaggio muta connotati e simboli: una porta invisibile, dove svettano l’ultramoderna chiesa dell’Opus dei e il recinto dell’Università Iberoamericana dei gesuiti, apre la strada a una sequela senza fine di grattacieli, sedi di corporation, centri commerciali para neoclassici e quartieri residenziali di lusso. Una formula di separazione non solo dalle povertà ma dalle logiche stesse dello Stato-nazione otto e novecentesco, che si ritrova da Singapore a Luanda e che assume dimensioni apocalittiche in paesi dalla esasperata frammentazione sociale, come El Salvador o Honduras. Nel paese con il più alto tasso di omicidi al mondo (91,2 ogni 100.000 abitanti, secondo i dati Undoc di inizio 2012), la corte suprema di Tegucigalpa ha recentemente respinto il progetto di una città interamente privatizzata: una model city fortemente voluta dal presidente Porfirio Lobo e concepita come primo nucleo di 20 zone urbane speciali. La bocciatura, provvisoria, deriva dalla natura, contraria ai principi costituzionali di sovranità, di città concepite ab origine come separate dal territorio nazionale, con proprie leggi, polizia, sistemi fiscali e politici. Alcuni politologi hanno parlato di un ritorno al feudalesimo, dimenticando però che qui scompaiono anche due presupposti fondamenti di quell’esperienza medievale: la terra e i doveri che il signore aveva nei confronti del contado.

Se nel XIX secolo il modello europeo di Stato nazione si diffuse e ricompose, tra guerre, violenze e nazionalismi esasperati ma anche sulla scorta di grandi processi costruttivi che contemplavano il consolidamento della cittadinanza e la nascita di meccanismi di welfare e solidarietà, nel XXI secolo, il nuovo urbano sembra rimettere in discussione i principi fondamentali della nostra contemporaneità.     

 

Massimo De Giuseppe

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