Il Giubileo della misericordia nella crisi dei debiti sovrani

| 0 comments

Deuteronomio, 15,1-3.12-15

Alla fine di ogni sette anni celebrate la remissione.

Ecco la norma di questa remissione: ogni creditore

che detenga un pegno per un prestito fatto al suo prossimo,

lascerà cadere il suo diritto: non lo esigerà dal suo prossimo,

dal suo fratello, poiché è stata proclamata la

remissione per il Signore.

 

Il Giubileo della misericordia ha messo al centro dell’attenzione il tema della purificazione e della conversione in una prospettiva personalista, dove il cambiamento di ogni individuo è la condizione indispensabile per un agire collettivo solidale. Come bene argomenta padre Giacomo Costa la misericordia è la radice della solidarietà e “la scelta di approfondire e vivere la misericordia attraverso un giubileo suggerisce di leggere la proposta in una dinamica radicalmente ecclesiale e sociale[1]. Nel libro del Levitico (25,8-11) viene proprio esplicitato il giubileo come momento di profondo cambiamento delle relazioni che informano il popolo di Israele, nelle dimensioni della giustizia e della riconciliazione tra gli uomini stessi e tra gli uomini e la terra. Mentre nel Deuteronomio (15) si affrontano esplicitamente la remissione dei debiti e la liberazione degli schiavi, diventati spesso tali proprio per incapacità di restituire il debito accumulato.

Il Giubileo straordinario della misericordia viene indetto dal Santo Padre in un momento della storia dell’umanità nel quale l’insostenibilità del debito – sia nella dimensione sovrana che in quella privata – non solo è al centro del dibattito pubblico, ma dà origine a relazioni sociali e politiche inique tra gli individui e tra gli Stati. Otto anni di crisi economica hanno portato a enormi deficit di bilancio degli Stati, alla ricomparsa della povertà nei paesi sviluppati e alla crescita della massa debitoria a livello mondiale. Il debito mondiale, in questi anni, è cresciuto del 40%, passando da 57 trilioni di dollari nel 2007 a 200 trilioni di dollari nel 2014. Crescono anche i paesi nei quali il debito è considerato insostenibile[2]: Giappone, Italia, Grecia, Cipro, Portogallo, Irlanda e Belgio sono tra i paesi ricchi quelli con il rapporto tra deficit e PIL più preoccupante, dove la crescita del debito è superiore alla capacità delle economie nazionali di mantenere un razionale servizio sul debito e ripagarlo. In questo contesto globale molto preoccupante, nel quale le recenti vicende greche sono un presagio di come il problema del debito possa fare precipitare i paesi già sviluppati in una spirale di impoverimento, riproporre nella contemporaneità i principi che sono alla base della remissione del debito e della liberazione dalla schiavitù, rimette in moto l’istituzione giubilare e la incarna allo stesso tempo nel mondo contemporaneo e nel suo naturale orizzonte escatologico e messianico.

Si tratta di capire come, nel presente, la dimensione sociale dell’istituzione giubilare – già sottolineata con forza da Giovanni Paolo II nella lettera apostolica Tertio millennio adveniente[3] – possa essere praticata attraverso una proposta di intervento sulla crisi debitoria che sia all’altezza e alla portata del presente. Non è immaginabile, infatti, una completa remissione dei debiti: nel meccanismo economico e sociale contemporaneo, essa avrebbe conseguenze opposte rispetto al perseguimento dell’equità sociale, falsando anche i meccanismi del credito esercitati in modo etico e solidale.

Se nell’anno giubilare indetto da Giovanni Paolo II prese corpo una campagna globale per la riduzione del debito dei paesi poveri, nella quale il Santo Padre chiese di “pensare ad una consistente riduzione, se non proprio al totale condono, del debito internazionale, che pesa sul destino di molte nazioni[4], oggi il problema permane per i paesi poveri, ma si è aggravato ed esteso, anche attraverso la crisi finanziaria globale, ai paesi ricchi e a quelli emergenti.

Debito sovrano e etica biblica

L’etica biblica sul debito ci può fornire alcuni principi guida per impostare una proposta di intervento sulla questione del debito sovrano, sul quale si vuole concentrare il presente articolo. Il debito è al centro della storia economica e sociale dell’umanità, come bene argomenta l’antropologo David Graeber[5] e come del resto testimoniano le Sacre Scritture, che affrontano con numerosi rimandi la questione del debito, individuando una serie di norme per regolare secondo giustizia il rapporto fra creditore e debitore. Come già enunciato, i due riferimenti nelle Sacre Scritture sono il Deuteronomio (15) e il Levitico (25)[6], testi nei quali la relazione tra creditore e debitore viene messa a nudo nella duplice dimensione di schiavitù e di liberazione. La relazione creditore-debitore, infatti, ha una natura bifronte: a seconda di come essa viene esercitata, può essere un elemento di liberazione dal bisogno, oppure può diventare uno strumento di controllo degli individui e degli stati, che si trovano soggiogati dai creditori una volta entrati nella spirale perversa dell’insostenibilità del debito[7]. Nel primo caso la relazione tra creditore e debitore ha una caratterizzazione solidale e fiduciaria, mentre nel secondo caso la concessione del credito in modo irresponsabile si trasforma in un istituto di potere che regola e gerarchizza le relazioni tra gli uomini e tra gli stati.

Nel Levitico viene sancito un principio di corresponsabilità, per il quale “il creditore non può esigere il risarcimento spogliando il debitore di tutti i suoi beni e abbandonandolo al suo destino, ma deve usare le sue sostanze per offrirgli la possibilità di rifondere il debito, rispettandolo nella sua dignità inalienabile di persona e lavoratore: fa’ vivere il tuo fratello presso di te”[8]. Il Levitico offre un’etica della responsabilità, per la quale il creditore non deve concedere prestiti troppo onerosi e deve mettere dal principio il debitore nella condizione di non accumulare un debito insostenibile. Nelle Sacre Scrittura, perciò, emerge una dimensione del debito dove la relazione tra gli uomini (e tra gli Stati) viene prima rispetto al denaro prestato: in questo senso Luigino Bruni e Stefano Zamagni evidenziano come l’istituto del prestito sia un bene relazionale[9], che va salvaguardato proprio nella sua dimensione pre-economica.

Nella crisi del debito sovrano vi è allora in primis un fallimento nella relazione tra gli stati, che ha ripercussioni più profonde rispetto alla sola possibile insolvenza come fatto economico. Il debito contratto tra stati – al pari di quello privato – deve sottostare anzitutto ai principi relazionali di responsabilità, solidarietà e mutualismo. L’istituto del credito va salvaguardato e ricostruito nella sua essenza di bene relazionale: perché ciò sia possibile è necessario individuare innovativi strumenti di governance che esaltino la dimensione della reciprocità nelle relazioni tra stati nazionali.

Debito sovrano, intergenerazionalità e cittadinanza

L’etica del debito rimanda ai principi di responsabilità del creditore e di relazione di reciprocità tra creditore e debitore, ma non solo. Esiste una relazione tra debito sovrano, intergenerazionalità e cittadinanza che va indagata. Intergenerazionalità e cittadinanza, infatti, rendono assai difficile rispondere alla domanda: chi deve pagare il debito sovrano? E chi lo paga realmente?

Partiamo dal principio. Il debito pubblico viene contratto da uno stato nazionale per far fronte al disavanzo tra le spese che lo stesso stato deve sostenere e le entrate che riesce ad avere in un determinato periodo di tempo. I benefici per i cittadini generati dell’indebitamento sono immediati nel caso in cui il debito venga utilizzato per alimentare spesa corrente, mentre sono posticipati nel caso in cui esso venga usato per fare investimenti. I costi del debito, invece, possono essere a breve o a lungo termine a seconda di come esso venga rifuso. Di fronte alla crisi debitoria contemporanea e alla crescente insostenibilità del debito, i benefici goduti in passato si sono tramutati in costi soprattutto per le nuove generazioni. Esiste poi una distribuzione sociale di costi e benefici all’interno di ogni generazione che andrebbe indagata a fondo. Non tutti i cittadini di uno stato, infatti, godono dei benefici e non tutti si sobbarcano i costi. Nella stratificazione sociale vi è una distribuzione di costi e benefici che può essere iniqua. Questo dipende dalle politiche economiche e fiscali di ogni stato. Nel suo lavoro, Hager[10] mostra come il processo di accentramento del debito europeo e statunitense nelle mani di un numero limitato di corporations, banche e fondi sovrani, rinforza le diseguaglianze sociali e riduce la capacità dei cittadini di incidere sulle politiche pubbliche, in favore dei proprietari del debito, che divengono gruppi di pressione molto forti nell’orientare le riforme di uno stato sovrano ed esercitano un potere asimmetrico nei confronti dei propri debitori. La posizione di forza dei proprietari del debito fa sì che le politiche di aggiustamento strutturale degli stati indebitati tendano a favorire di più il capitale rispetto al lavoro, attraverso meccanismi di tassazione che non toccano patrimoni e rendite, riforme di deregolamentazione nei rapporti sociali e di produzione, progressivo arretramento dello Stato nella politica economica e nei servizi alla popolazione.

Esiste poi il tema della cittadinanza, che aggiunge un elemento di discrimine nella distribuzione dei costi e dei benefici dell’indebitamento. Il lavoro di Anna Triandafyllidou[11] mostra – prendendo il caso della Grecia – come siano importanti i flussi migratori all’interno di un’area interstatale economicamente integrata come quella Europea. A partire da questo lavoro, Pagano[12] mette in luce come in ogni Stato le migrazioni interne e dall’esterno scardinano l’equità della distribuzione dei costi e dei benefici del debito. Prendiamo il caso dell’Unione Europea. I flussi migratori interni, ad esempio da un paese debitore ad uno creditore, fanno sì che cittadini che hanno goduto della spesa legata a indebitamento in uno stato, emigrando nello stato creditore beneficiano anche del rapporto ineguale che si instaura tra stato debitore e stato creditore. Nell’esempio di Pagano, i circa 350 mila greci che vivono in Germania hanno goduto dei benefici dell’indebitamento greco[13] ed ora, essendo emigrati in un paese creditore, godono dei benefici del controllo politico ed economico che la Germania esercita sulla Grecia. A rifondere il debito generato anche da questi cittadini, sono coloro che hanno mantenuto la residenza in Grecia e i nuovi arrivati, che però non hanno mai goduto dei benefici dell’indebitamento. Guardando ai flussi di persone interni all’Unione Europea, emerge come vi sia una emorragia di capitale umano dai paesi fortemente indebitati a quelli creditori, ad esempio dall’Italia verso Germania e Inghilterra[14] e dalla Grecia verso Germania e Paesi Bassi. Questo genera un doppio vantaggio per il creditore, che oltre al controllo sul paese indebitato[15] lo depaupera di popolazione in età lavorativa.

In questo contesto, “elevata mobilità delle persone e restituzione dei debiti contratti da paesi che si collocano in aree economicamente integrate sono difficilmente conciliabili[16]. Soltanto un debito federale, accompagnato da meccanismi di stabilizzazione automatici per le aree di crisi, è compatibile con la libertà di movimento interna all’area economica.

Intergenerazionalità e cittadinanza, allora, introducono un elemento di delegittimazione alla radice del debito pubblico: spesso chi lo ha contratto e ne ha beneficiato non coincide con chi è costretto a farsene carico e ne subisce soltanto i costi. Di questo, in una logica di equità e giustizia, bisogna tenere conto, per non scaricare i costi del debito sui poveri e sulle nuove generazioni.

Crisi del debito e vie di uscita

È molto facile entrare nella dinamica espansiva del debito pubblico, anche nel caso in cui la decisione di avere un disavanzo riguarda soltanto un arco temporale breve. Nel momento in cui un governo finanzia il suo disavanzo iniziale con una emissione di debito pubblico di lunga durata, anche avendo ben chiaro il vincolo di bilancio intertemporale, esso deve pagare ogni anno i servizi del debito. Se nell’esercizio di bilancio non si forma un avanzo primario pari alla spesa per interessi, si riproduce un disavanzo e pertanto la necessità di creare nuovo debito per pagare gli interessi sul debito.

Anche se il prodotto interno lordo cresce nel tempo, e si produce un avanzo primario, il PIL deve crescere più del tasso di interesse del debito, altrimenti il rapporto tra debito e PIL continua a crescere. In questo modo, prende corpo il circolo vizioso del debito pubblico o crisi di sostenibilità del debito pubblico[17], dove il debito entra in una dinamica espansiva incontrollabile.

Le strade per uscire dalla crisi di sostenibilità sono molte. Ma ognuna ha con sé alcune problematiche rilevanti. Storicamente i paesi Europei hanno fatto fronte alla crisi del debito attraverso la sua monetizzazione, ovvero stampando moneta senza dover più collocare nuovo debito sul mercato. L’immissione di moneta, però, porta ad inflazione[18] e comunque oggi non tutte le aree economiche hanno possibilità di immettere denaro nelle casse degli stati. Per esempio, la Banca Europea non ha la facoltà di stampare moneta e gli stati nazionali che partecipano all’Unione hanno perso questa facoltà nel processo di adesione alla moneta unica. Alternativo alla monetizzazione è il ripudio del debito. Lo stato si rifiuta di pagare gli interessi e di rimborsare il debito esistente. Tale opzione, oltre a generare un clima di forte sfiducia tra creditori e debitori che può avere ripercussioni nel tempo, è praticabile soltanto se lo stato indebitato è in grado di raggiungere subito una situazione di avanzo di bilancio. Altrimenti è costretto immediatamente a indebitarsi, ma in un contesto nel quale collocare nuovo debito sul mercato non sarebbe un’impresa così facile. Raggiungere un avanzo di bilancio può avere costi sociali molto alti e portare a una spirale recessiva per l’economia nazionale. Una terza strada è la riduzione drastica del debito pubblico, ad esempio attraverso una imposta patrimoniale[19]. Il suo successo però dipende dalla composizione dei proprietari del debito pubblico. Se gran parte del debito è di proprietà di corporations e fondi esteri le ricadute sui cittadini dello stato in crisi sarebbero troppo alte. Da qualche anno, inoltre, le imposte patrimoniali sono considerate da una parte crescente dell’opinione pubblica come imposte ingiuste, anche nel caso in cui colpiscano soltanto le fasce più ricche della popolazione. La quarta strada è la ristrutturazione del debito, attraverso un allungamento della durata oppure una riduzione del suo valore nominale. In questo caso, che rappresenta una via intermedia rispetto alle altre, il creditore dovrebbe comprendere come la ristrutturazione del debito avvenga anche nel proprio interesse, consentendo allo stato indebitato di non arrivare all’insolvenza. Tuttavia, la presenza massiccia di creditori internazionali può richiedere un impegno politico molto alto e la stipula di accordi di natura internazionale, con dei meccanismi vincolanti per l’adesione dei creditori.

Nell’attuale contesto europeo, ristrutturare il debito sembra essere la via più praticabile, nonostante vi siano opposizioni molto forti. L’opposizione ha alla radice due elementi: una opzione culturale, di matrice protestante, che attribuisce un valore morale molto forte alla restituzione del debito, presupponendo sempre un agire etico del creditore. La relazione tra creditore e debitore viene idealizzata nella sua esclusiva dimensione paritetica. In questa visione, non pagare un debito è moralmente inaccettabile. Una di politica economica, la così detta austerity, per la quale la sola soluzione per ridurre il debito sovrano è tagliare drasticamente la spesa e allo stesso tempo riformare la governance degli stati e ridurre il peso dello stato nell’economia e nella società in generale. Gli austeriani[20] sono convinti che solo mettendo in giro meno soldi, uno stato può rimettere in sesto le proprie finanze. Nella premessa ideologica di questa impostazione, vi è una visione dello stato come istituzione parassitaria, inefficiente e incapace di fare spesa pubblica virtuosa[21]. Non è chiaro, però, come sia possibile fare crescita del PIL, elemento centrale di questa impostazione che vuole tagliare per crescere riducendo il rapporto tra debito e PIL, se lo stato paga meno i propri dipendenti, realizza meno opere pubbliche, razionalizza scuole e ospedali, impone piani di ristrutturazione delle proprie società partecipate, riduce i servizi. Ammesso che ancora si possa promuovere una crescita sostenuta nei paesi europei, di fronte alla crisi del privato[22] la riduzione della spesa pubblica può essere il colpo di grazia che fa inceppare il meccanismo dell’economia. Gli austeriani difendono la propria posizione con il concetto di austerity espansiva, che però non trova riscontro nelle performance economiche reali dei paesi che hanno adottato questa dottrina.

 

La crisi dei debiti sovrani in Europa: verso un giubileo del debito europeo?

Il caso della Grecia è paradigmatico per comprendere quali meccanismi dominano la crisi debitoria degli stati in un’area economica integrata come l’Unione Europea. Abbiamo già messo in luce come sia difficile rispondere alla domanda: chi paga il debito? Gli spostamenti interni all’Unione Europea, soprattutto dai paesi debitori a quelli creditori, creano un disallineamento tra cittadinanza e residenza e pertanto tra chi paga il debito e chi ottiene i benefici di essere creditore. Mantenere un debito nazionale in un’area economica integrata produce perciò disparità importanti tra le persone. Ma proviamo a entrare più nel dettaglio della situazione della Grecia, sulla quale si è concentrato il dibattito pubblico europeo negli ultimi mesi.

Dai lavori della Commissione “Verità sul debito pubblico”[23] – nata per indagare sulla creazione e la crescita del debito sovrano, sul modo e sulle ragioni per le quali è stato contratto tale debito, e sull’impatto che le condizioni per la concessione dei prestiti hanno avuto sull’economia e sulla popolazione – abbiamo una serie di informazioni importanti.

Nonostante vi sia nell’opinione pubblica europea l’idea che i prestiti alla Grecia siano serviti a mantenere la spesa corrente dei governi ellenici, dei 226,7 miliardi stanziati nei piani di salvataggio del 2010 e del 2012, la maggior parte dei soldi è stata utilizzata per ricapitalizzare le banche greche e per onorare gli impegni con i creditori dello stato e dei privati greci, in gran parte banche tedesche e francesi, anziché per risanare i buchi di bilancio. Più precisamente, circa la metà del finanziamento è finito a rimborsare i titoli in scadenza e a ripagare gli interessi sul debito, mentre il 20% è andato alle banche greche; il resto dei fondi ha invece riguardato le attività di ristrutturazione e di riacquisto del debito. In definitiva, più dell’80% degli aiuti sono andati a beneficio diretto o indiretto del settore finanziario (nazionale ed estero). Soprattutto di quello tedesco, che infatti è riuscito a ridurre la propria esposizione nei confronti della Grecia dell’80% circa tra la metà del 2010 – quando è stata approvata la prima tranche di finanziamenti – e la metà del 2012. Soltanto l’11% circa è andato a coprire le necessità del governo greco, che però dal 2013 lavora in un regime di avanzo primario[24]. Circa il 50% dei prestiti, invece, è andato a finanziarie servizi sul debito. 81 miliardi sono stati utilizzati per soddisfare le obbligazioni di debito in scadenza e per i pagamenti degli interessi che hanno superato i 40 miliardi di euro.

Possiamo ricapitolare l’utilizzo dei prestiti alla Grecia con una tabella, dalla quale emerge con chiarezza come i servizi del debito sono diventati così alti da rendere insostenibile il debito greco. Rebus sic stantibus, la Grecia non sarà mai in grado di uscire dalla crisi debitoria senza innescare fortissime tensioni sociali e salvaguardando i più elementari criteri di equità e giustizia.

Voce di spesa Ammontare in miliardi di euro % sul totale dei prestiti
Ricapitalizzazione banche greche 48,2 19%
Capitale all’Esm 2,3 1%
Spese per l’Haircut su bond sovrani 34,6 14%
Restituzione al Fmi 9,1 3%
Debito in scadenza 81,3 32%
Pagamento degli interessi 40,6 16%
Fabbisogno di cassa del governo 11,7 5%
Deficit primario 15,3 6%
Riacquisto del debito 11,3 4%

 

Non vi sono tassi di crescita del PIL realistici che possano consentire alla Grecia di uscire dalla crisi debitoria senza una ristrutturazione profonda del debito. A questa conclusione è giunto anche il Fondo Monetario Internazionale, che nei giorni del referendum in Grecia ha chiesto un riscadenzamento del debito, grazie al quale la Grecia non avrebbe pagato interessi per 30 anni, se non un taglio definitivo e sostanziale del valore nominale dei titoli. Proposta fortemente osteggiata dalla Germania, che ha preferito finanziare ancora la Grecia creando nuovi debiti per pagare gli interessi sui debiti vecchi.

La situazione della Grecia mette in luce quali rischi corrono gli stati fortemente indebitati. L’applicazione dell’austerity può condurre ad una spirale debitoria irresponsabile, dalla quale è impossibile uscire. Nella crisi debitoria, l’Unione Europea si è mossa seguendo la teoria del rigorismo espansivo[25]: questa teoria prevede che il taglio della spesa pubblica farà ripartire l’economia perché i cittadini ultrarazionali prevederanno che la contrazione della spesa porterà ad una riduzione delle tasse e perciò inizieranno a spendere di più anticipando le entrate future. È l’impianto ideologico della teoria neoclassica, che si è dimostrato fallace proprio perché ha alla radice un assunto sbagliato, che gli attori agiscono sempre in modo razionale rispetto ai meccanismi di funzionamento dell’economia teorizzati dalla letteratura di settore. Questa strada non solo non ha rilanciato la zona euro, ma ha peggiorato notevolmente la situazione delle finanze pubbliche. “Dall’inizio dell’applicazione della dottrina del rigore la Grecia ha perso un quarto del PIL e ha visto aumentare il proprio rapporto debito/PIL dal 148,3% del 2010 al 175,1% del 2013. Il peggioramento del rapporto debito/PIL è generalizzato: in Portogallo dal 94% del 2010 al 129% del 2013; in Irlanda dal 91,2% del 2010 al 123,7% del 2013; in Spagna dal 61,7% del 2010 al 93,9% del 2013; in Finlandia– uno dei guardiani del rigore – dal 33,9% del 2008 al 61,6% previsto per il 2015[26].

Per questi motivi molti studiosi ed esponenti della società civile ritengono sia arrivato il momento di dare vita ad un’iniziativa di ampio respiro per la ristrutturazione e la riduzione dei debiti sovrani. Al proposito, esistono svariate proposte tecnicamente valide. Una di esse è stata anche elaborata in seno alla Commissione Europea, attraverso il Libro Verde del 21 novembre 2011[27], in cui si valuta la fattibilità di un’emissione comune di titoli sovrani tra gli stati membri dell’eurozona, ovvero la condivisione di emissioni sovrane tra gli stati membri e la ripartizione dei relativi flussi di entrata e dei costi di gestione del debito. La proposta, che va sotto lo strumento di Eurobond[28], è molto dibattuta. Su questo tema si sono esercitati molti studiosi, tra i quali Romano Prodi e Alberto Quadrio-Curzio, che hanno proposto la creazione di obbligazioni sovrane – gli EuroUnionBond – garantite dalle riserve auree detenute dai paesi della zona euro e gli economisti Jakob von Weizsäcker e Jacques Delpla, che già nel 2010 avevano elaborato una proposta basata sul mix di strumenti nazionali (redbond) e sovranazionali (bluebond).

Al di là delle soluzioni tecniche, che incidono anche sui vincoli di solidarietà tra gli stati, sugli Eurobond esistono posizioni ostili. In particolare la Germania teme che una mutualizzazione del debito porti ad atteggiamenti irresponsabili da parte dei governi dei paesi indebitati e che l’intero continente europeo possa essere soggetto a spirali inflazionistiche.

Un’altra proposta degna di attenzione è il così detto Piano Padre (Politically Acceptable Debt Restructuring for the Eurozone), appoggiato dall’economista gesuita francese Gael Giraud[29].

Il piano prevede che la Bce acquisti titoli a zero interessi per la parte eccedente il 60% del pil (la soglia prevista dal Patto di stabilità) del debito pubblico degli Stati dell’euro. Per l’Italia sarebbe una quota pari a quasi il 74% del pil, come dire debiti per un totale di circa 1.100 miliardi di euro. La quota di debito eccedente il 60% del pil, in sostanza, viene spazzato via. La quota restante sarà sufficientemente moderata da evitare timori di una fuga del mercato. Si libererebbero così importanti risorse oggi destinate al pagamento degli interessi e si produrrebbe un formidabile stimolo alla domanda interna di tutti i paesi

Gael Giraud ritiene che una ristrutturazione del debito debba necessariamente essere accompagnata da una regolamentazione finanziaria, da una regolamentazione bancaria e da un progetto di sviluppo europeo che abbia come comune denominatore la completa decarbonizzazione dell’economia. La finanza deve essere regolata perché ritorni a fornire liquidità e protezione all’economia reale e deve essere incentivata a fare investimenti di lungo periodo anziché speculazione a breve. Le banche devono ritornare ad avere funzioni distinte di deposito e di investimento. Il progetto di sviluppo deve essere generato da una politica industriale europea che garantisca una crescita sostenibile, attraverso l’innovazione tecnologica, la ricomposizione della frattura tra ambiente e società e la valorizzazione di attività economiche reali ad alta intensità di occupazione. Attenuare la crisi ambientale significa anche attenuare le esternalità negative dell’economia sull’ambiente, riducendo notevolmente i costi ambientali diventati insostenibili per un sistema economico a scarsa intensità di innovazione. Secondo l’economista francese, queste condizioni sono centrali perché una volta ristrutturato il debito non si riproducano i meccanismi che hanno generato la crisi debitoria.

La crisi del debito, perciò, non ha a che fare soltanto con l’affermazione dei principi di responsabilità e reciprocità tra gli stati, ma è strettamente connessa alla questione del debito ecologico[30] e alle sue vie di uscita, come del resto ha indicato il Santo Padre all’interno dell’enciclica Laudato Sii. Come ci ricorda Luciano Gallino nel suo ultimo lavoro[31], la crisi ha due elementi costitutivi: la tendenza alla sovrapproduzione, che si traduce in riduzione dei produttori di beni e servizi e in finanziarizzazione dell’economia; e lo sfruttamento del sistema ecologico oltre la sua capacità di carico. Elementi messi in luce già molti anni fa da James ‘O Connor – autore nel 1973 de La crisi fiscale dello Stato – che purtroppo non hanno mai avuto una vera cittadinanza nel dibattito politico, economico e culturale dei paesi occidentali.

L’elemento di saldatura tra la Gaudium et Spes – della quale il Giubileo straordinario celebra il cinquantesimo anno – e la Laudato Sii sta proprio qui: nel riconoscimento dell’inscindibilità della questione economica e di quella ecologica, che devono trovare una reciproca armonia in quanto parti di un tutto dove deve permanere la centralità dell’uomo, come “autore, centro e fine di tutta la vita economico-sociale”[32]. Autore, centro e fine di un sistema che non deve cedere a due speculari tentazioni: che lo sviluppo economico sia abbandonato alle sole logiche quasi meccaniche dell’economia e che lo sviluppo sia soggetto alla esclusiva decisione della pubblica autorità. Tra lo Stato e il Mercato c’è l’Uomo, con i suoi bisogni materiali, intellettuali, morali, spirituali e religiosi. Un Uomo che non può soddisfare i propri bisogni senza avere cura del Creato.

 

Giovanni Carrosio – giovanni.carrosio@yahoo.it

 

[1] Giacomo Costa, Giubileo della misericordia: alle radici della solidarietà, Aggiornamenti Sociali, anno 66, numero 4-2015, pp. 277-283.

[2] Quando il debito è molto alto i governi devono finanziare i servizi sul debito con nuove tasse e lo spazio fiscale per promuovere politiche di crescita economica diventa esiziale.

[3] Giovanni Paolo II, Tertio millennio adveniente, 1994, n. 51.

[4] Ibidem.

[5] David Graeber, Debt. The first 5000 years, Melville House, 2011.

[6] Giuseppe Trotta, Creditore e debitore, Aggiornamenti Sociali, anno 66, numero 1-2015, pp. 72-82.

[7] Sul concetto di debito come meccanismo di disciplina del comportamento dei debitori si veda Harris e Raviv, The Theory of Capital Structure, The Journal of Finance, 1, pp. 297-355, 1991.

[8] Ibidem.

[9] Luigino Bruni e Stefano Zamagni, Dizionario di Economia civile, Città Nuova, 2009.

[10] Sandy Brian Hager, Corporate Ownership of the Public Debt. Mapping the New Aristocracy of Finance, paper accepted for the publication in Socio-Economic Review published by Oxford University Press, 2015

[11] Anna Triandafyllidou, Migration in Greece. Recent Development in 2014,  Report prepared for the OECD Network of International Migration Experts, Paris, 6-8 October 2014

[12] Ugo Pagano, Chi paga il debito? Le insidie del concetto di “popolo greco”, menabò di eticaeconomia, 30 luglio 2015

[13] Sul dibattito relativo l’utilizzo delle risorse nel primo salvataggio della Grecia si veda Nicola Borri e Pietro Reichlin, Bailout greco: dove sono finiti i soldi, lavoce.info, 10 luglio 2015

[14] I giovani italiani tra i 20 e 40 anni emigrati in altri paesi europei dal 2008 sono circa 210.000. I primi due paesi per destinazione sono Inghilterra e in Germania.

[15] Si veda a proposito la svendita degli aeroporti greci alla società tedesca Fraport, episodio emblematico di come la relazione tra creditore e debitore possa essere uno strumento di controllo politico-economico tra gli stati.

[16] Ugo Pagano, ibidem.

[17] Ignazio Musu, Il debito pubblico. Quando lo Stato rischia l’insolvenza, Il Mulino, 2012

[18] È contrario al legame tra emissione di moneta ed inflazione Becchetti. Egli evidenzia come vi sia un dividendo monetario della globalizzazione, che fa sì che in un contesto di concorrenza globale sul costo del lavoro sia assai difficile aumentare i prezzi delle merci a fronte di un aumento della domanda.  Si veda il suo ragionamento in Leonardo Becchetti, La macroeconomia civile. Un cambio di passo per l’Europa, Aggiornamenti Sociali, gennaio 2015, pp. 39-48

[19] Al proposito è nota la posizione di Thomas Piketty sulla istituzione di una imposta mondiale sul capitale. Si veda Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, 2014

[20] Paul Krugman, Where are the Austerian Economists?, New York Times, 23 settembre 2013.

[21] A contrastare questa visione, tra gli altri, i lavori di Mariana Mazzucato. Si veda Mazzucato, The Entrepreneurial State. Debunking Public vs. Private Sector Myths, Wimbledon Publishing Company, 2013. L’economista mostra come le innovazioni che hanno trainato l’economia negli ultimi 30 anni sono state possibili grazie al capitale di rischio a lungo periodo immesso dallo stato nei fondi per l’innovazione tecnologica e la ricerca e sviluppo. Questo a differenza della finanza privata, che ha avuto un ruolo predatorio con investimenti volti alla speculazione.

[22] È bene ricordare come la crisi dei debiti sovrani prende forma anche in seguito alla crisi dei subprime e la capitolazione delle maggiori banche d’affari statunitensi. La crisi globale scaturita dalla crisi finanziaria ha fatto entrare i paesi occidentali in una spirale recessiva con ricadute sulla sostenibilità del rapporto debito/pil. Per una ricostruzione sintetica, ma puntuale, della crisi rimandiamo al Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace 2011, 7-11. Esiste anche una lettura della crisi differente, che va più alla radice delle dinamiche economiche, che fa riferimento al concetto di sovrapproduzione. Secondo questo approccio, l’economia capitalistica centrata unicamente sul profitto – a differenza dell’economia di mercato – tende a sovra produrre per massimizzare l’accumulazione di capitale e a ridurre sempre più il costo del lavoro, attraverso la delocalizzazione o l’automazione dei processi produttivi. Ma la produzione incessante di merci e la riduzione del potere di acquisto delle famiglie porta a fasi di saturazione della domanda, con la conseguente incapacità di valorizzare i capitali investiti. Questo meccanismo è stato esaltato dalla cartolarizzazione e dal facile accesso al credito al consumo per i privati, che per diversi anni hanno consumato al di sopra delle proprie capacità indebitandosi. Per una riflessione su crisi e sovrapproduzione si veda Giorgio Osti, Scarsità del lavoro e crisi ecologica. L’urgenza di riformulare i nostri scenari, Aggiornamenti Sociali, maggio 2013, pp. 374-383.

[23] Si veda il documento Truth Committee on Public Debt, edito dal Parlamento Ellenico nel 2015.

[24] Yiannis Mouzakis, Where did all the money go?, Macropolis.org, 5 gennaio 2015

[25] Alesina e Ardagna, Large Changes in Fiscal Policy: Taxes Versus Spending, NBER Working Papers n. 15438, 2009 <http://econpa-pers.repec.org/paper/nbrnberwo/15438.htm>

[26] Leonardo Becchetti, La macroeconomia civile. Un cambio di passo per l’Europa, Aggiornamenti Sociali, gennaio 2015, pp. 39-48.

[27] Commissione Europea, LIBRO VERDE sulla fattibilità dell’introduzione di stability bond, Bruxelles, 23.11.2011

COM(2011) 818

[28] Gli eurobond sono un ipotetico meccanismo solidale di distribuzione dei debiti a livello europeo attraverso la creazione di obbligazioni del debito pubblico dei Paesi facenti parte dell’eurozona, da emettersi a cura di un’apposita agenzia dell’Unione europea, la cui solvibilità sia garantita congiuntamente dagli stessi Paesi dell’eurozona.

[29] Gael Giraud, L’illusione finanziaria, intervista 23 ottobre 2013, www.ccdc.it

[30] Giorgio Osti, Nuovi asceti. Consumatori, imprese e istituzioni di fronte alla crisi ambientale, Il Mulino, 2006.

[31] Luciano Gallino, Il denaro, il debito e la crisi spiegata ai nostri nipoti, Einaudi, 2015.

[32] Benedetto XVI, Caritas in Veritate, n.25.

Lascia un commento

Required fields are marked *.