IL DISCORSO DI GIORGIO NAPOLITANO. «La questione sociale sia il cuore della politica”

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Pubblichiamo il testo integrale del discorso di fine anno del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il quale ha esordito dicendo: “Muoverò dal bisogno che avverto di una considerazione più attenta e partecipe della realtà del paese”: una realtà grave che “bisogna sentire nel profondo della nostra coscienza e di cui ci si deve fare e mostrare umanamente partecipi. La politica, soprattutto, non può affermare il suo ruolo se le manca questo sentimento, questa capacità di condivisione umana e morale” (le frasi in grassetto sono redazionali).

Un augurio affettuoso a tutti voi, uomini e donne d’Italia, che vivete e operate in patria e all’estero, e in particolare a quanti servono da lontano la nazione, in suo nome anche rischiando la vita, come nelle missioni di pace in tormentate aree di crisi.

Mi rivolgo a voi questa sera nello stesso spirito del mio primo messaggio di fine anno, nel 2006, e di tutti quelli che l’hanno seguito. Cercherò cioè ancora una volta di interpretare ed esprimere sentimenti e valori condivisi, esigenze e bisogni che riflettono l’interesse generale del paese. Guardando sempre all’unità nazionale come bene primario da tutelare e consolidare. In questo spirito ho operato finora, secondo il ruolo attribuito dalla Costituzione al Presidente della Repubblica. Anche e ancor più in questo momento, alla vigilia di importanti elezioni politiche, non verranno da me giudizi e orientamenti di parte, e neppure programmi per il governo del paese, per la soluzione dei suoi problemi, che spetta alle forze politiche e ai candidati prospettare agli elettori.

Muoverò piuttosto dal bisogno che avverto di una considerazione più attenta e partecipe della realtà del paese, e di una visione di quel che vorremmo esso diventasse nei prossimi anni.

Parlo innanzitutto di una realtà sociale duramente segnata dalle conseguenze della crisi con cui da quattro anni ci si confronta su scala mondiale, in Europa e in particolar modo in Italia. Da noi la crisi generale, ancora nel 2012, si è tradotta in crisi di aziende medie e grandi (e talvolta, dell’economia di un’intera regione, come ho constatato da vicino in Sardegna), si è tradotta in cancellazione di piccole imprese e di posti di lavoro, in aumento della Cassa integrazione e della disoccupazione, in ulteriore aggravamento della difficoltà a trovare lavoro per chi l’ha perduto e per i giovani che lo cercano. Per effetto di tutto ciò, e per il peso delle imposte da pagare, per l’aumento del costo di beni primari e servizi essenziali, «è aumentata l’incidenza della povertà tra le famiglie» – ci dice l’Istituto nazionale di statistica – specie «quelle in cui convivono più generazioni. Complessivamente sono quasi due milioni i minori che vivono in famiglie relativamente povere, il 70 per cento dei quali è residente al Sud». Ricevo d’altronde lettere da persone che mi dicono dell’impossibilità di vivere con una pensione minima dell’Inps, o del calvario della vana ricerca di un lavoro se ci si ritrova disoccupato a 40 anni.

Ma al di là delle situazioni più pesanti e dei casi estremi, dobbiamo parlare non più di “disagio sociale”, ma come in altri momenti storici, di una vera e propria “questione sociale” da porre al centro dell’attenzione e dell’azione pubblica. E prima ancora di indicare risposte, come tocca fare a quanti ne hanno la responsabilità, è una questione sociale, e sono situazioni gravi di persone e di famiglie, che bisogna sentire nel profondo della nostra coscienza e di cui ci si deve fare e mostrare umanamente partecipi. La politica, soprattutto, non può affermare il suo ruolo se le manca questo sentimento, questa capacità di condivisione umana e morale. Ciò non significa, naturalmente, ignorare le condizioni obbiettive e i limiti in cui si può agire – oggi, in Italia e nel quadro europeo e mondiale – per superare fenomeni che stanno corrodendo la coesione sociale.

Scelte di governo dettate dalla necessità di ridurre il nostro massiccio debito pubblico obbligano i cittadini a sacrifici, per una parte di essi certamente pesanti, e inevitabilmente contribuiscono a provocare recessione. Ma nessuno può negare quella necessità: è toccato anche a me ribadirlo molte volte. Guai se non si fosse compiuto lo sforzo che abbiamo in tempi recenti più decisamente affrontato: pagare gli interessi sul nostro debito pubblico ci costa attualmente – attenzione a questa cifra – più di 85 miliardi di euro all’anno, e se questo enorme costo potrà nel 2013 e nel 2014 non aumentare ma diminuire, è grazie alla volontà seria dimostrata di portare in pareggio il rapporto tra entrate e spese dello Stato, e di abbattere decisamente l’indebitamento. C’è stato cioè un ritorno di fiducia nell’Italia, hanno avuto successo le nuove emissioni di Buoni del Tesoro, si è ridotto il famoso “spread” che da qualche anno è entrato nelle nostre preoccupazioni quotidiane.

È dunque entro questi limiti che si può agire per affrontare le situazioni sociali più gravi. Lo si può e lo si deve fare distribuendo meglio, subito, i pesi dello sforzo di risanamento indispensabile, definendo in modo meno indiscriminato e automatico sia gli inasprimenti fiscali sia i tagli alla spesa pubblica, che va, in ogni settore e con rigore, liberata da sprechi e razionalizzata. Decisivo è, nello stesso tempo e più in prospettiva, far ripartire l’economia e l’occupazione non solo nel Centro-Nord ma anche nel Mezzogiorno; cosa – quest’ultima – di cui poco ci si fa carico e perfino poco si parla nei confronti e negl’impegni per il governo del paese.

Uscire dalla recessione, rilanciare l’economia, è possibile per noi solo insieme con l’Europa, portando in sede europea una più forte spinta e credibili proposte per una maggiore integrazione, corresponsabilità e solidarietà nel portare avanti politiche capaci di promuovere realmente, su basi sostenibili, sviluppo, lavoro, giustizia sociale.

L’Italia non è un paese che possa fare, nel concerto europeo, da passivo esecutore; è tra i paesi che hanno fondato e costruito l’Europa unita, e ha titoli e responsabilità per essere protagonista di un futuro di integrazione e democrazia federale, che è condizione per contare ancora, tutti insieme, nel mondo che è cambiato e che cambia. Guardiamo dunque a questa prospettiva.

Sta per iniziare un anno ancora carico di difficoltà. Non ci nascondiamo la durezza delle prove da affrontare, ma abbiamo forti ragioni di fiducia negli italiani e nell’Italia. Più di un anno fa dissi a Rimini: si è nel passato parlato troppo poco «il linguaggio della verità». Ma avere e dare fiducia «non significa alimentare illusioni, minimizzare o sdrammatizzare» i dati più critici della realtà: si recupera fiducia «guardandovi con intelligenza e con coraggio. Il coraggio della speranza, della volontà e dell’impegno».

Ebbene, penso che una maturazione in questo senso ci sia stata, specialmente tra i giovani. Sono loro che hanno più motivi per essere aspramente polemici, nel prendere atto realisticamente di pesanti errori e ritardi, scelte sbagliate e riforme mancate, fino all’insorgere di quel groviglio ed intreccio di nodi irrisolti che pesa sull’avvenire delle giovani generazioni. I giovani hanno dunque ragioni da vendere nei confronti dei partiti e dei governi per vicende degli ultimi decenni, anche se da un lato sarebbe consigliabile non fare di tutte le erbe un fascio e se dall’altro si dovrebbero chiamare in causa responsabilità delle classi dirigenti nel loro complesso e non solo dei soggetti politici.

E che dire poi dell’indignazione che suscitano la corruzione in tante sfere della vita pubblica e della società, una perfino spudorata evasione fiscale o il persistere di privilegi e di abusi – nella gestione di ruoli politici ed incarichi pubblici – cui solo di recente si sta ponendo freno anche attraverso controlli sull’esercizio delle autonomie regionali e locali? Importante è che soprattutto tra i giovani si manifesti, insieme con la polemica e l’indignazione, la voglia di reagire, la volontà di partecipare a un moto di cambiamento e di aprirsi delle strade. Perché in fondo quel che si chiede è che si offrano ai giovani delle opportunità, ponendo fine alla vecchia pratica delle promesse o delle offerte per canali personalistici e clientelari. E opportunità bisogna offrire a quanti hanno consapevolezza e voglia di camminare con le loro gambe: bisogna offrirle soprattutto attraverso politiche pubbliche di istruzione e formazione rispondenti alle tendenze e alle esigenze di un più avanzato sviluppo economico e civile.

Prospettare una visione per il futuro delle giovani generazioni e del paese è importante fin da ora, senza limitarsi ad attendere che nella seconda metà del 2013 inizi una ripresa della crescita in Italia e adoperandosi perché si concretizzi e s’irrobustisca.

Ritengo si debba puntare a una visione innanzitutto unitaria, che abbracci l’intero paese, contando sulla capacità di tutte le forze valide del Mezzogiorno di liberarsi dalla tendenza all’assistenzialismo, dai particolarismi e dall’inefficienza di cui è rimasta assurdamente vittima la gestione dei fondi europei.

Più in generale, una rinnovata visione dello sviluppo economico non può eludere il problema del crescere delle diseguaglianze sociali. Si riconosce ormai, ben oltre vecchi confini ideologici, che esso è divenuto fattore di crisi e ostacolo alla crescita proprio nelle economie avanzate. Porre in primo piano quel problema diventa sempre più decisivo.

Nello stesso tempo, in momenti impegnativi di scelta come quello della imminente competizione elettorale è giusto guardare all’Italia che vorremmo nella pienezza dei suoi valori civili e culturali. E quindi come paese solidale che sappia aver cura dei soggetti più deboli, garantendoli dal timore della malattia e dell’isolamento, che sappia accogliere chi arriva in Italia per cercare protezione da profugo o lavoro da immigrato e offrendo l’apporto di nuove risorse umane per il nostro sviluppo. Paese, quindi, l’Italia, da far crescere aperto e inclusivo: già un anno fa, avevamo 420mila minori extracomunitari nati in Italiaè concepibile che, dopo essere cresciuti ed essersi formati qui, restino stranieri in Italia? È concepibile che profughi cui è stato riconosciuto l’asilo vengano abbandonati nelle condizioni che un grande giornale internazionale ha giorni fa – amaramente per noi – documentato e denunciato?

Ripresa e rilancio dell’economia e avanzamento civile del paese non possono separarsi. Abbiamo norme e forze dello Stato seriamente dedicate alla lotta contro la criminalità organizzata, piaga gravissima non solo nel Mezzogiorno: ma occorre portare a fondo questo impegno facendo leva sull’apporto vigoroso di energie della società civile per spazzare via ogni connivenza e passività. Stiamo facendo, si deve dirlo, passi avanti nel campo dei rapporti e dei diritti civili. Così con la legge che ha sancito l’equiparazione tra i figli nati all’interno e al di fuori del matrimonio, e segnalato esigenze di ulteriore adeguamento del diritto di famiglia. O con le nuove normative di questi anni per contrastare persecuzioni e violenze contro le donne. Ho appena firmato la legge di ratifica della convenzione internazionale rivolta anche a combattere la violenza domestica: ma è impressionante, e richiede ancora ben altro, lo stillicidio di barbare uccisioni di donne nel nostro paese.

Più che mai dato persistente di inciviltà da sradicare in Italia rimane la realtà angosciosa delle carceri, essendo persino mancata l’adozione finale di una legge che avrebbe potuto almeno alleviarla. Saluto, tuttavia, con compiacimento il fatto che per iniziativa della Commissione parlamentare istituita in Senato si stia procedendo alla chiusura – cominciando dalla Sicilia – degli Ospedali psichiatrici giudiziari, autentico orrore indegno di un paese appena civile.

Ponte decisivo tra sviluppo economico e avanzamento civile è la valorizzazione, in tutti i suoi aspetti – a partire dal patrimonio naturale ed artistico – della risorsa cultura di cui è singolarmente ricca l’Italia. È stato un tema su cui mi sono costantemente speso in questi anni. Apprezzo i buoni propositi che ora si manifestano a questo riguardo, ma non dimentico le sordità e le difficoltà in cui mi sono imbattuto in questi anni a tutti i livelli. C’è qui un punto non secondario della riflessione e del cambiamento da portare avanti.

Vorrei tornare, ma non ne ho il tempo – e quindi li richiamo solo per memoria – anche su altri motivi di mio costante impegno durante il settennato. La sicurezza sui luoghi di lavoro, come parte di una strategia di valorizzazione del lavoro, che è condizione anche per il successo di intese volte a elevare la produttività e competitività del nostro sistema economico. O il ruolo del capitale umano di cui disponiamo, e le sue potenzialità su cui ho insistito guardando soprattutto a risorse scarsamente impiegate o non messe in condizione di esprimersi pienamente. E ancora una volta cito l’esempio di ricercatori, in particolare donne e di giovane età, che hanno dato di recente prove straordinarie in centri di ricerca europei come il Cern di Ginevra o l’Estec dell’Aja o, con scarsi mezzi e molte difficoltà burocratiche, in Istituti di ricerca nazionali. E qui non posso non rivolgere un pensiero commosso e riconoscente alla grande figura di Rita Levi Montalcini, che tanto ha rappresentato per la causa della scienza, dell’affermazione delle donne, della libertà e della democrazia. 

In conclusione, mi auguro che molte questioni da me toccate e soprattutto il senso di un’attenzione consapevole e non formale alle realtà e alle attese sociali e civili del paese, trovino posto nella competizione elettorale. 

Mi attendo che ci sia senso del limite e della misura nei confronti e nelle polemiche, evitando contrapposizioni distruttive e reciproche invettive. In special modo su tematiche cruciali ancora eluse in questa legislatura – riforme dell’ordinamento costituzionale, riforma della giustizia – non si può dimenticare che saranno necessari nel nuovo parlamento sforzi convergenti, contributi responsabili alla ricerca di intese, come in tutti i paesi democratici quando si tratti di ridefinire regole e assetti istituzionali.

Non si è, con mio grave rammarico, saputo o voluto riformare la legge elettorale; per i partiti, per tutte le formazioni politiche, la prova d’appello è ora quella della qualità delle liste. Sono certo che gli elettori ne terranno il massimo conto.

Al loro giudizio si presenteranno anche nuove offerte, di liste e raggruppamenti che si vanno definendo. L’afflusso, attraverso tutti i canali, preesistenti e nuovi, di energie finora non rivoltesi all’impegno politico può risultare vitale per rinnovare e arricchire la nostra democrazia, dare prestigio e incisività alla rappresentanza parlamentare. Il voto del 24-25 febbraio interverrà a indicare quali posizioni siano maggiormente condivise e debbano guidare il governo che si formerà e otterrà la fiducia delle Camere.

Il senatore Monti ha compiuto una libera scelta di iniziativa programmatica e di impegno politico. Egli non poteva candidarsi al parlamento, facendone già parte come senatore a vita. Poteva, e l’ha fatto – non è il primo caso nella nostra storia recente – patrocinare, dopo aver presieduto un governo tecnico, una nuova entità politico-elettorale, che prenderà parte alla competizione al pari degli altri schieramenti. D’altronde non c’è nel nostro ordinamento costituzionale l’elezione diretta del primo ministro, del capo del governo.

Il presidente del consiglio dimissionario è tenuto – secondo una prassi consolidata – ad assicurare entro limiti ben definiti la gestione degli affari correnti, e ad attuare leggi e deleghe già approvate dal parlamento, nel solco delle scelte sancite con la fiducia dalle diverse forze politiche che sostenevano il suo governo. Il ministro dell’interno garantirà con assoluta imparzialità il corretto svolgimento del procedimento elettorale.

Le elezioni parlamentari sono per eccellenza il momento della politica. Un grande intellettuale e studioso italiano del Novecento, Benedetto Croce, disse, all’indomani della caduta del fascismo: «Senza politica, nessun proposito, per nobile che sia, giunge alla sua pratica attuazione». E ancor prima aveva scritto, guardando all’ormai vicina rinascita della democrazia: «I partiti politici in avvenire si combatteranno a viso scoperto e lealmente… e nel bene dell’Italia troveranno di volta in volta il limite oltre il quale non deve spingersi la loro discordia».

L’insegnamento è anche oggi ben chiaro: il rifiuto o il disprezzo della politica non porta da nessuna parte, è pura negatività e sterilità. La politica non deve però ridursi a conflitto cieco o mera contesa per il potere, senza rispetto per il bene comune e senza qualità morale.

Con queste parole, mi congedo da voi. Ho per ormai quasi sette anni assolto il mio compito – credo di poterlo dire – con scrupolo, dedizione e rigore. Ringrazio dal profondo del cuore tutte le italiane e gli italiani, di ogni generazione, di ogni regione, e di ogni tendenza politica, che mi hanno fatto sentire il loro affetto e il loro sostegno.

A voi tutti, buon 2013!

Giorgio Napolitano

 

 

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