GIUSTIZIA: attenzione a non travolgere i diritti con la riforma della Corte Suprema

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Tra i punti dell’annunciato programma governativo di riforma della giustizia, è rimasto generalmente sullo sfondo, nei commenti e negli stessi dettagli di cronaca, quello riguardante la Corte di cassazione. Ne ha però colto l’importanza Eugenio Scalfari su “La repubblica” e con la consueta incisività ne ha dato un giudizio radicalmente negativo, ragionando sull’ipotesi che fosse stata proposta la totale abolizione del ricorso alla Corte suprema nel caso di qualsiasi sentenza confermata in appello.
Se così fosse, Scalfari avrebbe pienamente ragione ad allarmarsi e a denunciare la gravissima lesione portata a uno dei cardini dello Stato di diritto quale si è radicato in Italia. A quanto pare, però, il disegno del Governo non si spinge sino a tanto: in termini meno drastici, in rapporto al caso di una “doppia conforme” sembra limitarsi a proporre che si possa ricorrere in cassazione soltanto per violazione di legge, per giunta riferendo la portata di questa riforma alle sole sentenze di assoluzione.
Verrebbero, certo, meno gli altri motivi per cui oggi, anche contro tali sentenze, si può adire la Corte suprema, e tra essi quello con cui si mira a sollecitare un ulteriore controllo sulla motivazione delle decisioni dei giudici precedenti. Sarebbe così eliminato, nei confronti delle sentenze assolutorie non riformate in appello, quello che può diventare (e non di rado diventa) un canale per far sconfinare la Corte dal suo ruolo di tutore della legalità e per indurla a scendere in quell’ambito degli accertamenti e delle valutazioni “in fatto” che pure -come giustamente osserva il fondatore de “La Repubblica”- le sarebbe, in via di principio, precluso. Resta invece in piedi lo strumento attraverso il quale la Corte esercita propriamente la cosiddetta funzione “nomofilattica” (ossia di unitario “custode della legge”) alla cui tutela l’art. 111 della Costituzione garantisce la proponibilità di un ricorso, parlando a sua volta di “violazione di legge” e soltanto di essa.
Parecchio, per la verità, resta ancora da chiarire circa gli esatti contorni della proposta governativa: sembra, infatti, che la medesima soluzione, pur prospettata, non sia stata accettata per le “doppie conformi” di condanna. Orbene, la prudenza, a tal riguardo, è comprensibile perché lì è in gioco, in definitiva, la stessa ampiezza di tutela del diritto di difesa; ma è pur vero che, se la riforma non dovesse estendersi anche a quelle sentenze -o se, quantomeno, non si cercasse di limitare in altro modo, pure in quel settore, il dilagare dei ricorsi “per vizio di motivazione”- essa rischierebbe di ridursi a poca cosa: dell’enorme numero delle pendenze davanti alla Corte suprema (ogni anno circa 50.000 solo nel penale) la maggior parte è costituita da impugnazioni difensive … Senza dire che una disparità troppo forte nel trattamento tra l’impugnazione della difesa e quella del pubblico ministero potrebbe esporsi ai rischi di una dichiarazione di incostituzionalità in una logica analoga a quella che già portò a uno smantellamento della “riforma Pecorella” che nel 2006 aveva tolto al pubblico ministero il diritto di fare appello contro le sentenze di proscioglimento.
Rimane, poi, l’interrogativo sull’opportunità di mantenere, in Costituzione, il diritto al ricorso contro tutte le sentenze, civili e penali, contemporaneamente garantendo a livello di legge ordinaria, per il diritto di appello, un’espansione quasi altrettanto ampia. Ma questo è un altro discorso.
Mario Chiavario,
mario.chiavario@unito.it

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