E’ tempo di discutere su come uscire da questo tipo di società dei consumi

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Riproponiamo qui, per maggiore visibilità e perché possa suscitare un dibattito, l’interessante testo che l’autore, membro dell’associazione “Il Borgo di Parma” e dunque della rete c3dem, ha “postato” a commento di alcuni articoli proposti nella Rassegna stampa su questo sito (“Governo Renzi e riforma. Con un appello di Asor Rosa”. Il titolo è redazionale

 

Vorrei tentare di proporre un ragionamento prendendo spunto da uno dei provvedimenti più significativi dell’agenda del governo Renzi. La decisione, se tale sarà, di immettere “soldi freschi” in busta paga (i famosi 80 euro per gli stipendi sotto i 1500 euro) ha senza dubbio un valore importante perchè stabilisce, concretamente e simbolicamente, la necessità di sostenere i redditi più bassi, che poi sono quelli maggiormente toccati dalla crisi. L’obiettivo è quello di rilanciare i consumi, sperando che buona parte di essi riguardi la produzione interna.
Ora, questo obiettivo – che risponde a un meccanismo “classico” dell’economia – può aver senso nel breve periodo ma lascia aperta una grande domanda intorno alla quale si è sviluppata negli ultimi anni una riflessione che ha coinvolto sempre più persone: di quali consumi stiamo parlando e di quale modello di produzione? Non è proprio la società dei consumi così come l’abbiamo conosciuta negli ultimi 30-40 anni ad aver mostrato tutta la sua debolezza e la sua insostenibilità (da vari punti di vista, compreso quello delle risorse energetiche necessarie a tenerla in piedi)?

E’ comprensibile e, mi sento di dire, condivisibile che nell’immediato si faccia ancora leva su questo meccanismo per dare un po’ di respiro a un mercato stagnante e per dare un po’ di sollievo a un commercio che, insieme all’industria, soffre di una grave crisi (con ciò che ne consegue sul piano sociale: chiusura di negozi che sono anche un punto di servizio e aggregazione; chiusura di attività commerciali dietro alle quali si sostenevano intere famiglie “allargate” e dipendenti, ecc.). Ma, nel medio e lungo periodo, pensiamo che sia questa la soluzione, quando tutti gli indicatori ci segnalano che il modello finora seguito, se applicato a un mondo di 10 miliardi persone, non può reggere e comporta squilibri e disuguaglianze enormi, con ciò che ne consegue non solo sul piano dell’etica e della giustizia ma anche in termini di conflitti e costi sociali?

Del consumo e del libero commercio non possiamo certo fare a meno: da sempre, peraltro, dove si commercia c’è pace. E i regimi che hanno cercato di farne a meno, finora, sono miseramente falliti. Dal canto loro, diversi economisti ci spiegano le dinamiche antropologiche che stanno dietro alla produzione e allo scambio, che non possono essere interpretate solo come rispondenti a una logica di arricchimento egoistico (anche se questa dimensione può esserci e in taluni casi prevalere) ma rispondono a domande più profonde e più complesse. Il problema, però, è se questo tipo di società dei consumi deve essere favorita e reiterata, sapendo che ciò, dopo magari una prima fase positiva, provocherà presto o tardi nuove e forse peggiori crisi; o se in qualche modo i consumi (e dunque la produzione che ne sta alle spalle) debbano essere reindirizzati – ovviamente non in modo autoritario! – a prodotti diversi da quelli che ci siamo abituati (in occidente) a consumare a piene mani.

E’ chiaro che un processo del genere andrebbe accompagnato, per evitare – un esempio, giusto per intenderci – che mille industrie di giocattoli inutili chiudano dall’oggi al domani lasciando a casa migliaia di persone. Ma questo potrebbe essere il momento per cominciare ad applicare, attraverso scelte politiche, quelle idee – non irenistiche o idealistiche, ma al contrario, realistiche – coltivate in tanti ambienti sociali, intellettuali, ecclesiali anche grazie alle analisi di tanti economisti. Qualcosa di buono è già stato fatto, ad esempio con gli incentivi per il fotovoltaico e il solare. Non è necessario accapigliarsi sulla “decrescita” (termine che alla fine, al di là delle buone intenzioni, rischia di creare incomprensioni). Ma ragionare invece su “quale crescita” è ormai ineludibile.

 

Sandro Campanini

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  1. Come non condividere queste considerazioni chiare ed essenziali. E’ ora di cominciare ad invertire la tendenza. Questo va fatto con politiche, non solo del Governo nel nostro Paese, ma anche e soprattutto a livello europeo. Dobbiamo scegliere una nuova classe dirigente (almeno servano a questo le prossime elesioni europee) che ponga la necessità di invertire le logiche economiche degli ultimi anni. Sarà un impegno lungo e difficile, ma si deve incominciare!

  2. Mi unisco alla condivisione: ciò che va messo in discussione dall’istante t0 è proprio il modello di sviluppo, continuare ad avvitarsi inseguendo il drammatico sistema che ha causato il dramma sociale in molti paese e garantisce la diseguaglianza in tutti gli altri è irresponsabile e illogico.
    Continuiamo a far finta che non ci sia strada diversa da quella che il paraocchi ci fa vedere: esiste un mondo complesso intorno a noi e la strada che ci fanno vedere non è l’unica, è una delle tante ed è chiaramente quella sbagliata visto che da quando l’abbiamo presa le cose non hanno fatto altro che peggiorare.
    L’Europa è nelle condizioni di poter, come storicamente ha sempre fatto, dare la guida al resto del mondo e può farlo riempiendo il Parlamento di Strasburgo di persone convinte di dover cambiare radicalmente l’attuale classe dirigente del continente: azzerare il potere della finanza, riportare la politica monetaria al suo ruolo di nicchia delle discipline economiche, confinare società di “rating” e operatori del mercato nei confini del loro deleterio microcosmo.
    Non ultimo, lo ha detto anche Papa Francesco, ma lo disse anche Papa Ratzinger, bisogna estirpare la società dei consumi, non reinventandosi Savonarola, ma riportando il consumo al ruolo di effetto dell’usura e non a scopo della produzione e dell’esistenza degli individui. Il consumismo e l’individualismo hanno aiutato, anzi sono stati principale strumento, della dittatura finanziaria che vige in Europa e strumento primo del cancro liberista che sta erodendo il continente. Va fermato e non va consentito che sia forzosamente esportato travestito da assegno di duemiliardi o da tutela dei confini, specie da chi è abituato alle invasioni e non si è mai curato della posizione delle Nazioni Unite.

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