Continuità/discontinuità, una dialettica costante nella Chiesa

La storica del cristianesimo Bruna Bocchini Camaiani, (in un editoriale su www.viandanti.org del 10 gennaio 2012), riprende la questione dell’interpretazione del concilio Vaticano II come continuità o discontinuità con la tradizione ecclesiale precedente e osserva che, sebbene nel suo discorso del 2005 Benedetto XVI abbia parlato del Vaticano II come “un insieme di continuità e discontinuità”, di fatto il lungo pontificato di Giovanni Paolo II e in particolare la Congregazione per la dottrina della fede, guidata dal card. Ratzinger, abbiano offerto una interpretazione restrittiva delle discontinuità, bloccando dibattiti e discussioni della comunità ecclesiale, soprattutto per quanto riguarda la presenza istituzionale della gerarchia e il potere assoluto del pontefice.

da “Viandanti” ( www.viandanti.org )

Si è molto discusso di continuità e rottura nella interpretazione e nella ricezione del Concilio Vaticano II. Ma usare solamente categorie così generali non è di grande utilità per comprendere la ricchezza e la complessità dei testi conciliari, che sono il frutto di discussioni di confronti ampi e di mediazioni articolate tra una maggioranza vasta, anche se articolata, e una minoranza tenace, fortemente organizzata, che poteva contare su figure importanti della curia romana. Un confronto, e talvolta uno scontro che si sono prolungati anche dopo il Concilio.

Il rinnovamento nella continuità

Il discorso di Benedetto XVI alla curia romana del 22 dicembre 2005 affronta questo problema. Egli, pur criticando una non meglio precisata “ermeneutica della discontinuità e della rottura” affermava che “il Concilio doveva determinare in modo nuovo il rapporto tra Chiesa ed età moderna”, in una prospettiva di “rinnovamento nella continuità”. In questa logica non venivano negate le discontinuità: “E’ proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la vera natura della riforma”. Così “Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il Decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello Stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa”.

Un esempio di discontinuità

Infatti, il Concilio ha posto in primo piano la Scrittura e la tradizione apostolica, anche modificando elementi delle tradizioni più recenti. Va ricordato che nella Dichiarazione “Nostra aetate”, nel paragrafo IV, relativo agli ebrei, non si trova alcuna citazione dei pontefici o del magistero precedente, ma solo del Nuovo Testamento, di Isaia e della Lumen Gentium; un segno inequivocabile di discontinuità, anche perché è l’unico caso in tutti i documenti conciliari, nei quali invece le citazioni dai pontefici e dal magistero sono continue, proprio nella prospettiva di sottolineare il rinnovamento nella continuità.

Le molte interpretazioni restrittive

Va, però, ricordato che sono state le scelte concrete, le linee con le quali si è voluto evidenziare le continuità e discontinuità del Concilio, che poi hanno suscitato molte perplessità e sollevato non poche obiezioni; l’elenco sarebbe molto ampio. La ripresa letterale di alcuni passi dei testi conciliari, interpretati in modo restrittivo, in continuità con le posizioni espresse nel dibattito conciliare dai rappresentanti della teologia romana, è stata una caratteristica di molti interventi della Congregazione della dottrina della fede, guidata dal cardinale Ratzinger. Basti almeno ricordare due documenti di questa Congregazione del 2000, la Dichiarazione Dominus Jesus e la Nota sull’espressione “Chiese sorelle”: la Chiesa di Roma viene presentata come l’unica, vera Chiesa di Cristo. Documenti che hanno provocato grande delusione negli ambienti ecumenici. Si pensi alla reintroduzione della Messa secondo il rito di san Pio V e alla legittimazione e allo spazio che in questo modo hanno avuto i gruppi dell’anticoncilio. La Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici, della Congregazione per la dottrina della fede del 2002, afferma l’obbligo per i cattolici, e anche per i deputati, di obbedire alle indicazioni del magistero, in particolare sui temi etici, perché “Non esiste autentica libertà senza la verità”. Si può ricordare che un appello di Alberigo del 2007, che chiedeva alla Cei di non intervenire sul voto dei cattolici ottenne in pochissimo tempo ottomila firme.

La dialettica continuità/riforma nel tempo

D’altro canto nella storia della Chiesa la dialettica tra continuità e riforma è costante. Non poche sono le riforme che hanno caratterizzato la Chiesa romana del secondo millennio, per renderla così come la conosciamo. In primo luogo la riforma gregoriana: dopo la separazione con il cristianesimo orientale si erano accentuate le caratteristiche ‘romane’ del cristianesimo latino; il modello monastico diviene esemplare per il clero come tale, ma anche per i laici (“monaci di desiderio”) e la vita religiosa; nella lotta contro il “nicolaismo” il concubinato viene equiparato all’eresia. Il Dictatus papae di Gregorio VII, lentamente e con difficoltà si affermerà come modello sia teocratico che di governo della Chiesa universale e caratterizzerà la struttura piramidale della Chiesa nel secondo millennio.

Del Concilio di Trento e della Controriforma vanno sottolineate le caratteristiche di una “identità cattolica”, in particolare nella formazione e nel modello del clero, nell’ecclesiologia di societas perfecta e nella struttura di governo. Questo Concilio non può essere visto separatamente come momento riformatore distinto dal contesto generale di repressione radicale condotta dalla Chiesa attraverso l’Inquisizione nei confronti di coloro che sostenevano nuovi indirizzi religiosi e più in generale di quelli che erano ritenuti ostili a Roma. La strategia di riconquista è complessa, affidata a inquisitori, confessori, missionari in una logica complementare di repressione e di controllo pervasivo. Esemplare è il dibattito sul volgare e sulle traduzioni della Bibbia, che diveniva quasi inaccessibile.

Altra grande frattura è quella dovuta alla Rivoluzione francese e alla dichiarazione dei diritti dell’uomo; ”mostruosità”, secondo la definizione del Breve Quot aliquantum di Pio VI del 1791, ancor prima che la rivoluzione assumesse quel volto dissacratore e antireligioso degli anni successivi. Di fatto quella condanna fu uno degli elementi portanti dell’ideologia della Restaurazione, così come la rivendicazione di una situazione di predominio per la religione cattolica e per la Chiesa, con la riproposizione del modello della cristianità medioevale, fino alla difesa dei diritti della “verità” contro “l’errore”, che è stata ancora al Concilio Vaticano II uno dei temi principali della polemica contro il progetto della Dichiarazione sulla libertà religiosa.

Il riemergere della tradizione conservatrice

Questa lunga tradizione è riemersa con forza, anche dopo una grande e sofferta riflessione come quella del Concilio Vaticano II, che aveva realizzato alcune discontinuità, valorizzando altre tradizioni, anche più antiche, e il grande lavoro dei movimenti biblico, liturgico, ecumenico degli ultimi decenni. Il pontificato di Giovanni Paolo II ha riaffermato fortemente la presenza istituzionale della gerarchia e soprattutto il potere assoluto del pontefice come “pastore universale”, bloccando dibattiti e discussioni, sia tra i teologi che in ambito ecclesiale. Di qui una serie di appelli, come la Dichiarazione di Colonia del 1989, che chiedevano anche la convocazione di un nuovo Concilio. Una realtà che è rimasta sommersa in modo carsico, nei momenti più difficili, ma che ora riemerge con forza e che non sarà possibile ignorare.

 

di Bruna Bocchini Camaiani, Ordinario di storia del cristianesimo e delle Chiese all’Università di Firenze

Comments are closed.