di Sandro Antoniazzi
L’economia italiana va piuttosto male.
Ed è perlomeno disdicevole che il governo a lungo abbia insistito nel far credere che la nostra fosse la migliore delle economie europee e che grazie alla nuova maggioranza tutto andava per il meglio.
L’unico dato positivo è quello occupazionale determinato da due fattori di cui c’è poco da andare fieri: l’aumento degli occupati è avvenuto in settori (turismo, ristoranti, edilizia per il bonus del 110%) che per loro natura non registrano aumenti di produttività e il calo del tasso di disoccupazione è dato soprattutto da cause demografiche (un totale più ridotto su cui calcolare la percentuale e un aumento degli inattivi che non sono considerati disoccupati perché non cercano lavoro).
L’aumento del PIL a fine anno sarà dello 0,5-0,6% decisamente inferiore all’ 1% previsto (il che comporterà rivedere le spese), ma il dato più serio è la costante diminuzione della produzione industriale, che dura da 23 mesi e che nel dicembre 2024 è scesa del 3,1%, con una diminuzione annua del 7,1%.
La gravità della situazione italiana è poi data anche da altri due fattori che ci trasciniamo nel tempo, senza che nessuno se ne curi.
Il primo di questi elementi è il debito pubblico che ammonta a tremila miliardi e che grava sul bilancio annuo per circa novanta miliardi di interessi, tre volte il valore dichiarato dell’ultima manovra (la quale in realtà si aggira a poco più di dieci miliardi, se si tiene presente che in parte è finanziata a debito, in parte è coperta da prestiti bancari e infine che prevede un’infinità di tagli, che sono in pratica trasferimenti da una voce all’altra del bilancio).
Il secondo è la situazione della produttività che si presenta sostanzialmente ferma ormai da oltre 30 anni. Questo è anche il principale motivo della stagnazione dei salari: se la produttività non cresce, non aumenta neppure il surplus necessario per pagare salari più alti.
E’ inutile in queste condizioni continuare a rivolgere richieste allo Stato: i soldi non ci sono.
Sarebbe bene, pertanto, smettere da parte governativa l’autoincensamento e la propaganda ingannevole e mettere mano ai problemi veri.
Ma anche il sindacato che continua a rivolgersi al governo per chiedere provvedimenti finanziari per i diversi bisogni sociali, dovrebbe meglio orientare la propria politica: in questa fase prevale l’esigenza della produzione e non della redistribuzione del reddito.
Tre mi sembrano i problemi principali da affrontare, alcuni con provvedimenti anche immediati (es. energia), altri da impostare e sviluppare.
Innanzitutto, bisogna affrontare il debito pubblico; indubbiamente se la BCE continua a diminuire il tasso di interesse (era ora!) si pagheranno minori interessi sul debito, ma sarebbe bene realizzare un intervento più decisivo (come sostenuto del resto sia dalla Banca d’Italia che dalla Corte dei Conti).
Si potrebbe concordare con la Banca d’Italia una strategia di rientro da sostenere in forma bipartisan, dato che il problema interessa tutto il paese.
Un secondo tema importane è quello della produttività: la nostra scarsa produttività è data da diversi fattori.
Una causa primaria è la dimensione molto piccola delle nostre imprese (la dimensione media dell’impresa italiana è di quattro addetti per azienda) e da questa dimensione dipende lo scarso progresso tecnico-organizzativo (come è possibile a un’azienda di dieci dipendenti investire in macchinari complessi e in AI?).
L’ altro grave problema che limita la crescita della produttività è la carenza di personale qualificato, dotato delle competenze necessarie.
A riguardo c’è una responsabilità di tutte le parti interessate: del Governo e delle Regioni che solo negli ultimi anni hanno iniziato a prendere coscienza dell’importanza della formazione professionale-tecnica; degli industriali che pensavano che la mano d’opera qualificata dovesse venire da fuori, da altri, invece di occuparsene direttamente; dei sindacati che in passato hanno abbandonato la formazione professionale lasciandola al pubblico (ma come può un organismo pubblico essere in grado di seguire le esigenze e le evoluzioni delle dinamiche del lavoro?).
Il sindacato – e così le aziende – dovrebbero riprendere in mano la questione delle competenze e della formazione dei lavoratori, contribuendo a sviluppare un sistema di formazione permanente di cui c’è un grande bisogno.
Infine, in Italia manca una politica industriale; il Ministero competente si dedica prevalentemente ad affrontare le crisi aziendali, ma non esprime una strategia positiva di medio periodo.
Pensiamo al problema dell’energia: siamo il paese che ha il costo dell’energia più alto in Europa (a proposito di primati), ciò che danneggia enormemente le nostre possibilità concorrenziali (si pensi alle aziende energivore, come l’acciaio).
Dopo la crisi derivata dalla guerra in Ucraina che ha determinato la fine del rifornimento del gas russo, ci siamo preoccupati di garantire i rifornimenti, comprando fra l’altro il gas americano che costa più del doppio.
Non è superfluo ricordare che tanta parte della nostra economia è legata all’esportazione (siamo il quarto paese al mondo per le esportazioni) e nel commercio mondiale i prezzi sono decisivi. Possiamo considerare un nostro titolo di merito la capacità di esportare, ma non bisogna trascurare anche gli elementi di debolezza; si dipende da altri e da fattori che non governiamo (si pensi alle minacce attuali di Trump)
L’energia è gravata da accise che potrebbero essere tolte – almeno parzialmente – impiegando per questo obiettivo le risorse delle manovre finanziarie, piuttosto che su altre riduzioni delle tasse.
A proposito di tasse un futuro governo non populista dovrebbe non diminuire, ma aumentare le tasse per gli scaglioni più elevati: nel dopoguerra, come racconta Piketty nei suoi libri, sugli scaglioni più elevati gravava una tassazione dello 80-90% e le cose andavano molto meglio di oggi, dove la quota più alta supera di poco il 40%.
Per concludere, se vogliamo risollevare l’economia italiana, e in particolare la nostra industria, occorrono investimenti: invece di continuare a elargire agevolazioni fiscali, flat tax e promettere mari e monti agli elettori, la manovra finanziaria dovrebbe dedicare tutta o la maggior parte delle risorse a investimenti, che aumenterebbero la produttività e di conseguenza anche la possibilità di aumentare salari e stipendi.
Per due o tre anni si dovrebbe tirare la cinghia e invece di regali finanziari a destra e a manca, ci si concentrerebbe su ciò che è più utile, anzi indispensabile, per il paese.
16 Febbraio 2025 at 22:17
Alla fine di settembre del 2024 è stato pubblicato un libro di Riccardo Staglianò dal titolo “Hanno vinto i ricchi”, che riporta e descrive i seguenti dati che costituiscono lo scenario che presiede alle valutazioni e considerazione di Alessandro Antoniazzi.
I dati sono riferiti al 2023 e per tutti è indicata la fonte dalla quale sono ricavati.
– 2,9% – Come sono cambiati i salari medi annui in Italia dal 1990 al 2020 (Ocse)
+ 22,8% – Aumento della produttività per ora lavorata nello stesso periodo (Ocse)
4,5% – Diminuzione del potere d’acquisto dei salari lordi dei lavoratori dipendenti negli ultimi dieci anni (Istat)
9,8% Italiani in povertà assoluta nel 2023, ovvero 5.752.000 persone (Istat)
11.5% – Occupati a rischio di povertà (Istat)
29.680 Euro – Retribuzione media effettiva pro capite lorda, nel 2023 (Istat)
23.310.000 – Totale dei lavoratori, di cui 18,1 milioni dipendenti e
5,2 milioni autonomi (Istat)
1011 – contratti collettivi, di cui circa 900 “pirata” (Inps)
6 su 10 – Contratti collettivi scaduti a marzo 2023 (CGIL)
7,9% – Ore lavorate in meno dal 2000 (133 ore all’anno), a causa della forte crescita del part time (Istat)
64,4% – Percentuale di donne in part time involontario nel 2019 (Eurostat). Quota che al sud raggiunge l’80% (Svimez)
12% – Quota di working poors, lavoro povero e lavoratori poveri, in Italia nel 2019 (Eurostat)
780 euro – Un quarto dei lavoratori guadagna meno di questa cifra (che corrisponde anche all’ammontare massimo del reddito di cittadinanza per il single, incluso il contributo per l’affitto.
31.366.000 – Cittadini che presentano una dichiarazione dei redditi positiva. Il 47% degli italiani non avrebbe redditi e vive a carico di qualcun altro (Itinerari Previdenziali)
72% – Aliquota massima Irpef nel 1974. Oggi è al 43% (Mef)
83% – Percentuale dell’Irpef pagata rispettivamente da lavoratori dipendenti (53,5%) e pensionati (29,5%) nel 2022 (Mef)
69,7% – Percentuale dell’Irpef evasa dai lavoratori autonomi nel 2020 (Mef)
100 miliardi di euro – La media annuale (2018 – 2020) dell’evasione fiscale (gap contributivo) in Italia calcolata dal Mef, è di 96,3 miliardi
0,05% – Percentuale del PIL che viene dalle imposte di successione (Mef)
17 Febbraio 2025 at 15:53
analisi ottima. condivisa pienamente.