Come possono i partiti mettere mano alla Costituzione se non sanno riformare se stessi?

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di Albertina Soliani

“È iscritta a parlare la senatrice Soliani. Ne ha facoltà…”. Martedì 12 giugno è iniziato in Senato il dibattito sulla proposta di riforma costituzionale così come approvata dalla Commissioni Affari costituzionali. Nel pomeriggio è intervenuta, tra gli altri, la senatrice Albertina Soliani, del Pd. Albertina Soliani è nata in provincia di Reggio Emilia nel ’44. E’ stata insegnante e direttrice didattica a Parma. Formata in Azione Cattolica, è fatto parte della Democrazia Cristiana ed è poi stata segretaria provinciale del Partito Popolare Italiano. Attualmente è responsabile nazionale del settore scuola dei Democratici, dei quali è stata tra i fondatori. Coordinatrice regionale per l’Emilia-Romagna dei Democratici. “Onorevoli colleghi, – ha detto ad un certo punto la senatrice – se viene a mancare la fiducia nei partiti, nella politica e nelle istituzioni – ed è quello che sta accadendo – non è di questo che dobbiamo innanzi tutto preoccuparci? In questa situazione, le proposte di riforma costituzionale non rischiano di apparire perfino l’ennesima prova della distanza del Parlamento dal Paese? Non si salva la democrazia a basso prezzo, e intendete cosa voglio dire.” . “Come possono i partiti – ha aggiunto – pensare di mettere mano alla Costituzione se non hanno saputo e non sanno riformare se stessi?”. E ancora: “Come non vedere che il dibattito in quest’Aula non appartiene al dibattito pubblico, quasi che modificare articoli della Costituzione appartenesse allo spazio asettico di una sala chirurgica?”. Riportiamo per intero il suo intervento, apprezzandone la schiettezza, la serietà e la forte sintonia con una parte rilevante dell’opinione pubblica. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, comincio così, con il pensiero più forte che mi accompagna in questa discussione, nella riflessione sulle proposte che abbiamo davanti a noi: riassegnare centralità alla sovranità dei cittadini. Questa a me pare oggi la nostra priorità, come recita l’articolo 1 della Carta costituzionale. Da lì siamo partiti il 2 giugno 1946 quando è nata la Repubblica e lì, 67 anni dopo, dobbiamo tornare perché vi è il fondamento della democrazia ed è proprio questo l’elemento più a rischio nella democrazia del nostro Paese oggi. Il resto per me viene dopo. È su questo punto, sulla sovranità dei cittadini venuta progressivamente meno, sulla loro partecipazione alla vita pubblica del Paese: è su questo punto vitale e cardinale che si è drammaticamente consumato il rapporto di fiducia tra i cittadini e la politica, le istituzioni, i partiti.

Che cosa volete mai che si dica, in un clima come questo, di riforme costituzionali? Nessuna illusione è consentita, nessuna scorciatoia attraverso riforme costituzionali può restituire agli elettori la fiducia che è alla base del patto democratico. Poteva essere possibile 20, 15 anni fa. Oggi è un altro tempo. Oggi è il tempo in cui appare chiaro che la politica forse non ha quasi più credito.

Se ogni ipotesi di riforma costituzionale deve salvaguardare l’equilibrio democratico in cui essa vive, la fiducia degli elettori nei confronti delle istituzioni deve essere il presupposto di ogni riforma. Da 30 anni il dibattito sulle riforme della Parte II della Carta, dunque delle istituzioni, è all’ordine del giorno della politica e del Parlamento. Esso percorre come una dorsale tutto il sistema politico del Paese, sostanzialmente senza risultati. Ma si è rivelato un fallimento politico, nonostante tutti i tentativi.

Non si può continuare all’infinito, come se fossimo su una linea di continuità in cui di volta in volta ci passiamo il testimone, tanto più che oggi è successo qualcosa di molto più grave. È come se una faglia avesse percorso (non tanto all’improvviso questa volta) il sistema democratico del nostro Paese e avesse attraversato la coscienza dei cittadini e del popolo italiano mettendo fortemente in discussione il rapporto di fiducia con la politica, con i partiti, con le istituzioni. Seriamente in discussione.

Non ho dubbi (chi mi conosce lo sa) che l’adeguamento delle istituzioni, del Governo, del Parlamento, del sistema delle autonomie alle nuove sfide del Governo, della partecipazione, l’adeguamento alla stagione presente e futura dell’Unione europea e alle esigenze della società di oggi, l’adeguamento del sistema istituzionale sia un tema strategico per disegnare il futuro dell’Italia. Non ho dubbi.

Ne va non solo della democrazia e del suo funzionamento, ma ne va – come sappiamo – anche dello sviluppo economico e sociale del Paese, del suo intero futuro. Sentiamo, però, che oggi non basta pensare questo; non basta neppure la buona volontà dei Gruppi parlamentari, dei colleghi della 1a Commissione permanente del Senato, determinati a consegnare all’Assemblea, fosse pure alla vigilia della conclusione della legislatura, un insieme di proposte che riscrivano ben 13 articoli della Carta costituzionale su oggetti diversi.

Non è neanche la prima volta. Abbiamo già visto cosa è accaduto sei anni fa, quando il popolo ha cancellato quella riscrittura della Costituzione. In realtà, la Carta è intimamente connessa con la sovranità popolare; le istituzioni della rappresentanza in essa previste sono l’espressione del legame profondo, della fiducia dei cittadini nelle istituzioni, ed i partiti ne sono lo strumento. Se però i partiti cedono, come possiamo continuare senza fermarci ad una riflessione radicale? Qual è oggi la consistenza, la vita ed il destino dei partiti? Lo sappiamo bene, perché ciascuno può guardare in casa propria.

Onorevoli colleghi, se viene a mancare la fiducia nei partiti, nella politica e nelle istituzioni – ed è quello che sta accadendo – non è di questo che dobbiamo innanzi tutto preoccuparci? In questa situazione, le proposte di riforma costituzionale non rischiano di apparire perfino l’ennesima prova della distanza del Parlamento dal Paese? Non si salva la democrazia a basso prezzo, e intendete cosa voglio dire.

Poiché considero serissima la crisi della nostra democrazia, penso che le forze politiche ed i Gruppi parlamentari debbano procedere senza indugio ad avviare quelle riforme prioritarie che, incidendo su loro stessi, possano restituire credibilità ai partiti, alle istituzioni ed alla politica, se ancora si è in tempo. La perdita di credibilità e di autorevolezza della politica che è sotto i nostri occhi e lo stato del Parlamento a causa della legge elettorale che lo ha eletto, ma anche di taluni suoi comportamenti censurati – si può dire quasi quotidianamente – dall’opinione pubblica, richiedono a mio parere tre interventi immediati, prima di ogni altra cosa: la riforma della legge elettorale che restituisca potere di decidere rappresentanti e Governo; la riforma del finanziamento pubblico dei partiti, partendo dall’esito del referendum del 1993, e regole per la vita democratica di questi; la significativa riduzione del numero dei parlamentari. Riterrei – lo dico quasi per inciso – più che matura anche l’istituzione del Senato delle Regioni e delle autonomie.

Questo è ciò che dovremmo fare, ma che ancora non abbiamo fatto, e che le proposte al nostro esame non interpretano adeguatamente.

Entro il 15 giugno, cioè entro venerdì prossimo, si sarebbe dovuto celebrare, se fosse stato ammesso dalla Corte Costituzionale, il referendum per la cancellazione dell’attuale legge elettorale ritornando al cosiddetto Mattarellum. Tale referendum sarebbe stato l’espressione di una larghissima domanda sottoscritta dal popolo italiano. Allora, quello che non è stato possibile ai cittadini lo faccia subito il Parlamento: oggi è evidente che non vi sono alternative. I cittadini hanno parlato più volte, dal referendum del 1993 alla raccolta delle firme del 2011. Perché le forze politiche tardano così tanto a comprendere? Si pensa forse che siano i tatticismi a salvare la Repubblica e gli stessi partiti? Oggi è come se sul tavolo delle riforme elettorali le forze politiche fossero all’ultima mano di una partita a carte con la morte. Gli stessi emendamenti arrivati all’ultimo momento che modificano l’impianto sostanziale della Carta e dunque dei poteri della Repubblica hanno il sapore del cambio delle carte sul tavolo.

Onorevoli colleghi, c’è qualcosa di antico e non di nuovo nell’aria ed in quest’Aula, c’è l’idea che le riforme costituzionali possano essere un terreno di scambio: il Senato federale a te ed il semipresidenzialismo a me. Un baratto per la sopravvivenza di forze politiche che hanno fallito di fronte al Paese. Non si usa la Costituzione per rimediare al proprio fallimento politico. Torno sul punto. Come possono i partiti pensare di mettere mano alla Costituzione se non hanno saputo e non sanno riformare se stessi? Il destino dei partiti si gioca ora di fronte agli italiani. E non solo le riforme costituzionali. Come non capirlo?

Molto si deciderà della storia futura dell’Italia nei prossimi mesi, ma tutto dipenderà da questo, dalla capacità dei partiti di raccogliere la sfida per cambiare se stessi, davvero in nome del popolo italiano. Il funzionamento della vita democratica dipende in primo luogo da un elemento vitale, che è la partecipazione dei cittadini. Come non vedere che il dibattito in quest’Aula non appartiene al dibattito pubblico, quasi che modificare articoli della Costituzione appartenesse allo spazio asettico di una sala chirurgica?

Quando fu scritta la Carta costituzionale, ciò che confluì in essa, come ebbe a ricordare Giuseppe Dossetti in un suo memorabile intervento su «Costituzione e riforme» all’università di Parma nell’aprile del 1995, fu: «una dimensione politica mondiale» – dopo il secondo grande conflitto – «capace di far trascendere ai singoli e ai partiti l’ottica da cui ciascuno proveniva». Oggi, colleghi, non manca la dimensione mondiale, in ben altri termini: dallo slancio verso gli Stati Uniti d’Europa alla crisi economica e sociale, dalla sopraffazione dei forti contro i deboli al bisogno di politica e di democrazia che pulsa dentro la società, insieme alle spinte verso il populismo e la rottura dei vincoli di solidarietà.

C’è un’ora della storia, anche oggi, che non possiamo mancare. Se questo non è evocato nel nostro dibattito, sterile è il nostro lavoro. Come siamo lontani da quel «crogiolo ardente e universale», da quel «consenso comune, moderato ed equo» – parole di Don Giuseppe Dossetti – che segnò allora l’Assemblea costituente. Ma almeno non ci venga a mancare oggi, dopo decenni di tanto travaglio politico e perfino, possiamo dirlo, di dissipazione collettiva, la lucidità della ragione, che ci faccia intendere ciò che è in gioco oggi, ciò che ancora può fare, in questo tramonto di legislatura percorso da scosse telluriche, che riguardano certamente anche la politica, il Parlamento della Repubblica, questo Parlamento, che è il Parlamento della Repubblica. Grande, colleghi, è oggi la nostra responsabilità di fronte al popolo italiano. Non perdiamo noi la bussola nel disorientamento generale.

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