Come destreggiarsi tra schede e trivelle

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Il referendum del prossimo 17 aprile non è uno di quei quesiti belli chiari e lineari che non sono mancati nella storia di questo istituto democratico. E’ frutto di un braccio di ferro tra alcune regioni (9, con capofila la Basilicata) e il governo: le regioni avevano presentato molti quesiti contro le attività di estrazione di idrocarburi, alcuni superati da successive correzioni e altri dichiarati inammissibili dalla Corte costituzionale. Ne è resistito uno, che vuol cancellare le parole «fino alla durata della vita utile del giacimento», introdotte dalla legge di stabilità per allungare indefinitamente la durata delle concessioni. Abrogando tale frase, le concessioni in essere tornerebbero a scadere alla loro data prevista (in qualche caso, tra vent’anni). Comunque votino gli italiani, quindi, non ci sarà quasi nessun cambiamento immediato. Non si tratta di vietare nuove trivellazioni o qualcosa di simile (tra l’altro, nuove concessioni entro le 12 miglia sono già state vietate dalla recente normativa). Poca cosa, si vorrebbe dire. Come spesso succede, a questo referendum resta attaccato quasi solo il solito discorso sul «messaggio politico» alternativo che una vittoria del no o del sì si prefiggerebbe di dare. Non mi pare peraltro un utilizzo molto sensato del referendum. C’è molto da riflettere in questo senso, per poter riscattare l’esperienza referendaria – di grande importanza democratica – dal discredito in cui è fondamentalmente caduta.

Potremmo anzi allargare il discorso: la mediazione tra la cruciale salvaguardia dell’ambiente naturale (e quindi anche del futuro dell’umanità) e la gestione del delicatissimo equilibrio energetico del paese (e del mondo) è un tipico problema politico di alta complessità. Non ha senso usare slogan, del tipo: io sono per l’ambiente e non mi interessa il resto; oppure, io sono per la tecnologia e non mi curo delle sue conseguenze. Sarebbero ambedue semplificazioni pericolose e infine inaccettabili. Mi parrebbe del tutto chiaro che si tratti di un problema non risolvibile a colpi di slogan o secondo decisioni emotive. E’ un problema che chiede piuttosto capacità di previsione, costruzione di strategie, contemperamento di approcci diversi, uso di un mix di strumenti. Per dirla breve, occorre una pianificazione che coltivi una vera e propria transizione graduale fuori dal dominio delle energie fossili (carbone, gas, petrolio), le quali sono sia inquinanti che scarse, sapendo peraltro che da esse non potremo affatto prescindere del tutto, probabilmente per molti anni ancora. La transizione è già abbondantemente in corso e l’Italia è piuttosto avanti nell’uso di risorse energetiche rinnovabili e pulite (un cittadino italiano consuma oggi in media 7,4 barili di petrolio all’anno, mentre nel 2000 erano 12, secondo Linkiesta). Ma con questo non si può sostenere che tutto è stato fatto. Si può criticare molto: gli strumenti scelti, il timing, le priorità, le modalità. Si dovrebbe imparare di più dagli errori. Ma se si sta dentro il concetto di transizione, siamo su un terreno di ragionevolezza, che la politica potrebbe e dovrebbe sempre raffinare. Talvolta il processo scappa di mano, e il risultato è invece questo appuntamento referendario, che definirei quanto meno problematico.

Del resto, le trivelle attualmente (e in qualche caso da molti anni) in funzione nei nostri mari non sono molte: quelle attive sono 26 concessioni per un totale di 79 piattaforme marine. Sono già abbondantemente soggette a una riduzione di attività e a una contrazione di lavoro: il crollo recente dei prezzi internazionali del gas e del petrolio sta colpendo molto queste imprese (che hanno costi di estrazione non banali). Se per il petrolio, comunque, esse producono una quota veramente marginale, non così per il gas, storicamente più importante (e anche infinitamente meno inquinante del petrolio, sia quando viene estratto che quando viene bruciato): ne importiamo 54 miliardi di mc all’anno, estraendone circa 7. I dati sull’inquinamento reale degli impianti attivi sono molto molto controversi: qualcuno dice siano drammatici, altri li ridimensiona con decisione (si sostiene che sui tralicci dei pozzi si allevano addirittura le cozze migliori, in quanto d’alto mare…). Secondo un’ala riformista prudente (Prodi e Bersani, per intenderci), non avrebbe senso abbandonare o ridurre improvvisamente la tecnologia dell’estrazione degli idrocarburi, in termini di credibilità dell’industria nazionale. Il turismo è invece spesso richiamato, ma non sembra essere colpito da particolari danni da impianti che stanno a venti chilometri circa dalle coste. E’ anche curioso che non ci siano nell’elenco dei promotori le regioni dove in realtà si estrae di più (Emilia-Romagna e Abruzzo: quest’ultimo in realtà prima c’era e poi si è ritirato): non è quindi un problema di «not in may back yard», quanto proprio di priorità divergenti. Il tema degli incidenti sempre possibili è una minaccia reale (non vale dire che finora in una lunga storia italiana sono stati pochi e circoscritti): ma è pur sempre vero che l’incidente potrebbe riguardare anche le petroliere o i gadsotti per importare il differenziale che mancherebbe di qui a qualche anno.

Insomma, le certezze sono poche e la discussione può durare all’infinito, anche se su una base piuttosto esile. Piuttosto, ha fatto discutere la posizione di Renzi che ha invitato all’astensione. Mossa poco comprensibile per il leader di un partito che si dice democratico e dovrebbe difendere la correttezza del funzionamento delle istituzioni. Difficile negare che l’astensionismo sia la via più facile ma anche la meno lungimirante per chi voglia far fallire il quesito, dato che si appoggia sull’astensionismo «spontaneo» che soprattutto per quesiti difficili o molto tecnici è presumibilmente già altro in partenza. Il prezzo da pagare è un ulteriore discredito per le istituzioni. Quindi l’invito a informarsi, farsi un’opinione e votare è il requisito minimo che si potrebbe sostenere.

 

Guido Formigoni

2 Comments

  1. Guido (Campanini) concorda con Guido (Formigoni): referendum troppo tecnico e dalle scarse conseguenze pratiche. Per questo non andrò a votare – però mi riservo di decidere domenica sera, e se vado voterò NO.
    Piuttosto sull’ambientalismo occorrerebbe dire anche questo:
    tutti costoro sono per le energie rinnovabili, per favorire il trasporto su rotaia rispetto alla gomma, o via mare.
    Però sono contrari alla TAV (meglio le autostrade?), i parchi eolici rovinano sempre un paesaggio unico al mond o(ongi paesaggio è unico al mondo…), le dighe vanno abbandonate e non costruite perché un nuvo Vajont è sempre possibile, le centrali a biomasse sono potenzialmente pericolose, l’ampliamento dei porti può essere dannoso per la fauna ittica o rovinare le nostre incontaminate coste….

  2. Non vorrei aprire una discussione in famiglia ;-)… Personalmente andrò a votare ma sono ancora incerto sul voto. Secondo me un conto è riconoscere che il non raggiungimento del quorum è una possibilità e che esiste anche un “diritto” di non recarsi alle urne e un conto è invitare esplicitamente a non andare a votare, linea che non mi trova d’accordo. A mio parere il vero dilemma non è tra trivelle sì o trivelle no, ma tra il diverso significato che le due scelte hanno: il sì è una scelta di tipo ideale e simbolico, intende dare un segnale di opposizione alle tradizionali politiche energetiche per stimolare a cambiare registro; il no è invece un voto tecnico, razionale, che si basa sulla constatazione che il cambiamento è lungo e complesso e che nel breve periodo non estrarre dal nostro mare vuol dire di fatto importare di più dall’estero, magari a costi maggiori. Mi pare che anche le posizioni nel c.d. mondo cattolico siano segnate da questa diversa impostazione: alcuni gruppi e vescovi ne fanno più che altro una questione di “segnale etico”, altri, come Prodi, in modo altrettanto legittimo, si rapportano al problema in termini più “laici” e tecnici.
    Aggiungo che, al di là di alcuni eccessi e alcune ipocrisie (ma dove non ve ne sono?..) prendersela con gli “ecologisti” o “ambientalisti” non ha molto senso in Italia: magari fossero stati così tanti e così forti da evitare la grande quantità di scempi ed errori che ha contrassegnato il nostro Paese (che rimane, nonostante questo, il più bello del mondo!). Abbiamo ancora molto da imparare e da praticare in questo senso… E se qualche gruppo, peraltro assai minoritario (in altri paesi i Verdi incidono sulle politiche “a monte”) , ci ricorda – come fa il Papa, del resto – che si possono e si debbono cercare strade nuove rispetto a quelle già percorse e che ci hanno portato a mettere a rischio la salute del pianeta, possiamo anche discutere sulle singole strategie e decisioni, sul rapporto tra ideale e possibile, ma prendendo sul serio i temi e i problemi che vengono sollevati.

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