Nella “Lumen fidei” la mano di Bergoglio

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 L’autrice è vaticanista di Rai news 24 e presidente dell’UCSI Lazio

Un’enciclica a quattro mani, pubblicata nel giorno che qualcuno ha definito “dei quattro papi”: Benedetto e Francesco, ma anche Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, dei quali arriva la notizia della imminente canonizzazione in contemporanea. Una notizia importante (insieme alla promulgazione del decreto sulle virtù eroiche di Giuseppe Lazzati), perché se la santificazione veloce di Wojtyla era attesa e preparata, quella di papa Giovanni – in assenza peraltro di un secondo miracolo riconosciuto – è un atto voluto da papa Francesco, che sta ritornando alle origini del Concilio per rilanciarne le intuizioni. Il suo discorso su papa Giovanni, a 50 anni dalla morte, quello su Paolo VI, a 50 anni dall’inizio pontificato, sono segno della radice profonda che papa Francesco ha nei due papi del Concilio.

Anche l’enciclica Lumen Fidei cita, nell’introduzione, questi 50 anni definendo il Vaticano II “un Concilio sulla fede”.

Papa Francesco riprende la bozza lasciatagli da papa Benedetto, che aveva già “quasi completato” l’enciclica sulla fede, e alla “prima stesura” aggiunge “ulteriori contributi”. Ne scaturisce un testo in cui non è difficile cogliere l’impianto ratzingeriano, ma dove è altrettanto efficace la mano di Bergoglio, che comunque tutto assume come proprio.  
La fede è vista non come  presupposto scontato, ma come un dono di Dio che va nutrito e rafforzato. “Chi crede, vede”, scrive il Papa, perché la luce della fede viene da Dio ed è capace di illuminare tutta l’esistenza.

La fede è connotata anche dalla “paternità”, perché il Dio che chiama non è un Dio estraneo, ma è Dio Padre, la sorgente di bontà che è all’origine di tutto e che sostiene tutto. E’ affidamento all’amore misericordioso di Dio, che sempre accoglie e perdona, che raddrizza “le storture della nostra storia”. E’
partecipazione al “modo di vedere” di Gesù all’interno del corpo della Chiesa, come “comunione concreta dei credenti”. La fede, ancora, “non è un fatto privato, una concezione individualistica, un’opinione soggettiva”, ma nasce dall’ascolto ed è destinata a pronunciarsi e a diventare annuncio.

In tempi in cui si tende ad accettare solo la verità della tecnologia oppure le verità del singolo, valide solo per l’individuo e non a servizio del bene comune, e si sospetta della “verità grande, la verità che spiega l’insieme della vita personale e sociale”, la proposta di fede è legata alla verità e all’amore, alla grazia che trasforma il cuore. L’ampia riflessione sul “dialogo tra fede e ragione” dischiude un orizzonte in cui la fede non è intransigente, il credente non è arrogante, ma contribuisce alla convivenza e al rispetto dell’altro, favorendo il dialogo in tutti i campi: quello della scienza, quello interreligioso, il dialogo con i non credenti. La fede, ancora, è proposta non come “un’opzione individuale”, ma come apertura dell’io al “noi”, ed avviene sempre “all’interno della comunione della Chiesa”. Il “mezzo speciale” con cui può trasmettersi sono i Sacramenti, a partire dal Battesimo.

Nel quarto e ultimo capitolo dell’enciclica si spiega il legame tra fede e bene comune, che porta alla formazione di un luogo – la città – in cui l’uomo può abitare insieme agli altri, con la fede al servizio concreto della giustizia, del diritto e della pace, “un bene per tutti” e “un bene comune” che aiuta a edificare le società, aprendo a un futuro di speranza.
Tra gli ambiti illuminati dalla fede, l’enciclica si sofferma sulla famiglia fondata sul matrimonio, inteso come unione stabile tra uomo e donna, che nasce dal riconoscimento e dall’accettazione della bontà della differenza sessuale e, fondata sull’amore in Cristo, promette “un amore che sia per sempre”. Un ulteriore ambito è quello della natura, con la fede che aiuta a rispettarla, a “trovare modelli di sviluppo che non si basino solo sull’utilità o sul profitto, ma che considerino il creato come un dono”. Sempre la fede insegna ad individuare forme giuste di governo, in cui l’autorità viene da Dio ed è a servizio del bene comune; offre la possibilità del perdono che porta a superare i conflitti. Se togliamo la fede in Dio dalle nostre città, scrive il papa, perderemo la fiducia tra noi e saremo uniti solo dalla paura. Per questo si invita a non vergognarsi di confessare pubblicamente Dio, in quanto la fede illumina il vivere sociale. Altro ambito illuminato dalla fede è quello della sofferenza e della morte: il cristiano sa che la sofferenza non può essere eliminata, ma può ricevere un senso, può diventare affidamento alle mani di Dio che mai abbandona. All’uomo che soffre Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua presenza che accompagna, che apre un varco di luce nelle tenebre. In questo senso, la fede è congiunta alla speranza. E qui Papa Francesco ripropone un appello che sente in maniera particolare: “Non facciamoci rubare la speranza, non permettiamo che sia vanificata con soluzioni e proposte immediate che ci bloccano nel cammino”.

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