Terroristi in casa e porte chiuse ai profughi

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di Giampiero Forcesi

 

In questi giorni siamo colpiti, tutti, da due fatti che ci feriscono, in modo diverso, come cittadini d’Europa: la morte, in Spagna, di quelle ragazze che facevano parte del più convinto e tenace partito pro-Europa, il programma Erasmus, e le bombe che hanno fatto strage di tante vite umane nella città che dell’Europa è la pur fredda e troppo burocratica capitale. Nonostante questa grande amarezza, questo sgomento, sentiamo la voglia di reagire. Da un lato trattenendo la paura e consentendo con i nostri figli perché riempiano ancora i treni e i bus dei loro itinerari, e, dall’altro, non rinunciando a cercare il dialogo con le comunità musulmane per isolare il terrorismo e per promuovere una convivenza più autentica, basata su diritti e doveri, e sulla riduzione del disagio sociale. Ma mi chiedo se abbiamo davvero la forza di una reazione vitale. Come possiamo averla se affrontiamo la questione dei profughi dalla Siria, e dall’Irak e dall’Afghanistan, così come stiamo facendo? Anche quei pochi leader politici europei che si rendono conto dell’inciviltà di chiudere le porte a chi scappa dalla guerra non hanno poi però il coraggio di essere coerenti fino in fondo, perché temono di essere sconfessati dai loro popoli e disarcionati dalle tante opposizioni presenti nei loro parlamenti e persino nei loro stessi partiti. Così è per la Merkel, in primo luogo, che pure ha avuto la fermezza, in momenti drammatici, di dire “i profughi vanno accolti, tanti quanti sono” . Così, credo, sia anche per Matteo Renzi. E per Francoise Hollande. L’Europa oggi sembra non avere più un’anima. E neppure l’intelligenza di ciò che accade. Non accogliere chi fugge dalla guerra, da Aleppo, da quelle città sfigurate, rase al suolo, e anzi non andare noi, direttamente, ai confini di quei paesi a tirare in salvo le persone, le famiglie, è qualcosa di incomprensibile. Le accuse mosse, all’interno dell’Italia e all’esterno, lo scorso anno, all’operazione Mare Nostrum è il segno del rattrappirsi del senso di umanità e della stessa capacità di comprensione della storia che stiamo vivendo. L’accordo dei giorni scorsi tra l’Unione europea e la Turchia è giudicabile come un piccolo passo positivo solo se si dà per scontato che i governi e i popoli dell’Europa siano ormai incapaci di difendere un diritto umano fondamentale come quello dell’accoglienza dei profughi.

E che cosa c’è alla base di questa scandalosa rinuncia? C’è l’incapacità di pensare che il proprio benessere possa arretrare; il rifiuto di pensare che ciò che si è ottenuto possa dover essere, anche in piccola parte, condiviso con altri. Spartito. E’ una sorta di egoismo che una cultura superficiale e vuota ha lasciato che si diffondesse e radicasse da decenni, e che la crisi economica di questi ormai lunghi anni ha inasprito, e messo oscenamente a nudo. Un po’ come è per i diritti acquisiti delle pensioni d’oro, ottenute magari anche indipendentemente dai sacrifici fatti. Diritti acquisiti. Da difendere. Chiudendo gli occhi. E gli orecchi. E naturalmente ottundendo l’intelligenza stessa. E chi governa teme di provocare l’ira del benpensante, se prova a ragionare sui diritti del profugo, del migrante. E ogni cedimento al benpensante rafforza quella falsa cultura dei diritti acquisiti. Diritti, sempre diritti. Doveri quasi mai. Così che i “doveri inderogabili di solidarietà” di cui parla il secondo articolo della nostra Costituzione, e di cui per altri versi parlano le carte internazionali, li abbiamo assai poco coltivati, pensati, vissuti, se non nella fattispecie delle “tasse”, che sono certo alte, troppo alte, ma soprattutto che rappresentano solo l’elemento passivo, delegato, in qualche modo anonimo e persino astratto, del dovere di solidarietà. Paghiamo alte tasse; ma siamo, paradossalmente, altamente egoisti.

Eppure, la scommessa che è necessario fare è che c’è una parte in ognuno di noi che è altra cosa dall’egoismo; è il suo opposto. Ma l’abbiamo allenata molto poco, soprattutto molto poco sul piano civico, sociale, collettivo, nazionale, e internazionale. La viviamo per lo più individualmente, o in piccoli gruppi. Non come paese, come popolo. E’ ora di imparare, o reimparare, a farlo. Abbiamo bisogno di leader politici che sappiano accompagnarci in questa riabilitazione collettiva. Nella riabilitazione dei sentimenti e dei pensieri che danno senso e forza al principio di solidarietà.

E’ solo per questa via, se saremo capaci di intraprenderla, recuperando in umanità e in dignità, che potremo nutrire anche un sentimento di attaccamento autentico per l’Europa, e trovare vie efficaci per  tacitare il terrorismo. Non è in grado di farlo un’Europa che chiude le porte in faccia ai profughi.

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