Una democrazia che ha “freddo” e “fame”

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Uno dei protagonisti della scena politica del secondo Ottocento ha una volta affermato, in relazione alla Francia della II Repubblica, che “la democrazia ha freddo e fame”. Sembra che, pur in un contesto profondamente mutato, quelle parole si attaglino perfettamente all’Italia di oggi: il “freddo” fa riferimento al difficile cammino dei fondamentali diritti (primo fra tutti quello al lavoro), la “fame” è quella provocata da una profonda crisi della nostra economia.

Il problema che sta oggi di fronte alla democrazia italiana – come per certi aspetti, d’altra parte, avvenne all’indomani della prima guerra mondiale – è quello di soddisfare nello stesso tempo l’uno e l’altro bisogno, senza in nessun modo indurre ad operare una scelta tra “diritti” e “bisogni”. Impresa tuttavia non facile, perché l’urgere dei bisogni può far lasciare in secondo piano, o far addirittura dimenticare, i diritti umani, senza i quali nessuna autentica democrazia si costruisce.

Nel particolare contesto di oggi – considerati i vistosi arretramenti dell’economia – si profila il rischio di mettere in crisi le istituzioni della democrazia: di soddisfare la “fame” rimanendo al “freddo”; e cioè, fuor di metafora, perseguendo strade fondamentalmente autoritarie.

Il grande problema che oggi si pone alla democrazia italiana è quello di far accettare ai cittadini un ridimensionamento delle loro attese (con la cessazione di quel costante progresso, in termini di reddito, che per quasi un cinquantennio ha costantemente caratterizzato il secondo dopoguerra) e dunque dei loro bisogni, veri ed immaginari, senza dar spazio alle “sirene” che, attribuendo la crisi economica essenzialmente agli sprechi delle classi dirigenti, cavalcano con grande disinvoltura il malcontento.

Si tratterà dunque di realizzare una migliore giustizia sociale – con l’impietoso taglio delle rendite di posizione pubbliche e, in quanto possibile, private – ma avendo nello stesso tempo la consapevolezza che una lunga stagione, alla quale pressoché tutti si erano abituati, è finita e che occorrerà ridimensionare e selezionare i bisogni. Impresa tutt’altro che facile perché non è facile rassegnarsi a quella che è ritenuta da molti un’intollerabile “povertà” (mentre in realtà è ancora “ricchezza”, pur relativa, di fronte alle immense miserie del mondo).

Spetta in questo campo alla classe politica il compito di far comprendere l’ineluttabilità di alcuni sacrifici (senza indulgere a false promesse elettoralistiche) ed insieme di operare per una migliore giustizia sociale redistribuendo redditi e lavoro, disboscando le persistenti “rendite di posizione” e salvaguardando il miglior “stato sociale” senza indulgere alle facili semplificazioni grate agli imbonitori di piazza.

Si apre dunque per il Paese-Italia la difficile stagione della conciliazione tra la salvaguardia delle istituzioni della democrazia, e dei fondamentali diritti umani, e il soddisfacimento dei fondamentali bisogni delle persone: al di là, tuttavia, del sogno, ormai infranto – e, crediamo,  per sempre – di un continuo e permanente aumento delle risorse. La “torta” è, con ogni probabilità, destinata a diminuire (o, comunque, a non allargarsi) e si tratta dunque di calibrare con saggezza e con giustizia la ripartizione delle “fette”. Altrimenti la democrazia continuerà ad avere “freddo” e “fame”.

Giorgio Campanini

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