Perché nel naufragio odierno c’è lo zampino del rentier

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Un contributo al dibattito da uno dei relatori al convegno del 29, il prof. Giovanni Mazzetti

 

Per quale ragione l’intervento dello stato a sostegno del sistema finanziario, pur limitando momentaneamente il tracollo, non può risolvere la crisi? Per il fatto che interviene sui sintomi della crisi, senza affrontare le cause che l’hanno determinata. Vediamo che cosa significa.

Quando Keynes sottolinea che la crisi si verifica per un’inadeguatezza della domanda aggregata rispetto alla capacità produttiva del sistema, intende sostenere che, ferme restando le condizioni generali della società, i bisogni che riescono a conquistare una solvibilità non si espandono spontaneamente in misura tale da far intravedere la possibilità di continuare ad erogare la forza-lavoro disponibile e di impiegare pienamente gli impianti produttivi esistenti o realizzabili. Non si riesce, cioè, a generare un lavoro corrente, un lavoro “vivo”, che sia in grado – senza metabolizzare consapevolmente la soddisfazione di quei bisogni con la programmazione – di far tornare fisiologicamente in circolo i risultati del lavoro svolto precedentemente, che Marx definiva come lavoro oggettivato. Il primo segnale del sopravvenire di questo fenomeno è rappresentato dalla caduta generale dei prezzi, cioè dalla deflazione. Poiché è stato erogato più lavoro di quanto – fermo restando il quadro dei rapporti economici – la società dimostra di riuscire ad assorbire, una parte di esso (diretta o indiretta) non verrà ripagata, cioè non riceverà il valore corrispondente a quanto è costata. Nel tentativo di contenere il danno, cioè la perdita, le aziende agiranno dal lato della minimizzazione di quei costi, contraendo la loro domanda d’investimenti e la produzione, o spostandoli là dove i costi sono inferiori. Ma questa strategia, sensata e valida a livello della singola impresa, retroagisce negativamente sul sistema complessivo, perché ogni riduzione dei costi non è altro che una contrazione della spesa, cioè un’ulteriore riduzione generalizzata della domanda aggregata. Da qui la crisi, con l’impoverimento generale che comporta.

Quando lo stato interviene con una propria spesa, cioè con una propria domanda, evita, o mitiga, la crisi. Creando redditi, oltre che ricchezza reale, consente a buona parte del prodotto preesistente di completare il suo cammino, entrando nel consumo e ricevendo in contropartita il suo valore. E consente anche di avviare la produzione del prodotto aggiuntivo realizzabile. Come abbiamo già accennato, quest’operazione riesce soltanto perché lo stato si confronta con i bisogni esistenti senza subordinare la loro soddisfazione alla riproduzione del rapporto di valore, cioè alla finalità perseguita dai capitalisti o anche solo al vincolo di dover farsi pagare i servizi che rende ai cittadini. Se agisse in modo analogo alle imprese, o a qualsiasi soggetto privato esigendo denaro, si troverebbe di fronte al loro stesso dilemma, quello di una inadeguatezza del numero di acquirenti, che non possono pagare perché non trovano lavoro. E dovrebbe fermarsi, rinunciando a produrre. Ma con l’impostazione di Beveridge lo stato, a differenza delle imprese, non considera la domanda come un qualcosa di esteriore, di esprimibile solo grazie allo spontaneo afflusso di denaro, bensì come un qualcosa che – con un’opportuna programmazione generale – può esprimere un suo potere, corrispondente all’uso delle risorse disponibili per la soddisfazione di bisogni generali, che altrimenti resterebbero insoddisfatti. Per questo riesce a spingersi coerentemente al di là dei limiti che intrappolano l’azione delle imprese e dei privati, garantendo una lunga fase di sviluppo. Se il lavoro oggettivato non riesce a comperare il lavoro possibile, perché altrimenti sopravverrebbe una svalorizzazione del prodotto, lo stato deve comperare il lavoro che resterebbe inutilizzato prevenendo la svalorizzazione della forza lavoro, che conseguirebbe dall’astensione dei capitalisti. Ma allo stesso tempo non deve vendere i prodotti (beni e servizi pubblici) perché altrimenti innescherebbe proprio la svalorizzazione che cerca di evitare. Per questo il prodotto pubblico non deve essere concorrenziale con quello privato e deve essere, invece, garantito per diritto, aggiungendosi così, al di fuori del rapporto di valore, al prodotto privato.

Il movente della soddisfazione immediata dei bisogni sociali, che non contempla il riafflusso del denaro con le imposte allo stato che lo spende, si scinde così dal movente del guadagno. Mentre prima del keynesismo i due erano strettamente intrecciati, nel senso che la perseguibilità del primo scopo era subordinata al raggiungimento del secondo – e cioè i lavoratori erano impiegati, e potevano soddisfare i loro bisogni, solo se c’era un imprenditore che investiva per il guadagno – ora la soddisfazione immediata dei bisogni può dispiegarsi autonomamente, sulla base delle risorse che gli imprenditori lasciano disoccupate. Non si deve però ignorare un aspetto del fenomeno che richiede particolare attenzione. Poiché la spesa è sempre un rapporto bilaterale, si presenta con una duplice determinazione, in corrispondenza degli scopi soggettivi di ciascuno di coloro che instaurano il rapporto. Così, mentre da un lato lo stato, attraverso la spesa, soddisfa bisogni, dall’altro lato, il capitale proprio in corrispondenza di quella spesa può guadagnare un profitto. Il denaro è, allo stesso tempo, speso (dallo stato) come reddito e percepito (dalle imprese) come capitale, cosicché lo svolgimento del processo riproduttivo ha un carattere ambivalente.

La condizione affinché queste due determinazioni non entrino in contrasto tra loro, diventando contraddittorie, é che il valore del moltiplicatore sia elevato, e cioè che la società sia povera. A questa condizione lo stato trasforma il prodotto eccedente in un reddito per la società, ma i capitalisti conservano, a chiusura del loro ciclo riproduttivo, il capitale esistente e ne vedono aumentare il valore assoluto, anche se il suo peso relativo sul prodotto complessivo via via decresce. Quando il valore del moltiplicatore crolla a livelli molto bassi, perché la società supera lo stato di miseria e si affaccia sulla soglia dell’abbondanza, i capitalisti finiscono col trovarsi in una situazione analoga a quella del ristagno in cui erano precipitati prima del keynesismo: trovandosi nell’impossibilità di creare lavoro aggiuntivo in misura adeguata a garantire la loro stessa accumulazione, non possono creare un plusprodotto e un profitto. Conseguentemente l’ambivalenza si trasforma in contrasto e la spesa pubblica può intervenire solo se il capitale e i privati non pretendono più di guadagnarci. Ma ciò significa che la società sta imparando a disporre delle risorse produttive senza aspettare che le classi egemoni le diano il “permesso” di farlo.

Ora, se il capitale non può più guadagnare per addizione di valore, può pur sempre continuare a cercare di guadagnare accelerando la detrazione dei suoi elementi di costo, cioè riducendo l’ammontare delle componenti di valore che vanno ai soggetti che interagiscono con lui, mentre allo stesso tempo sviluppa tecniche programmatorie che gli consento di manipolare il prezzo dei suoi prodotti. Ma, in tal modo la contrazione del peso relativo del processo capitalistico di riproduzione subirà un’accelerazione e la disoccupazione del settore tenderà inevitabilmente a crescere. Se lo stato continuasse a spendere per garantire l’impiego di tutte le risorse disponibili, la crescita di questa produzione sul totale tenderebbe a diventare inarrestabile e la società subirebbe un mutamento radicale. Se nel breve arco di tre generazioni il peso della spesa pubblica in termini relativi è mediamente quadruplicato, raggiungendo in molti paesi europei quasi il 50% del PIL, il protrarsi di questa tendenza finirebbe col trasformare la società in un organismo prevalentemente programmato.

E’ qui che interviene il rentier – che nel frattempo vede ingrossare le sue fila con l’ingresso in massa degli stessi capitalisti e di una parte rilevante dei lavoratori in rotta culturale – che, incapace di garantirsi un futuro affidabile con il processo accumulativo, si sposta decisamente sul terreno della speculazione finanziaria. Questa speculazione, a differenza di quelle delle epoche passate, non è tesa a cavalcare tendenze positive in atto, ma solo all’occultamento di quelle negative. Vale a dire che il flusso capitalistico mantiene la propria portata creando una ricchezza fittizia, ed attingendo, senza contropartita reale, dal flusso produttivo sostenuto in buona parte dalla spesa pubblica di reddito. La pretesa, insita nel fenomeno speculativo, che l’arricchimento possa intervenire per una crescita autonoma dello stesso denaro, a prescindere dall’andamento del processo produttivo, rovescia dunque il rapporto storico del capitale col resto della società. Da agente che sferzava continuamente la società a creare nuova ricchezza, il capitale finisce col limitare la produzione e con l’assumere un ruolo parassitario. Quando questa limitazione e questo parassitismo diventano palesi esplode la crisi. Questa, con la drammatica svalorizzazione sia del lavoro oggettivato che di quello corrente, dimostra che la convinzione del capitale di poter crescere senza il lavoro salariato è completamente priva di qualsiasi fondamento razionale, e la situazione di sofferenza che genera è talmente disastrosa, da imporre un cambiamento radicale dei rapporti sociali.

 

(tratto dal libro fuori commercio, “Alla scoperta della libertà che manca. Una bussola per orientarsi nella crisi e dar vita ad una politica alternativa”, a cura dell’Associazione per la redistribuzione del lavoro)

One Comment

  1. L’ultima frase é la chiave di lettura di tutta la crisi attuale: alla levitazione della massa finanziaria non ha corrisposto una pari quantità di beni e servizi reali. Qualcuno ha chiesto prestiti in cambio di titoli a garanzia, e qualcun’altro é disposto (o per inganno o per errore di valutazione o altro) a concedere i propri risparmi in cambio di interessi favolosi e con garanzia di quei titoli farlocchi.

    Che lo Stato acquisti beni reali e servizi non é necessariamente: Gli Stati del Sud degli USA si sono sviluppati negli ultimi decenni grazie alle commesse militari e spaziali dello Stato ad imprese impiantatesi in quelle aree proprio in vista di queste commesse . Appunto beni reali: armi, missili, telecom. L’unica ragione che mi ha persuaso del salvataggio delle Banche (con danaro dei contribuenti) é che di fatto le banche sono il braccio esecutivo di una funzione indispensabile del Mercato, regola il flusso dei capitali. Qualcuno deve pur farlo. Il punto é che non si é fatto discernimento fra banca e banca, fra caduta per errore e speculazione mirata. Del sistema di autoregolamentazione Basilea 2 e poi il 3 non se ne parla nemmeno più. L’autoregolazione è una grande bufala. Non dobbiamo più permetterlo. Il controllo deve essere effettuato da un’autorità terza. Anche il ruolo della Banca d’Italia deve essere più cogente. La Consob in Italia ha dormito.

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