La cultura politica di Moro fra utopia e realismo

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Pubblichiamo l’ultima pagina di un’ampia relazione che l’autrice ha tenuto il 10 maggio nell’ambito del convegno di studi “Studiare Aldo Moro per capire l’Italia” promosso dall’Accademia di studi storici Aldo Moro in occasione del XXXV anniversario della sua morte (Roma, 9-11 maggio 2013). Qui puoi leggere il testo integrale.

 

 

 

Fra il 1975 e il 1978 si consuma  l‘ultima fatica di Moro.  L’elezione di Zaccagnini a segretario della DC, è certamente una vittoria della sua linea e anche della prudenza tattica per cui evita di dare la sfiducia a Fanfani che non è l’unico responsabile degli errori compiuti. Quella elezione sarà anche un segnale importante per il paese, per le giovani generazioni, per consolidare, malgrado tutto,  nella storia italiana, la valenza etica e culturale della componente cattolico-democratica della DC.  Ma non riuscirà, nemmeno con l’elezione diretta al Congresso del 1976, a sciogliere i nodi del partito. 

 

Il voto elettorale del 1976, con i due vincitori, porrà il nodo del governo in termini drammatici, che Moro esprimerà senza reticenze e come sfida aperta, dagli esiti imprevedibili,  nel suo ultimo discorso ai gruppi parlamentari.  Al centro di quella proposta c’è però sempre il suo stile, la strategia dell’attenzione verso tutti, la ricerca anche complessa e articolata delle convergenze possibili, la consapevolezza esplicita dei rischi delle contrapposizioni, che è quello che resta dell’utopia, della speranza, della fiducia nell’altro. Sono personalmente convinta che, malgrado il perdurare di importanti distanze, Moro avesse più fiducia nella convergenza col PCI di quanto avesse sperimentato con i socialisti. Fiducia, ma anche realismo: “Ma immaginate amici che cosa accadrebbe, in questo momento in Italia se fosse adottata fino in fondo la logica dell’opposizione?”. L’ostacolo realistico oggettivo che non può essere ignorato è altro: “Sappiamo che vi è un problema di politica estera delicatissimo, sappiamo che vi è diffidenza in Europa”. E’ sostanzialmente per questo che “vi è un’emergenza politica”.

 

Una delle domande di fondo  di fronte  a questa linea politica,   proprio in termini di conferma dell’estremo realismo di Moro, è sull’affidamento di essa ad Andreotti, che del resto la caratterizzerà subito con la scelta disastrosa, fino ad essere provocatoria, dei ministri. 

 

Io credo che una risposta venga da quanto ci ha riferito Galloni riportando la sua ultima conversazione con Moro:  secondo Galloni le ipotesi che coltivava Moro erano un governo fino al 1981, in cui il PCI avrebbe da una parte “compiuto i passi decisivi per confermare la sua autonomia da Mosca,  e noi dall’altra i passi decisivi  iniziati con la segreteria Zaccagnini per trasformare il partito in un partito popolare”. A quel punto il passaggio a una vera democrazia dell’alternanza, senza rischi, avrebbe potuto finalmente davvero fare uscire l’Italia dalle sue difficoltà:  “Avremmo finalmente raggiunto in Italia la democrazia compiuta”[1].

 

Ecco, l’utopia di Moro non puntava sul governo né come strumento di innovazione, né come compromesso. L’utopia morotea puntava realisticamente sul mutamento del sistema dei partiti che bloccavano ogni ipotesi di autentica innovazione. Scoppola e Franco De Felice hanno sottolineato di Moro l’acuta consapevolezza che la nostra era stata ed era ancora una democrazia difficile: tanto difficile che la mediazione fra utopia e realismo resta carica di  problemi e interrogativi irrisolti.

 

Il nodo per Moro era sul partito, che gli ha interessato forse sempre più del governo, il partito come strumento di stimolo al rinnovarsi sia del clima civile, sia delle istituzioni.

 

Lo aveva detto già con molta chiarezza ancora al Consiglio Nazionale del luglio 1975, quello che registrò la doppia sconfitta, amministrativa e referendaria, e elesse Zaccagnini. 

 

Il problema è “impedire, soprattutto in un partito come il nostro, che si perpetui senza alcuna mediazione il dualismo tra società civile e società politica”. “È in atto un processo di liberazione che ha nella condizione giovanile e della donna, nella nuova realtà del mondo del lavoro, nella ricchezza della società civile, le manifestazioni più rilevanti ed emblematiche. In qualche misura questo è un moto indipendente dal modo di essere delle forze politiche, alle quali tutte, comprese quelle di sinistra, esso pone dei problemi non facili da risolvere. Questo è un moto che logora e spazza via molte cose e tra esse la «diversità» del Partito comunista. Esso anima la lotta per i diritti civili e postula una partecipazione veramente nuova alla vita sociale e politica. È un fenomeno che può essere anche, per certi aspetti, allarmante ma è senza dubbio vitale ed ha per sé, in una qualche forma di autocontrollo e di temperamento secondo l’esperienza, l’avvenire. Io non dico, certo, che al nostro Partito, partito popolare, sia stata o sia estranea la sensibilità per queste cose: ma è certo che nell’incanalare questo movimento siano stati più pronti i partiti di sinistra, ed in particolare quello comunista, che non il nostro”. “È qui il problema che ci portiamo, insoluto da un Congresso all’altro, da un Consiglio nazionale all’altro. Alla domanda, se io abbia risolto questo problema, risponderò di no”[2].

 

Ancora insomma, sulla base delle parole scambiate con Galloni, Moro puntava, per uscire dalla democrazia difficile per una nuova democrazia basata sull’alternanza, su “una DC ricostituita, mi auguro libera dall’arroganza del potere”.

 

Purtroppo anche in questo investimento sul partito c’era forse più utopia che realismo: e tuttavia bisognerà pure riscoprire  che quel segno d’utopia ha ispirato ancora vite e tentativi, resistenze e dedizioni, intelligenza e coerenze, e ha lasciato tracce che vanno riscoperte e rinnovate,  perché questa utopia è anche una realtà  della storia  del nostro paese  che bisogna decidersi ad assumere.    

 

 

 

 

 



[1] Giovanni Galloni, “30 anni con Moro”, Editori riuniti, Roma, 2008, p.233.  Un’ulteriore ampia documentazione, sulla base dei discorsi di Moro, del suo puntare all’alternanza in un testo non molto citato, ma fra i migliori,  Felice La Rocca,  “L’eredità perduta, Aldo Moro e la crisi italiana”, Rubbettino 2001, p. 129, seg.

[2]  Ad un anno dal Congresso di Roma, intervento al Consiglio naz della DC, 19. 7.1974, in Scritti e discorso VI vol.  p. 3151

 

 

 

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