Il «fare» della politica contro la crisi

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Il governo Letta ha assunto le sue prime misure per affrontare la crisi economica. Giusto un attimo dopo essere stato già accusato di immobilismo dal «Financial Times». Qualche consulente di comunicazioni l’ha convinto a chiamare il provvedimento «il decreto del fare». Mai espressione fu più appropriata per condurci nel cuore di un problema: cosa fa la politica contro la crisi? Cosa può fare, cosa vuole fare? O anche: può fare qualcosa?

Il decreto in sé appare piuttosto povero, per quanto al momento si conosce. Si è raschiato il fondo del barile delle misure di buon senso «a costo zero» che era possibile inventarsi, dalle semplificazioni alle digitalizzazioni. Si è messo un piccolo cip sullo sblocco dei cantieri di alcune infrastrutture e uno poco più grande su finanziamenti agevolati alle piccole e medie imprese, un ridicolo 100 milioni sull’edilizia scolastica (problema enorme) e un altro piccolo segno di allentamento delle redini di bilancio sull’università. Poi si possono apprezzare le misure per rendere più flessibile la riscossione fiscale o per obbligare le amministrazioni a evitare i ritardi: ma quanto c’entrano con il combattere la crisi? Casomai ne leniscono molto parzialmente gli effetti.

 Insomma, non c’è quello choc anti-congiunturale che molti economisti avevano chiesto. La creazione diretta o indiretta di lavoro sarà scarsa. Ci sarebbero volute molte più risorse. E non è che si possa dar troppe colpe al governo per non averne da mettere in gioco. Infatti con un indebitamento come quello italiano non si può certo comportare «alla Obama» in materia di stimoli fiscali all’economia: l’unico margine è rinegoziare con l’Europa i tempi del riequilibrio di bilancio; ma si tratta comunque di cifre non all’altezza del problema. Per altri versi, la stessa composizione del governo ha giocato la sua parte: non si può immaginare di rilanciare l’economia se si rinuncia all’introito dell’Imu (vedremo la rimodulazione promessa, ma il Pdl sta già facendo barricate per far diventare definitiva la sospensione). Ci sarebbe ancora qualche margine per colpire i patrimoni, ma non è che le misure prese da altri paesi (vedi le aliquote francesi per i ricchi) siano state questo grande successo. In Italia non avremo margini per agire significativamente fin quando non si ridurrà l’enorme spazio dell’evasione e del sommerso.

Questa immagine di una politica che non riesce a «fare», parzialmente per ragioni oggettive e parzialmente per i propri complessi modelli di funzionamento, pone un grosso problema. Dobbiamo semplicemente prenderne atto e chiedere di meno? Oppure c’è qualche via d’uscita? Proporrei due spunti per una discussione.

Il primo: la crisi che viviamo non dipende affatto solo dalla politica e quindi è ovvio che la politica da sola non la possa affrontare efficacemente. Ci sono responsabilità delle imprese, della società, della cultura. C’è una società invecchiata, che non fa figli, che non osa il futuro. Ci sono imprese che hanno privatizzato ogni profitto e scaricato costi sulla collettività per decenni,  costruendo la competizione sul costo del lavoro e non sulla produttività. Ci sono intellettuali in disarmo, un’università penalizzata come risorse e seduta sulle proprie rendite. C’è il residuo della famosa vitalità della società civile italiana che è rimasto evidente solo nell’individualistica ricerca del tirare a campare. Hai voglia ad affrontare tutto ciò con la sola politica! Non si può darle troppe colpe, quindi. Ma nemmeno assolverla del tutto: se la politica esprime il meglio della classe dirigente di un paese, ha il compito di individuare i problemi e almeno di provare ad avviare circuiti virtuosi tra il meglio della società e il meglio della capacità direttiva del politico.

 Il secondo: siamo sicuri che non dobbiamo ragionare ancora sulla crisi? Una certa logica del «guadagnare tempo» con alcuni semplici maquillage è frutto dell’idea più o meno conscia che la crisi sia congiunturale: quindi prima o poi arriverà la famosa «ripresa mondiale» che come un’onda di piena benigna solleverà anche la scassata barca italiana. Ma questo è un punto-chiave. Dovrebbe essere presa in considerazione invece l’ipotesi che la crisi sia strutturale, che un certo modello di rapporti politica-economia-mondo non tenga più, che vada profondamente rivisto. E’ il modello che ha portato l’Occidente fuori dalla crisi dei ’70 che si è esaurito (chiamiamolo come vogliamo: globalizzazione, finanziarizzazione, neoliberismo… tutte etichette parziali). Se questo è lo scenario, allora occorrerebbero molti più investimenti sia in ricerca intellettuale sia in creatività politica. In ricerca intellettuale, perché l’analisi sulla crisi non basta: dalla consapevolezza della profondità del problema deve nascere una ricerca su come inventarsi un modello alternativo, che – diciamolo chiaro – oggi nessuno ha già in mano. Ma anche creatività politica, perché i modelli nuovi non escono perfetti come Minerva dal cervello di Giove: nascono nel cuore delle battaglie, intravedendo strade, tentando ipotesi, cogliendo spezzoni di soluzione, incentivando cambiamenti della mentalità comune, suscitando e mobilitando energie nascoste. C’è ancora qualche forza politica organizzata, qualche impresa collettiva, che voglia tentare di rispondere alla sfida?

 

Guido Formigoni

2 Comments

  1. D’accordissimo!
    Alle tre “C” aggiungiamo la quarta: “Creatività”.

  2. Sulla questione politica (secondo spunto) non saprei dire poichè non ho la soluzione. Sul primo spunto di riflessione sono d’accordo sul fatto che non è solo “colpa” della politica, questa crisi. Se il modello economico fin’ora in uso è saltato, bisognerebbe inventarne uno che tenga conto dell’economia mondiale, non solo degli interessi particolari di una parte del mondo. Una specie di economia in stile equo e solidale, che promuoveno uno sviluppo globale, ridia fiato e incentivi alla vita (non solo economica) di tutto il pianeta.
    Paola Billo

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