Gianpietro Cavazza / Essere nuovi non basta davvero (29 ottobre)

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Provo a rispondere al quesito su ciò che è nuovo/vecchio in tempo di crisi non riprendendo le cose che sono già state dette, se non quelle strettamente necessarie, ma cercando di aggiungerne delle altre.

Innanzitutto proviamo a capire meglio le caratteristiche di questa crisi. Se si limita lo sguardo agli ultimi vent’anni, si sono manifestate ciclicamente una serie di crisi economico-finanziarie, da quella di Wall Street nel 1987 alla crisi asiatica nel 1997-1998, a quella delle società di internet nel 2000-2001, alla crisi argentina nel 2001-2002, fino a quella recente nel 2007-2008 indotta dai mutui subprime. Con questi pochi dati si potrebbe già dire che la crisi è sistemica, nel senso che è prodotta dal sistema stesso.

E’ crisi sistemica perché è anche crisi di senso e mette in gioco la nostra soggettività. Ad esempio, è cambiata la rappresentazione che ciascuno di noi attribuisce al denaro. Oggi si utilizza il denaro sganciato quasi completamente, per non dire totalmente, dalla sua oggettività. Il denaro non è più meramente riconducibile a qualcosa di materiale come l’oro o l’argento, l’automobile o la casa o perfino alla carta o al metallo che lo simboleggiano.

In altri termini è in atto una spaccatura tra le esigenze delle persone e delle famiglie, legate alle proprie traiettorie di vita e al proprio reddito, e le dinamiche del denaro che produce altro denaro attraverso la formalizzazione e l’automatizzazione dei comportamenti sociali e delle procedure tecniche, risultando insensibili alle leggi di mercato e a quelle delle istituzioni.

La crisi, oltre ad essere sistemica e di senso, è anche, banalmente, non democratica. Per inciso la crisi si dimostra essa stessa iniqua (d’altra parte è generata da un sistema iniquo) in quanto è innegabile che questa congiuntura strutturale stia colpendo più duramente alcuni gruppi di persone che non altri. In altri termini, c’è chi dalle crisi ha continuato a guadagnarci ed altri invece che ne sono stati drammaticamente colpiti.

Alla crisi, che ovviamente non può essere circoscritta agli ultimi anni ma che appunto era già presente quando si è affermato il nuovo sistema, e agli inconvenienti che essa produceva, si è cercato di ovviare ponendo l’obiettivo di combattere le varie forme di “ismo”: consumismo, individualismo, moralismo, laicismo, qualunquismo, idealismo, materialismo, fanatismo …..

Inutile dire che queste battaglie si sono tradotte in altrettante sconfitte in quanto tendenti a negare la soggettività.

Allora, di fronte alla crisi ma soprattutto di fronte al sistema comunicazionale che ha generato e diffuso la crisi, cosa è nuovo e cosa è vecchio?

Si potrebbe dire che è nuovo ciò che sta fuori da questo sistema ed è vecchio ciò che è dentro. Ma è possibile rimanerne fuori? Esserne fuori vuol dire negare la soggettività e far parte di un altro mondo, e ciò esclude a priori ogni possibilità di essere, almeno, sale e lievito. Questa consapevolezza di essere dentro ad una dinamica che supera lo spazio e il tempo che ci è dato oggettivamente di vivere induce a pensare che la categoria nuovo/vecchio non sia sufficiente per decidere dove posizionarsi. Un po’ come la differenziazione destra/sinistra che oggi risulta per certi versi sfuocata anche solo per il fatto, tutto sintomatico, che almeno in Italia sia i governi di destra come quelli di sinistra, e ora quelli delle larghe intese, sono chiamati a rispettare alcune regole generali sovranazionali.

Si diceva prima della politica che partecipa al processo di virtualizzazione. Per semplificare, il problema non è tanto o non solo come vengono utilizzati i soldi pubblici ma come viene utilizzato il potere e da chi.

Nelle società della soggettività, il riferimento all’autorità superiore/trascendente viene sostituito dalla soggettività come concezione: “io sono l’artefice di me stesso”. Nel confronto politico si assiste diffusamente ad un investimento affettivo (sproporzionato) sulla propria idea/proposta politica, per cui lo scontro diventa totale anche in considerazione del fatto che l’individuo, in questo caso il politico di turno, diventa contemporaneamente il criterio di costruzione della propria conoscenza e il criterio di validazione della conoscenza stessa. Da questa prospettiva si comprende molto bene l’affermazione scontata ma altrettanto significativa di molti politici che di fronte al rilievo di un cambiamento della loro opinione ribattono: “ma io sono sempre stato coerente con me stesso”, e talvolta aggiungono: “e con la mia coscienza”.

Si conferma che l’organizzazione teorica della soggettività diventa il criterio di validità o meno dell’organizzazione statutaria e politica. Il richiamo, talvolta in corner, della politica dei diritti, certamente necessario ma non sufficiente, significa sottostimare, come si è cercato di argomentare, il modo con il quale il cittadino determina le proprie azioni e le proprie relazioni, che non sono solo di tipo cognitivo.

Pertanto l’asse nuovo/vecchio o destra/sinistra o cambiamento/immobilismo andrebbe correlato all’asse autoreferenza/referenza. In sostanza si può essere, teoricamente, nuovi e/o di sinistra ma autoreferenti. In questo caso il risultato è scontato ed è purtroppo sotto l’occhio di tutti.

Pertanto, mentre partecipiamo alla discussione sulla nuova legge elettorale o alla nuova costituzione o a come dare lavoro ai giovani e sicurezza alle persone non autosufficienti, proviamo ad interrogarci: come ci rapportiamo con il potere? come ci ribelliamo alla logica del più forte? come stiamo dalla parte dei più deboli? come cambiamo il nostro stile di vita? come (e se) essere maggioranza politica dal momento che si è minoranza culturale?

 

Gianpietro Cavazza

 

 

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