Cinque impegni per tutta la chiesa e gli immigrati

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“Negli anni che vengono la nostra credibilità è in gioco” (articolo pubblicato su Segno Sette nel gennaio del 1990)

di Giampiero Forcesi

Si deve a quattro organismi della Chiesa italiana se sulla questione cruciale e piena di futuro dell’immigrazione

In Italia alcune indicazioni organiche sono state date ed oggi risultano impegnative per l’insieme della Chiesa in Italia. Un gran lavoro alla base è certo stato fatto già da molti anni. Gruppi, parrocchie, uffici diocesani hanno via via preso iniziative, aperto case, organizzato incontri, premuto sulle istituzioni civili. Soprattutto la Caritas italiana e le Caritas diocesane hanno offerto stimoli alle comunità ecclesiali, hanno avviato esperienze, hanno creato momenti di riflessione in precedenti convegni. Ma ora, con il convegno ecclesiale che si è tenuto a metà dicembre a Roma, è la stessa Conferenza episcopale italiana ad essersi coinvolta ed impegnata.

I quattro organismi promotori del convegno sono stati: la Caritas Italiana, la Fondazione “Migrantes” (organo costituito dalla Cei, con un nuovo statuto nel 1987, per l’assistenza socio-pastorale e religiosa agli emigranti italiani e agli immigrati in Italia, presieduto da mons. Cantisani e posto sotto la direzione della Commissione ecclesiale per le migrazioni di cui è presidente lo stesso arcivescovo Cantisani), l’Ufficio nazionale per la cooperazione missionaria tra le Chiese, e l’Ufficio nazionale per i problemi sociali e del lavoro. Questa partecipazione a quattro è stata considerata un po’ da tutti una novità positiva. Nuovo, e valido, il metodo: il convegno è l’apporto dei quattro diversi organismi, ampliando quindi gli elementi di conoscenza e coinvolgendo un discreto numero di realtà anche di base. Mons. Cantisani ha insistito molto ed è scritto anche nel documento finale sulla necessità che i quattro direttori degli organismi promotori del convegno costituiscano un “gruppo permanente” posto “a servizio dei fratelli immigrati”. Tale forma di coordinamento ecclesiale permanente è stata suggerita anche regionale e diocesano.

Punto base al centro del convegno è stato il riconoscimento che “tutta la Chiesa deve farsi carico del problema” e che occorrono “linee pastorali comuni per tutta la Chiesa italiana”. “Col comportamento nei confronti degli immigrati – ha detto mons. Cantisani – ci giochiamo la nostra credibilità di cristiani”. “Tutta la credibilità”, ha aggiunto. L’abbozzo di linee pastorali emerso dal convegno (nel quale hanno preso la parola molti sacerdoti, laici, religiosi e religiose) si può riordinare in cinque punti, tratti dal discorso conclusivo dell’arcivescovo Cantisani e rintracciabili nel documento finale.

Primo:

si riconosce la necessità di regolare i flussi migratori, ma ci si oppone in modo fermo ad una regolazione fatta soltanto sulla base delle esigenze del mercato del lavoro. “Se fosse proprio così, si dovrà dire che è sempre l’economia, per non dire il profitto, la regola suprema. E, su tanto, di certo non ci staremo” (relazione Cantisani). La programmazione degli ingressi degli immigrati deve avvenire così il documento finale “sulla base di due criteri congiunti e complementari: i bisogni propria terra; e la capacità di inserimento lavorativo, sociale e culturale nel nostro Paese”.Si può osservare, a questo proposito, che nella relazione tenuta dal card. Martini al convegno, questo problema, che è quello cruciale e più delicato, è stato affrontato in un’ottica insieme più complessa e più attenta ad una mediazione di razionalità. In sostanza Martini, dopo aver osservato che “sta diventando impossibile gestire questo problema nelle grandi città in modo razionale ed efficiente”, ha detto che il diritto di immigrazione va certamente riconosciuto a tutti, come diritto soggettivo; ma “non si tratta di un diritto illimitato, dal momento che ogni cittadino ha il dovere di contribuire al bene del proprio paese”. Come a dire che c’è, in certa misura, anche un dovere a ‘restare’, ad affrontare responsabilmente le difficoltà del proprio paese. Non solo, ma i governi dei paesi di immigrazione, come oggi è l’Italia, possono limitare l’ingresso “in funzione del poter accogliere e del poter inserire gli immigrati. “Spetta ai Paesi ha osservato il cardinale stabilire le possibilità di accoglienza”.

Secondo:

Tra i molti servizi da garantire agli immigrati ha un posto di rilievo la dimensione culturale. È fondamentale che agli immigrati sia consentito di divenire autenticamente ‘soggetti’ della loro vita sia nella società civile che nella Chiesa. In tal senso hanno molta importanza le associazioni degli immigrati, le quali vanno favorite in ogni modo. Va evitato che si arrivi ad una integrazione nel senso di un loro ‘divenire come noi’; mentre si deve ricercare l’integrazione come dialogante convivenza e mescolamento di culture diverse. “Integrazione non significa ‘integrazione di’ (gli altri a noi), bensì ‘integrazione fra’ (culture diverse)” (Cantisani).

Si può aggiungere, sul piano della cultura, che la presenza degli immigrati “rivela l’esigenza di modificare la nostra cultura, tuttora ispirata a criteri di omogeneità, aprendo prospettive di una giustizia nuova che si allarghi all’accoglienza delle diversità e valorizzi il pluralismo” (Documento finale).

Terzo:

La questione dell’assistenza religiosa agli immigrati dovrà essere seriamente affrontata in un apposito convegno. Si tratta infatti in molti casi di un incontro con persone di religioni diverse, soprattutto mussulmani. Ciò “sollecita la Chiesa a nuovi gesti di testimonianza e di annuncio del Vangelo e la stimola ad avviare un impegno più intenso di conoscenza e di collaborazione con altre religioni, per poter essere segno di unità nella diversità di culture e di concezioni religiose”.

Quarto:

Nella Chiesa italiana si dovrà essere “più pronti a mettere a disposizione sia luoghi di culto sia luoghi di incontro e svago”. In questo invito, naturalmente, è contenuto tutto un insieme di suggerimenti sul piano della pastorale sociale: l’impegno per i diritti umani degli immigrati, per l’inserimento nel lavoro, per contrastarne lo sfruttamento, per organizzarne l’alfabetizzazione, per favorire il loro associazionismo, per l’attenzione ai carcerati e alle maternità difficili, etc.

Quinto:

Si è infine manifestata la “necessità e urgenza di inserire gli immigrati come soggetti negli organismi di partecipazione ecclesiale perché aiutino le Chiese a tener presente il fenomeno immigratorio e perché diano il loro originale contributo (i cattolici ovviamente, ndr) a costruire la Chiesa” (Cantisani, discorso conclusivo).In conclusione il convegno ecclesiale ha ribadito una convinzione ‘difficile a dirsi’ (e a praticare), ma sulla quale tanti nella Chiesa stanno imparando a convenire (pur con attenzione a ingenuità e sentimentalismi): l’immigrazione, che certo è fenomeno in gran parte drammatico e intriso di sofferenza, è però anche per la società, di accoglienza una “occasione” per impegnarsi a costruire un mondo più solidale. “Un’occasione provvidenziale anche per costruire lo ha ricordato mons. Cantisani Chiesa più autentica, e, in concreto, veramente universale”.

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