A David Grossman il premio internazionale Primo Levi

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Pubblichiamo il discorso introduttivo per la consegna del Premio Internazionale Primo Levi a David Grossman pronunciato, lo scorso 6 novembre. L’autore è presidente del “Centro culturale Primo Levi”, e lo è stato della Comunità ebraica di Genova

 

Desidero iniziare il mio discorso con il ricordo di Simone Veil, scomparsa a luglio di questo anno e alla quale ho avuto l’onore di consegnare, unitamente al Sindaco di Genova, in questo stesso Salone il Premo internazionale Primo Levi 2010.

Fui io a indicare il suo nome al Consiglio, lo avevo indicato fermamente convinto perché la figura di Simone Veil per me, che avevo vissuto da bambino gli anni terribili delle persecuzioni razziali, rappresentava e coniugava in sé l’immagine di chi aveva subito una ingiusta sofferenza e che, proprio in nome di quella ingiusta sofferenza,  aveva voluto riaffermare non solo il diritto di vivere ma anche quello di partecipare alla vita politica del suo paese impegnandosi a favore di alcune di quelle  grandi battaglie di civiltà che si presentano ogni tanto nella storia di una nazione  per vederla alla fine diventare il primo Presidente del Parlamento Europeo.

Nello stesso periodo di tempo in cui, alla liberazione, lei era tornata  nella sua patria, ma con la stessa forza e con ancora più coraggio, quello della disperazione, centinaia di migliaia di ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio e che non potevano tornare nei loro paesi d’origine, lasciavano i porti della Mediterraneo per cercare di sbarcare anche illegalmente sulle spiagge della Palestina mandataria, al fine di realizzare il sogno nato nella diaspora dell’esilio, quello di vivere in un luogo che fosse l’unica testimonianza possibile di una vita ebraica compiuta  nella pace, nella democrazia  e nella libertà.

Scriveva Marc Bloch “nella storia esistono generazioni lunghe e generazioni corte, generazioni lunghe che restano legate nel tempo ad un evento che ne segna irreparabilmente il destino e generazioni corte che riflettono solo apparentemente gli eventi che le contraddistinguono per scomparire nel tempo e nella storia con gli eventi stessi.”

Marc Bloch, ucciso in Francia dalla Gestapo il 16 giugno 1944, non poteva immaginare che tra le diverse componenti del popolo ebraico sopravvissute alla Shoà, si sarebbe formata una generazione lunga, una generazione che pur fondata su un trauma avrebbe trovato la forza, nel momento stesso in cui si era decisa ad affrontare il futuro, di contribuire alla crescita di un nuovo Paese e contemporaneamente di realizzare una completa rigenerazione di sé.

Era quel nuovo Paese quello che li accolse, era quello che sarebbe poi diventato lo Stato d’Israele proclamato tale il 14 maggio 1948, a seguito della decisione delle Nazioni Unite di spartire quella piccola parte di territorio affacciata sul mare tra le due popolazioni che in essa già vivevano. Spartizione accettata dalla componente ebraica, e non poteva essere altrimenti, ma rifiutata dagli Stati Arabi che attaccarono il giorno seguente senza riuscire a ricacciarla in mare.

Oggi riceve il Premio Internazionale Primo Levi 2017, David Grossman, nato a Gerusalemme il 25 gennaio 1954 nel nuovo Stato appena costituito. Uno di quei figli di donne e di uomini che ancora prima della tragedia della seconda guerra mondiale avevano abbandonato quell’immenso territorio dell’est Europa che era stato la testimonianza vivente di un ebraismo nato e cresciuto nella diaspora e dove, circondati da una umanità ostile, gli ebrei avevano vissuto per generazioni per compiere alla fine di un lungo vagare, la scelta definitiva della loro vita: l’Alyhà, cioè la salita come si usa dire al Monte Sion

Michaella, la madre di David Grossman, nasce già in Palestina in una famiglia povera che aveva fatto la scelta spinta dall’ideale sionista. Era un aspetto di quel sionismo con il quale la generazione dei figli, nell’assumere le proprie responsabilità storiche, si era come ribellata al mondo pigro e inerte quale ai loro occhi appariva il mondo dei padri percepito come un passato riservato da secoli agli ebrei nella interminabile esperienza dell’esilio. Era la possibilità per i figli, anzi il dovere per loro di decidere di vivere senza illusioni in un tempo che o non si accordava più con la speranza messianica o forse la vedeva così realizzarsi.

La nonna paterna invece rimasta vedova lascia la città natale di Dynow in Galizia, regione che non aveva mai abbandonato da quando era nata, per non subire le molestie della polizia polacca. Porta con sé in Palestina nel 1936 insieme a una figlia, Izaac il padre di David che aveva allora 9 anni.

Il padre, guidatore di autobus, per ragioni di salute sarà chiamato a dirigere la biblioteca dell’azienda di trasporti per la quale lavorava e dove il piccolo David fin da bambino inizierà ad appassionarsi alla lettura fino a vincere a 9 anni una gara nazionale sulla conoscenza dell’opera di Shalom Aleichem. Studia filosofia e teatro all’Università di Gerusalemme e lavora come presentatore per la Radio di Stato israeliana conducendo per 14 anni un programma dedicato ai bambini. Il suo rapporto con la Radio di Stato cesserà nel 1988, anno in cui sarà licenziato per le sue posizioni politiche.

Oggi, David Grossman, e lo sentiremo dalle parole di Wlodek Goldkorn, è considerato uno dei più grandi scrittori e romanzieri contemporanei, un classico della letteratura mondiale.  Molti dei suoi romanzi che hanno conquistato anche il pubblico italiano scalano le classifiche man mano che vengono pubblicati, ma David Grossman, non è solo questo è anche una delle più lucide coscienze d’Israele, un attivista e un sostenitore della sinistra israeliana e in particolare del Partito laburista fino dai tempi di Isaac Rabin.

Egli è, ed è stato per molti anni, critico di quella politica che i vari governi, che nel tempo si sono succeduti, hanno applicato ai rapporti tra israeliani e palestinesi anche perché una volta che la divisione era stata considerata come condizione permanente e irreparabile, lo scopo di ogni incontro tra i due antagonisti, non era più il tentativo di un accordo ma la ricerca o la creazione di ulteriori prove che qualsiasi accordo era irrealizzabile.

David Grossman ha scritto molti saggi sul tema dei rapporti tra i due popoli tra cui “Il Vento giallo” resoconto di un suo viaggio compiuto nei territori palestinesi venti anni dopo la vittoria nel 1967 con la quale l’esercito israeliano aveva sconfitto gli eserciti degli Stati Arabi fino ad occupare oltre al Sinai e a Gaza, poi restituiti, quei territori nella sponda occidentale del fiume giordano che la Giordania aveva sottratto ai palestinesi in occasione della guerra del 1948.

Già da allora, passato l’entusiasmo che aveva contagiato gli ebrei di tutto il mondo nel vedere le truppe israeliane arrivare al Muro del Pianto, nelle parti più avvedute d’Israele e della Diaspora si era avvertito il rischio che il protrarsi di una occupazione nel tempo avrebbe potuto comportare dei danni fisici e morali per i due popoli costretti a convivere solo come nemici.

Grossman raccoglie ne “La guerra che non si può vincere” gli articoli scritti dal 1993, anno in cui erano stati firmati gli accordi di Oslo, fino al dicembre del 2002 per raccontare gli inutili tentativi fatti anche da alcune delle massime autorità mondiali, per cercare di convincere le due parti a firmare quegli accordi che sarebbero stati decisivi per una soluzione pacifica fra i due popoli abituati ormai a vivere, come lui ha scritto, all’ombra della morte.

Ma sarà dopo l’uccisione di Isaac Rabin, avvenuta il 4 novembre 1985, dopo una violenta campagna di odio, per opera di uno studente ebreo religioso e che ha sollevato una ondata di sgomento in tutto il mondo, che Israele subirà una terribile serie di attacchi terroristici da parte di Hamas con attentati suicidi sugli autobus, nei caffè e nelle strade che provocheranno centinaia di morti tra i civili israeliani e anche una ritorsione sempre più violenta da parte dell’esercito di Israele.

Se dalla parte palestinese non è ancora cessato il terrorismo di Hamas, da parte israeliana vi sono, e sempre più estesi, gli insediamenti delle colonie ebraiche in Cisgiordania. Prima apparentemente tollerate e poi chiaramente favorite e composte da membri di una destra religiosa e combattiva che rivendica una forte identità nazionalista e si richiama al diritto di vivere su una terra che ritiene le sia stata donata da Dio.

Oggi questi insediamenti che ospitano circa 400mila persone sempre più decise a restare, così come la violenza dei coltelli sempre pronti a colpire, rappresentano alcuni tra gli ostacoli maggiori a una soluzione pacifica tra le parti.

Grossman sosterrà anche lui, come è stato per la maggior parte degli israeliani, la guerra condotta contro le milizie di Hezbollah che avevano bombardato Israele dal Libano, per rapire e poi uccidere  alcuni sodati israeliani, ma il 10 agosto 2006, in una conferenza stampa insieme Amos Oz, e Abraham Yehoshua, chiederà al governo del Presidente Olmert, dopo che era stato deciso di estendere le operazioni militari all’interno del Libano, di ordinare il cessate il fuoco come base per portare a una soluzione negoziata tra le parti in conflitto.

Due giorni dopo suo figlio Uri, di venti anni militare di leva in quella guerra, resterà ucciso da un missile anticarro in una operazione nel sud del Libano poco prima del cessate il fuoco imposto dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Una tragedia nella tragedia che colpirà un uomo che è stato da sempre uno dei più convinti sostenitori del dialogo e della convivenza tra i due popoli.

Due mesi dopo la morte di suo figlio parlerà davanti a 100mila persone radunate in piazza a Tel Aviv per ricordare la figura di Isaac Rabin inizierà con queste parole: “Io sono laico, eppure ai miei occhi la creazione e l’esistenza di Israele sono una sorta di miracolo per il nostro popolo, un miracolo politico, nazionale e umano; io non lo dimentico neppure un istante” e rivolgendosi poi al Primo Ministro dirà:

“Si rivolga ai palestinesi, Sig. Olmert. Si rivolga a loro al disopra delle teste di Hamas. Si appelli ai moderati, a chi si oppone, come lei e come me, a Hamas e alla sua strada. Si appelli al popolo palestinese. Non si ritragga dinanzi alla sua ferita profonda, riconosca la sua continua sofferenza. Lei non perderà nulla, e neppure Israele, in un futuro negoziato. Anzi i cuori si apriranno un poco gli uni agli altri, e questa apertura racchiuderà in sé una forza enorme.

All’avvicinarsi dell’anno 2017 che segnava il cinquantesimo anno della occupazione dei territori palestinesi, insieme a Amos Oz firmerà un appello, poi sottoscritto da cinquecento personalità israeliane, per chiedere agli ebrei della Diaspora il sostegno a una soluzione negoziata del conflitto che potesse condurre a una pace tra i due popoli e alla soluzione definitiva in due Stati vicini e indipendenti.

L’appello tra l’altro dice: “il protrarsi dell’occupazione, opprime i palestinesi e alimenta un ciclo interrotto di spargimento di sangue. Corrompe le fondamenta morali e democratiche dello Stato di Israele e danneggia la sua posizione nella comunità delle Nazioni. La nostra migliore speranza per il futuro, il tragitto più sicuro verso la sicurezza, la prosperità e la pace, risiede in una soluzione negoziata del conflitto che conduca alla creazione di uno stato palestinese indipendente accanto e in rapporti di buon vicinato con Israele. Facciamo appello agli ebrei del mondo intero perché si uniscano a noi israeliani in un’azione coordinata per porre fine all’occupazione e costruire un futuro nuovo per la salvezza dello Stato d’Israele e delle generazioni future”.

Sono arrivato alla fine del mio discorso dove ho dovuto necessariamente sintetizzare tanti anni di conflitti e di dolore ma che vorrei terminare citando tre parole contenute in questo appello e inserite da Grossman nel libro “Con gli occhi del nemico”. Le tre parole sono: pace, speranza e futuro.

Grossman scrive: “Innanzitutto, così sento io, la possibilità ad immaginare uno stato di pace significa, prima di ogni altra cosa, essere convinti che noi, gli israeliani, abbiamo un futuro. Non sto parlando di un futuro buono o cattivo, ma della possibilità che esista un futuro”; e più avanti: “sia la breve storia dello Stato d’Israele sia la lunga storia del popolo ebraico non hanno mai conosciuto periodi prolungati di pace completa, di esistenza serena e sicura, non minacciata. Pertanto, nella coscienza ebraica e israeliana, la parola pace è sempre, nel suo intimo, connessa a una aspirazione, a una speranza…”. E ancora: “E quando ci concediamo di riflettere seriamente sulla speranza che venga una pace, ne consegue che possiamo pensare che avremo anche noi un futuro in quanto popolo in quanto Stato”.

Con queste parole di speranza per una pace che garantisca un futuro per tutti, che nella qualità di presidente del Centro culturale Primo Levi, ho l’onore di consegnare, unitamente al Sindaco di Genova, il Premio Internazionale Primo Levi 2018 a David Grossmann, per il suo costante impegno civile e politico a favore di quel processo di pace e di convivenza tra israeliani e palestinesi a cui guardano milioni di uomini in tutte le parti del mondo.

 

Piero dello Strologo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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