Dario Maggi: intervento nel dibattito sul Referendum

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Volontario Caritas in una parrocchia di Milano – dariomaggi96@gmail.com

 

 

Quale è la vostra posizione sulla riforma della Costituzione e sul relativo referendum, e come la motivate?

La mia è un’adesione convinta alle ragioni del sì. Queste ragioni sono già state formulate in modi che condivido pienamente, e che sono reperibili sul sito c3dem: cito tra gli altri lo “Appello al pacato sì”, firmato da Melloni ed altri ((http://www.pacatosi.org/il-testo-dell-appello-al-pacato-si), il testo esauriente e articolato di Michele Nicoletti pubblicato su “Il Margine” ((http://www.michelenicoletti.eu/2016/10/referendum-costituzionale-noi-voteremo-si/), e il testo appassionato e appassionante di Giancarla Codrignani (https://www.c3dem.it/wp-content/uploads/2016/11/Giancarla-Codrignani.pdf).

Vorrei poi sottolineare in modo particolare alcuni motivi del sì a questa riforma che mi toccano in modo più acuminato, anche in quanto credente che cerca di vivere la propria fede in questa società e in questa situazione storica:

– Il rispetto per il lavoro svolto dal Parlamento. Trovo singolare che proprio chi si erge a difensore del parlamentarismo sia disposto a buttar via con nonchalance due anni di lavoro del Parlamento stesso.

– Una fedeltà non museale alla Costituzione: è proprio la fedeltà ai principi che richiede un adattamento dell’ordinamento della Repubblica alle mutate situazioni storiche, per poterli realizzare.

– Il principio di responsabilità. Ne ha scritto Giorgio Campanini (Avvenire del 25 novembre)(ma ne aveva anche parlato in un incontro un deputato come Lia Quartapelle): “Il primo limite dell’attuale bicameralismo è quello della inevitabile corrosione del principio di responsabilità. Nel passaggio dall’uno all’altro ramo si scoloriscono sempre più le posizioni. Alla fine una legge ha molti padri (e nessun padre…)”.

– La critica al concetto di “mediazione” tra le forze parlamentari, che è come dire consociativismo (e mi stupisce che qualcuno sembri ritenerla una ‘qualità’ pertinente al cattolicesimo democratico). La riforma (insieme con una legge elettorale adeguata) disegna un governo che ha un rapporto più solido con la maggioranza parlamentare che lo sostiene, e che è in grado di assumersi delle responsabilità di più lungo respiro nei confronti del paese. Altro che autoritarismo o disprezzo del Parlamento!

– E infine votare “sì” segna una svolta rispetto alle due grandi ingiustizie che hanno connotato questi anni: a) l’ingiustizia verso i giovani tramite il debito accumulato in decenni di consociativismo; b) l’ingiustizia verso i più poveri, perché un governo debole, con una maggioranza a rischio, non è tra l’altro in grado di fare politiche sociali adeguate, come quel governo Prodi che cadde appunto su un provvedimento del genere.

 

Secondo voi, è oggi più importante garantire una maggiore governabilità, cioè stabilità dei governi, oppure è più importante assicurare un’ampia e equilibrata rappresentanza alle diverse forze politiche? Ritenete la legge elettorale detta Italicum una legge soddisfacente oppure no, e perché?

Mi sembra che la risposta migliore l’abbiano già data Caggiati, Campanini, Mantelli nella risposta a questo stesso dibattito. Essi scrivono, tra l’altro: “Invece di porre in contrasto rappresentanza e governabilità sarebbe importante chiedersi come ridare forza e autorevolezza alle assemblee rappresentative”. Il che pone la questione: a cosa serve una rappresentanza “ampia ed equilibrata” all’interno di un’assemblea, se questa assemblea non è in grado di decidere, e di conseguenza è a rischio discredito? E’ chiaro che in Parlamento – come dice la parola! – si va per parlare, discutere, e quindi elaborare leggi (magari non per presentare milioni di emendamenti…) con l’apporto di tutti: ma, se queste leggi non sono poi messe in atto da un governo che possa contare su di una maggioranza stabile, non credo che i cittadini abbiano molti motivi per essere contenti e per sentirsi ben rappresentati. Perciò è sbagliato enfatizzare la contrapposizione governo-parlamento, come mi risulta facciano spesso i fautori del no.

Quanto all’Italicum, allo stato c’è un impegno a modificarlo, e vedremo come va. Però è interessante l’analisi di alcuni clichés verbali, e di conseguenza mentali. Buona parte delle critiche all’Italicum si appuntano sul doppio turno e sui cento capilista “nominati”, contrapposti ai 240 “eletti” (per arrivare alla maggioranza di 340, rapporto 1 contro 2.4). Sottinteso: gli eletti sono i buoni, i nominati sono i cattivi.

Osservazioni:

a) Viene stimata in almeno 200.000 Euro la spesa per un candidato alle politiche. Quale giovane può permettersela? Ci va bene una Camera di ricchi ed attempati professionisti, o (peggio) di eletti che devono qualcosa a qualcuno? Gli eletti li sceglie il popolo, certo, ma il filtro c’è ugualmente, a monte: il censo, o peggio.

b) I nominati non vanno bene perché li scelgono le segreterie dei partiti, cioè gli addetti a tempo pieno a quel lavoro complesso che è la politica. Meglio i dilettanti allo sbaraglio? Tutti criticano l’eccesso di disintermediazione del nostro tempo. Ma i partiti non sono appunto una struttura di mediazione tra cittadini e cosa pubblica, che ci dovrebbe perciò stare a cuore? Invece di criticare a prescindere, meglio sarebbe forse occuparsi della democraticità interna alla gestione dei singoli partiti…

c) Se si abolisce, come sembra, il doppio turno, ci aspetta verosimilmente un’alleanza del vincitore col Verdini di turno. Gli avversari del doppio turno (ad esempio, la minoranza PD) non hanno mai risposto a questa obiezione. Buona fortuna (a tutti noi).

 

Ritenete che Matteo Renzi, come segretario del Pd e come capo del Governo, si muova in un solco in linea di massima corrispondente con la vostra cultura politica, oppure ritenete che presenti dei caratteri che con essa sono scarsamente compatibili o addirittura configgenti? (e, in questo secondo caso, quali in particolare?).

Premesso che mi trovo (di nuovo) pienamente in linea con quanto scritto da Caggiati/Campanini/Mantelli, vorrei segnalare alcuni elementi.

a) Impostare il discorso solo su Matteo Renzi è necessario ma non sufficiente. E’ chiaro che Renzi è un leader forte, che ha molti pregi e molti difetti, ma un leader si connota appunto perché è capace di crearsi un séguito, è capace di convincere un gruppo della bontà delle sue idee: e questo non è il più piccolo dei pregi di Renzi.

b) Se essere cattolico democratico significa vivere la propria fede in àmbito politico rispettando la laicità dello stato, ebbene Renzi è stato capace di parlare (al Senato e altrove) citando Teresio Olivelli e Dietrich Bonhoeffer, e allo stesso tempo è stato capace di promuovere l’adesione del PD al PSE, e non al PPE, dove siedono partiti “democristiani” di tendenza conservatrice. Che questo risultato sia stato raggiunto da un cattolico rappresenta magari un’ironia della storia, ma segna anche il raggiungimento di uno degli obiettivi fondamentali del PD, quello della fusione tra le due tradizioni che lo compongono principalmente, cattolica e marxista.

c) Attorno a Renzi c’è il consenso di una vasta area del partito (stando alle votazioni in direzione, più o meno il 90%, in un partito dalla tradizionale litigiosità; come si possa parlare in questo contesto di “gestione del partito solo formalmente democratica” rimane per me un mistero). Il partito è impegnato nell’appoggio a un governo che sta realizzando una vasta opera di riforme nei campi dell’economia, del lavoro, della giustizia, della pubblica amministrazione, della scuola, della struttura costituzionale della Repubblica: c’è dunque una “linea”, e c’è un “progetto”, nonostante alcuni lo neghino senza fornire argomenti.

d) All’interno dell’area di consenso a Renzi la componente cattolica (si pensi a nomi come Boschi, Delrio, Tonini, Ceccanti, Nicoletti, Franceschini) occupa alcuni posti chiave, ma non si distingue (grazie al cielo…) per ragioni o tematiche di tipo “confessionale” (come poteva essere un tempo il ruolo di Paola Binetti, per fare un esempio), ma semplicemente perché svolge un compito a servizio dello Stato, cioè di tutti noi. A me questo sembra il raggiungimento di un obbiettivo “fondante” del cattolicesimo democratico (anche se alcuni cattolici democratici sembrano non essersene accorti).

 

I percorsi di maturazione e condivisione del consenso sembrano essere sempre più condizionati da meccanismi che poco hanno a che fare con la conoscenza dei temi in discussione, con il confronto, con la comune appartenenza ad aggregazioni capaci di fare nascere visioni e progetti: è una situazione irrimediabile? Come recuperare il terreno perso in questi ultimi anni?

Penso che la domanda sconti un certo eccesso di pessimismo, o forse una non sufficiente distinzione dei livelli: è chiaro che a livello di grandi numeri succedono cose del tipo paventato dalla domanda, ma è anche vero che in una società molto frammentata come la nostra sussistono una miriade di circoli (reali o virtuali) che suggeriscono un giudizio più articolato.

Lo stesso PD, per quanto a mia conoscenza, ha elaborato (o proseguito) strumenti di approfondimento e di elaborazione politica non marginali. Penso alla formula della Leopolda (ripresa diverse volte a livello di PD metropolitano, per lo meno a Milano), cioè quella dei tavoli tematici, in cui può capitare a chiunque di trovarsi a discutere direttamente con un ministro o un assessore. E Milano è piena di associazioni varie che discutono dei più vari argomenti, ovviamente anche al di fuori della politica.

Non sottovaluterei anche la presenza di quelle aggregazioni che hanno uno scopo non di approfondimento culturale, ma sono di tipo diciamo “fattuale”, perché anche in esse nascono “visioni e progetti” di vita. Recentemente, a un “tavolo sociale” indetto da uno dei municipi di Milano (equivalente a una città di circa 150.000 abitanti), erano presenti una trentina di associazioni di volontariato/solidarietà. Non mi pare poco.

Si tratta sempre, ovviamente,  di numeri piccoli, diciamo molto inferiori al migliaio di persone. Ma del resto non credo che anche in passato il rapporto numerico tra masse ed élites fosse molto diverso.

 

Dario Maggi – Milano

 

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