Ancora su Guido Formigoni, sussidiarietà e statalismo

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 Giorgio Armillei, www.landino.it – 22 marzo

L’intervento di Guido Formigoni nel dibattito su statalismo e sussidiarietà è ricco di spunti per approfondimenti specialistici che escono dal mio campo di osservazione. Penso però che finisca con il portare argomenti a sostegno della tesi interpretativa più generale che Formigoni dice di voler mettere in discussione. In breve l’individuazione di una linea di continuità tra alcuni importanti spunti del pensiero di Dossetti e le molte tracce di riformismo dirigista che scopriamo ancora oggi nelle strategie del cattolicesimo di sinistra nel nostro paese. Tracce che definiscono una linea distinta, e spesso alternativa, a una strategia riformista cristianamente ispirata e più sensibile ad un approccio liberale, che ridimensiona l’architettura gerarchizzata dei rapporti tra politica e società, pur collocandosi a sinistra.

In questo senso mi sembra un po’ forzato ridurre le differenze tra Dossetti e De Gasperi ad una divaricazione tra prospettive politiche. Se è vero che non si possono commettere errori di retrodatazione, è altrettanto vero però che quel confronto tra elementi statalisti ed elementi liberali somiglia molto, la linea di continuità appunto, al confronto tra una visione integrazionista e una visione poliarchica dei rapporti tra politica e società. Nella prima la società ha bisogno della politica (in questo caso dello stato) per stabilire il suo ordine, nella seconda la politica è un pezzo, un ingranaggio del sistema sociale differenziato e specifico, né vertice né sintesi.

Questa distinzione si ripercuote su molti livelli di analisi. Pensiamo al ruolo dei partiti politici che nel primo caso sono strumenti di trasformazione politica della società mentre nel secondo, lo spiega bene Silvio Lanaro, sono canali di organizzazione della rappresentanza politica funzionali alla razionalizzazione del sistema politico, strutture leggere congegnate per facilitare le funzioni di governo. D’altra parte come è possibile un ridimensionamento delle distinzioni quando, come dice Paolo Pombeni, la leadership dossettiana fa propri gli elementi portanti della tradizione socialdemocratica, il modello di stato interventista, la proposta della pianificazione economica, l’idea del partito come strumento di educazione delle masse, la condanna come inadeguata della democrazia liberale?

Come ridimensionare le critiche dossettiane alla Dignitatis Humanae e alla dottrina conciliare della libertà religiosa, che presuppone una visione di riconciliazione tra liberalismo anglosassone e cristianesimo e dunque una particolare visione della società, dello stato e dei rapporti tra politica e società? Quelle critiche che Silvia Scatena definisce radicali e che imputano al concilio in questo campo una subalternità culturale a quel modello anglosassone?

Stefano Ceccanti ricorda opportunamente le valutazioni di Pietro Scoppola. Allargherei quel riferimento ricordando che per Scoppola il problema è esattamente la visione dello stato. “Dossetti parte da una forte polemica contro lo stato liberale, del quale non vede o sottovaluta l’evoluzione in senso democratico […]; discende da questa polemica la risoluta affermazione di una concezione finalistica dello stato”, nella quale ciò che conta è l’essenza dello stato che stabilisce come suo obiettivo il provvedere al bene comune. E cioè il bene comune come fine dello stato, esattamente il punto di maggiore distanza dalle posizioni di J.C.Murray, uno dei principali ispiratori della Dignitatis Humanae, per il quale alla società tutta intera spetta la cura del bene comune, essendo riservato allo stato solo la tutela dell’ordine pubblico, anche se di un ordine pubblico allargato rispetto ai confini limitati dello stato liberale monoclasse.

Ridimensionare le distinzioni mi sembra dunque un pò difficile. Come pure ridurre, anche qui troviamo una chiara linea di continuità, la divisione tra socialdemocratici e blairiani a un’inutile sovrastruttura che ci fa perdere di vista la reale contrapposizione sulla quale si gioca la cura degli squilibri strutturali dell’attuale sistema. Il confronto tra socialdemocratici e blairiani ripercorre in realtà lo stesso tracciato del confronto tra una visione integrazionista e una visione poliarchica. Lo vediamo a proposito dei rimedi alla crisi finanziaria. Nella prospettiva socialdemocratica c’è bisogno di più politica, per quella blairiana c’è stata al contrario troppa politica, poco vero mercato e soprattutto poca regolazione di qualità. Nella prima c’è un atteggiamento sospettoso nei confronti dell’economia finanziaria, nella seconda c’è l’apertura alle capacità delle istituzioni di mercato di innovare. Come dice Robert Shiller, non certo un iperliberista, l’economia finanziaria è tutt’altro che un sistema parassitario: è uno degli strumenti più potenti con i quali far crescere opportunità e benessere. Non spetta solo o primariamente alla politica correggere gli squilibri.

Insomma quelle differenze sono ancora quelle che bene o male ci attraversano. E lo vediamo puntualmente anche trai cattolici del PD sulla riforma della Costituzione, su quella del mercato del lavoro e via dicendo. Certo, l’azione politica ha le sue specificità e le sue esigenze di mediazione, non si confrontano quasi mai posizioni pure e non integrabili, ma le differenze pesano e un asse chiaro va comunque individuato. La fecondità non è la medesima. Lo statalismo guarda al novecento e forse anche più indietro. Noi abbiamo bisogno di guardare al XXI secolo.

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  1. Digitatis Humanae, ai tempi di internet, è un refuso estremamente gradevole 🙂

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