Riformare il capitalismo o riformare la classe dirigente, o che cosa?

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Queste note sono una sintesi del convegno di c3dem tenutosi a Milano alla fine di novembre, tratte dagli appunti presi. Nello spazio apposito del sito si trovano i link per l’audio di tutti gli interventi

 

E’ stato un convegno denso, interessante, partecipato. Mai noioso. Utile. Su questo sito Guido Formigoni ne ha fatto già una rapida sintesi e una valutazione positiva rispetto alla sua finalità principale, cioè quella di rispondere della validità o meno della nostra Costituzione ad offrire principi e strumenti per fuoriuscire dalla crisi profonda di questi anni. Qui ripercorreremo più analiticamente alcuni passaggi del convegno.

Due parole di premessa sulla scelta dei relatori. Non li abbiamo scelti, in primo luogo, in base alla prevedibile consonanza delle idee quanto piuttosto per la stima nei loro confronti e anche per la curiosità di sentire voci presumibilmente diverse (non necessariamente opposte), ma comunque autorevoli. Voci competenti, più tecniche che politiche, ma interessate alla politica. Dunque un convegno aperto, dagli esiti non scontati, utile per confrontare idee, acquisire stimoli, cercare nuove motivazioni, allargare le prospettive. Ne diamo qui una sintesi, rinviando ai link con l’audio delle varie fasi della giornata per l’ascolto diretto dei vari interventi.

La mattinata ha visto una relazione introduttiva di Cecilia Guerra sui rapporti tra economia e politica e tre relazioni puntuali su altrettanti temi specifici (diritto al lavoro, diritto alla giusta retribuzione, diritti sociali di cittadinanza) affidate a Giovanni Mazzetti. Elena Granaglia e Massimo D’Antoni. Ha introdotto e moderato Vittorio Sammarco, coordinatore della rete c3dem.

Cecilia Guerra: politica, quale primato?

La relazione d’apertura è stata affidata a Cecilia Guerra, docente di scienza delle finanze a Modena e Reggio Emilia, già viceministro del lavoro e delle politiche sociali nel governo Monti, e oggi senatrice del Pd. Va subito detto che Cecilia Guerra (oggi vicina all’arcipelago della minoranza interna al Pd) ha rovesciato l’affermazione (critica) contenuta nel titolo che avevamo dato al suo intervento: “Quando l’economia sottomette la politica…”. Il suo intervento dovrebbe essere intitolato piuttosto: “Quando la politica pensa di poter fare a meno della tecnica…”. Cecilia Guerra ha, cioè, esaminato, più che le buone ragioni del primato della politica, quelle, altrettanto buone, e oggi a suo avviso particolarmente valide, della necessità di mettere dei vincoli alla politica. I politici, ha detto la senatrice pd, si mostrano per lo più incompetenti a prendere decisioni obiettivamente difficili per la complessità delle questioni implicate, e si mostrano per lo più incapaci di prendere decisioni impopolari per i loro effetti che appaiono negativi o nulli sul breve periodo mentre ne avranno invece di positivi o comunque di visibili sui tempi medi o lunghi. Insomma, il politico spesso è incompetente tecnicamente, e ancora più spesso è di fatto “costretto” a guardare quasi solo al futuro immediato. Per queste ragioni si è deciso da tempo di delegare una serie di questioni politiche a diverse authority indipendenti, le quali hanno regole che di fatto vincolano le decisioni politiche. Ma è chiaro che sono i politici a scegliere le persone che dirigono tali authority, e che soprattutto è la politica che stabilisce le regole stesse dalle quali sarà poi vincolata. Così come è la politica che decide quali politiche delegare: sono più delegabili quelle monetarie che non quelle fiscali (le quali hanno una forte valenza distributiva, dunque strettamente politica). Le regole a cui la politica si vincola tramite le authority è la stessa banca centrale) presentano però dei problemi: possono risultare non costituzionali (ad esempio la corte costituzionale spagnola ha sentenziato la possibilità di derogare dalle regole europee dell’austerità perché in contrasto con i principi costituzionali), oppure, poiché vengono decise in determinati momenti storici contingenti, possono risultare non più effettivamente valide in tempi diversi (il vincolo costituito dalla regola è “cieco” e non in grado di riflettere sulla base dei cambiamenti in atto). Senza considerare che ci possono essere dei veri e propri errori di valutazione, di cui ci si accorge in un secondo tempo.

Detto questo, la Guerra ribadisce che oggi, a suo avviso, si parla a sproposito di primato della politica, in quanto la politica si mostra “ignorante”. Si mostra priva di una intelligenza robusta, di un’intellettualità così come solo un partito funzionante può produrre. Il Partito Democratico di oggi (quello che la Guerra conosce meglio) ha, sì, dei valori di base importanti, ma non appare in grado di declinarli in una visione progettuale d’insieme. Oggi, dice la Guerra, i partiti sono “leggeri”, non nel senso positivo dell’ascolto della società civile, ma nel senso negativo di essere formati da politici di professione autoreferenziali e di non fare più formazione dei quadri intermedi. Oggi il primato della politica è poi pericolosamente condizionato dalla necessità di conformarsi alla opinione pubblica, alla comunicazione mediatica la quale schiaccia sempre di più la politica sul quotidiano. Oggi l’azione di governo e l’attività legislativa viene fatta soprattutto con i decreti legge i quali hanno un impatto sull’opinione pubblica ma impongono alle commissioni parlamentari tempi stretti di discussione. Il risultato sono troppe leggi e fatte male. E’ questo tipo di primato della politica che non va bene. La Guerra ha insistito sulla carenza di volontà di confronto della politica verso i cosiddetti soggetti intermedi, i quali esprimono bisogni e hanno conoscenze di cui sarebbe invece molto utile che i politici potessero tenere conto; senza questo elemento la democrazia si rimpicciolisce. Nel corso del dibattito Cecilia Guerra ha chiarito di non auspicare affatto la predominanza dei tecnici sui politici, e di augurarsi invece un processo di collaborazione che porti a decisioni politiche formate sulla base di conoscenze effettive e di una visione di insieme.

Giovanni Mazzetti. Il diritto al lavoro

Docente di Politica economica dello sviluppo e fondatore dell’Associazione per la redistribuzione del lavoro, Giovanni Mazzetti ha preso di petto la domanda posta dalla rete C3dem, e cioè il ruolo della Costituzione rispetto al lavoro. Ha detto che le parole della Costituzione contengono la storia di un paese, di un popolo; non sono dunque “solo parole”. Guardando all’Italia ma più in generale all’Europa, ha osservato che le costituzioni della metà del Novecento sono il risultato di una gravissima crisi. L’Inghilterra dal 1920 al 1940 ha avuto una disoccupazione media attorno al 14%, e non se ne è preoccupata per niente, seguendo l’ideologia del laissez faire e del libero mercato. Dei disoccupati si diceva che lo erano solo coloro che non avevano voglia di lavorare. E’ stato John Maynard Keynes a spiegare che la disoccupazione non era affato volontaria. Poi, con la seconda guerra mondiale e con l’attacco della Germania nazista, l’Inghilterra ha dovuto fare appello a tutti i suoi strati sociali per resistere ai nazisti ed evitare l’occupazione; ed è in quel periodo drammatico che nasce nel Paese un senso profondo di coesione nazionale. Lord Beveridge nel 1942 effettua una ricerca sulla situazione sociale e elabora un programma statale contro la disoccupazione. Quello che seguirà sarà il “trentennio glorioso”. In tutti i paesi dell’Ocse, per trent’anni, la disoccupazione media non supererà il 3%. Il diritto al lavoro diviene pienamente riconosciuto, il che vuol dire che la società si organizza in modo che nessuno resti fuori dalla condizione di lavoratore. Si riconosce che il lavoro è alla base della ricchezza e ci si dà come obiettivo di fondo quello di emancipare la società dalla miseria.  La crisi, però, sopraggiungerà fin dagli anni Settanta. E’ la crisi dello stato sociale. La disoccupazione ricomincia a crescere di 4 o 5 punti e ci si rende conto che è divenuto difficile assicurare il pieno impiego. E’ divenuto arduo riprodurre il lavoro salariato. Fino alla fine degli anni Sessanta bisognava rispondere ai bisogni primari ed era più facile creare lavoro. Poi la rivoluzione tecnologica ha cambiato le cose. La politica non ha saputo rispondere alla crisi, al cambiamento. Ha proceduto in modo confuso. Non ha seguito i consigli che Keynes aveva dato tanti anni prima, e cioè che, una volta corrisposto ai bisogni primari delle popolazioni, si sarebbe dovuta intraprendere una nuova strada per assicurare il lavoro a tutti: la strada della ridistribuzione tra tutti del lavoro esistente. In modo drastico, fino ad arrivare a una giornata di tre ore di lavoro e a una settimana di cinque giorni. Una strada che andrebbe intrapresa anche ora. E, all’obiezione di chi dice “e i soldi dove si prendono?”, Mazzetti, sulla scia di Keynes, risponde che i soldi non sono il problema, nel senso che non vanno intesi come risorse necessarie; le risorse ci sono (e non sono i soldi) e, se attivate, con l’incremento di spesa, la società si rimette in moto. Il denaro, dice, manca perché le persone non spendono (e ogni taglio di spesa è un atto criminale). Quanto all’esperienza francese di riduzione dell’orario di lavoro per legge, Mazzetti, nel corso del dibattito, ha detto che in quel caso la proposta non fu ben elaborata, la riduzione fu poco e male motivata.

Elena Granaglia. Il diritto alla giusta retribuzione

Qual è la giusta retribuzione? Non lo sappiamo, ha detto Elena Granaglia, professore ordinario di scienza delle finanze all’Università Roma Tre. Non lo sappiamo, almeno non esattamente, ma questo non significa che si possa accettare qualsiasi retribuzione. In effetti, quello che si può e si deve fare è mettere in luce le ingiustizie che sono presenti nelle retribuzioni (seguendo il criterio di Amartya Sen, Nobel dell’economia, che, se non sappiamo dire bene che cosa è giusto, è però possibile dire cosa non è giusto). Di per sé, una retribuzione giusta dovrebbe essere che vi sia un’eguale paga per un eguale contributo, ma è una definizione formale. Dal canto loro, i mercati competitivi offrono, sì, un apporto importante per individuare una retribuzione corretta, ma sono insufficienti perché di fatto i singoli non sono in grado di poter controllare il mercato: far fruttare nel giusto modo competenze e abilità materiali dipende dal contesto, da molti elementi esterni che il soggetto non controlla. La retribuzione, poi, dipende da quanto gli atri sono disposti a pagare, e anche questo dipende a sua volta dal contesto socio-economico. Pertanto, è meglio concentrarsi – ripete la Granaglia – su quelle che appaiono come retribuzioni ingiuste. Un esempio sono quelle attuali dei cosiddetti supermanager, che sono pari a 400-500 volte quella del lavoratore medio. Un elemento di ingiustizia evidente è la retribuzione altissima data anche ai manager che hanno avuto prestazioni negative. Come è ingiusto il fatto che alcune centinaia di manager siedano nei cda delle principali grandi imprese di un Paese e detengano, pertanto, il potere di decidere le proprie retribuzioni. Da qualche parte si sostiene che i manager che prendono di più sono anche quelli più bravi, ma la Granaglia sostiene che non è così, e che invece sono quelli che hanno più potere. In ogni caso ci si dovrebbe anche interrogare sul perché sono più bravi? Da cosa dipende? Non è solo un dato naturale…  Per cercare di ridurre le retribuzioni dei manager la Granaglia ha indicato le “politiche delle gomitate”, cioè non interventi amministrativi bensì azioni per “spingere” le imprese (tramite interventi indiretti di riduzione di vantaggi fiscali) a non dare ai manager retribuzioni superiori  a determinate soglie. E ha anche proposto iniziative culturali di “smascheramento” delle politiche che portano a retribuzioni lasciate al falsamente libero gioco del mercato.

Quanto ai lavoratori che sono al livello di retribuzione più basso, si deve constatare che oggi essi hanno perso forza sociale. Nei loro confronti si deve agire in diversi modi: da un lato introducendo il salario minimo, e poi attivando interventi di compensazione, sia fiscali sia attraverso trasferimenti monetari, cioè sussidi al reddito, e azioni di giustizia cosiddetta procedurale, ad esempio rafforzando la rappresentanza dei lavoratori nelle imprese, oppure con politiche di pieno impiego e di orientamento dei mercati. Granaglia ha anche proposto una tassazione più bassa per i redditi bassi, trasferimenti statali alle famiglie numerose (e non invece salari maggiorati), concorsi per il miglioramento della carriera nell’impiego pubblico (invece che la politica degli incentivi individuali), e l’introduzione del reddito minimo di ultima istanza.

Massimo D’Antoni. Diritti sociali di cittadinanza

L’Italia è arrivata tardi, rispetto ad altri paesi europei, ad indirizzare la spesa pubblica in direzione della protezione sociale, dell’istruzione e della sanità, ha detto Massimo D’Antoni, professore associato di scienza delle finanze all’Università di Siena. Il Sistema sanitario nazionale, ad esempio, data in Italia dal 1978, mentre in Gran Bretagna è sorto trenta anni prima. L’Italia ha dato il via a un sistema di welfare universalistico proprio quando è iniziata, a livello internazionale, la crisi economica. Questo il contesto difficile entro cui ci si trova. D’Antoni ha però incentrato tutto il suo intervento su una ragionata difesa del sistema di welfare italiano. Un sistema che è positivamente universalistico. Chi oggi propone di far pagare ai ricchi i servizi sociali e sanitari, introducendo cioè un welfare selettivo, non considera che questo comporterebbe una frattura della coesione sociale, un atteggiamento di rifiuto del sistema di welfare da parte di chi non ne riceve nessun beneficio, oltre che un effetto di stigma sociale per coloro che ne beneficiano, come di fatto accade nei paesi che hanno rinunciato all’universalità di accesso al welfare. Per D’Antoni affermare l’accesso al sistema sanitario come un diritto (e non una concessione in ragione degli scarsi mezzi) rafforza il sistema stesso. Un’altra critica che viene mossa oggi al welfare è che i suoi alti costi vanno a detrimento degli investimenti per lo sviluppo e la crescita. D’Antoni ha fatto rilevare che i paesi con un welfare di alto livello non hanno affatto una minore crescita e ha sostenuto che i servizi sociali danno benefici anche in termini di crescita: il sistema di welfare, liberando gli individui dalle spese di cura e dai rischi sociali, consente loro di investire maggiormente su se stessi, sullo sviluppo delle loro potenzialità. A chi ritiene che la fornitura dei servizi sociali andrebbe affidata al mercato D’Antoni risponde che dove questo è stato fatto, come in Usa, i costi sono più alti e i risultati sono peggiori. Di fatto, anche in tema di pensioni oggi l’orientamento a privatizzare viene messo in discussione da parte dei paesi che si sono mossi su quella strada. D’Antoni ha concluso l’intervento facendo osservare che l’Ocse ha recentemente rilevato che attuare la spending review nel sistema sanitario italiano porterebbe l’Italia fuori dal novero dei paesi europei dal momento che già da molti anni la sanità pubblica italiana appare in declino rispetto alla media degli altri paesi.

RIFORMARE IL CAPITALISMO. IN CHE DIREZIONE?

Aveva questo titolo, tra l’ambizioso e il provocante, la parte pomeridiana del convegno. Vi hanno partecipato Sabrina Bonomi, Maurizio Franzini, Franco Mosconi e Giannino Piana. Avrebbe dovuto prendere la parola Marco Vitale ma non ha potuto farlo per un contrattempo (leggi qui il suo intervento). Ha moderato gli interventi Guido Formigoni.

Sabrina Bonomi, docente di Economia e gestione dell’impresa e di Responsabilità sociale dell’impresa all’Università degli studi e-Campus, e tra i fondatori della Scuola di Economia civile.

Il turbo-capitalismo ha finito la sua corsa, ha detto la Bonomi. Non c’è sviluppo se non è anche socio-relazionale e spirituale. Il capitalismo può essere salvato nella sua parte buona. La logica dell’economia civile consiste nell’armonizzare le diversità di cui è fatto il capitalismo, partendo dalla civitas, cioè dall’inclusione sociale. La Bonomi ha svolto una rapida “confutazione” di alcuni principi basilari del capitalismo: la mano invisibile di Adam Smith, osservando che l’impresa da sola tende al monopolio o all’oligopolio e che non si possono separare economia e etica; la tesi (sostenuta da J. F. Kennedy) che la marea che sale salva tutte le barche, facendo notare che invece la disuguaglianza tende a crescere (dal 1960 ad oggi è raddoppiata) e dunque è necessario un intervento redistributivo, e più in generale è necessaria quella che ha chiamato la “sussidiarietà circolare” che vede agire insieme lo stato, l’impresa e il no profit; la de-regulation, alla quale si deve opporre che se il mercato tutela la libertà deve però essere lo stato a tutelare l’equità (e in Italia andrebbe fatto applicare di più l’art. 41 che chiede che l’attività economica sia indirizzata e coordinata a fini sociali); la teoria della crescita illimitata, che si scontra invece con la questione della sostenibilità (che però non significa decrescita); l’idea dell’homo oeconomicus, che non sa cogliere lo spessore culturale, politico ed etico della natura umana.

Maurizio Franzini,  professore ordinario di Politica economica all’Università di Roma “La Sapienza”.

Capitalismo, dice Franzini, è una parola scivolosa. Ci sono tanti capitalismi, e con istituzioni diverse. Il problema sono le istituzioni, cioè le regole del gioco. Queste vanno riformate. Il problema è il potere della politica, la responsabilità della politica. Sono determinate scelte politiche che hanno portato alla crescita delle disuguaglianze. Si tratta di vedere quali interessi e quali idee muovono la politica. Franzini non crede che sia vera la tesi secondo la quale i politici non fanno certe scelte perché perderebbero voti; le scelte che non fanno sono quelle che andrebbero a favore del 99 per cento degli elettori… Il fatto è che le idee che circolano in realtà servono solo ai ricchi. Per Franzini, allora, il problema è la selezione delle persone che fanno politica. Ha citato l’americano Madison che già nel 1788 sosteneva che la priorità nella politica era scegliere persone oneste e competenti e farle restare oneste poi mentre governano. Questo problema, dice Franzini, è un problema costituzionale, cioè va affrontato in sede costituzionale, e dunque implica che in Italia si vada a una revisione della Costituzione che stabilisca come selezionare il personale politico e come conservarlo virtuoso una volta scelto. Se oggi in Italia non si riesce più a reagire alla forte diseguaglianza e a tutto il resto è perché mancano i meccanismi costituzionali per farlo. Franzini ritiene che dovrebbero essere i partiti capaci di selezionare la classe dirigente, cosa che oggi non avviene; e le stesse elezioni primarie non consentono, di fatto, una scelta di qualità delle persone né un controllo sul loro operato. Per Franzini le capacità degli elettori di valutare e controllare l’operato dei politici è minima (come dimostrano numerosi studi in merito) e dunque non si può affidare solo all’elettorato la selezione e il controllo; servono meccanismi costituzionali adeguati e una riforma dei partiti.

Franco Mosconi, professore associato di Economia industriale internazionale all’Università di Parma.

A un problema di classe dirigente si è rifatto anche Franco Mosconi, che ha centrato il suo intervento sull’incapacità della classe politica italiana degli ultimi decenni a progettare lo sviluppo. Mosconi ha messo in luce la grave sottovalutazione nei confronti del mondo industriale, della produzione manifatturiera. E’ vero, dice, che essa conta solo per il 25% de valore aggiunto dello sviluppo, ma l’80% delle esportazioni vengono dall’industria manifatturiera, e molta occupazione deriva indirettamente dalla manifattura. Il problema è che occuparsi della manifattura costringe a pensare al medio-lungo periodo e questo non è nelle corde dei nostri politici. La classe dirigente italiana, dice Mosconi, è l’unica in Occidente che non si sia data un piano di politica industriale. L’Italia ha un solo “più” nei dati attuali della sua economia, quello del commercio con l’estero, ed è merito delle sue imprese manifatturiere, ma serve un piano di politica industriale che ne promuova la crescita (le imprese italiane sono troppo piccole) e che le liberi dall’eccessiva dipendenza dalle banche. Mosconi, dopo aver citato un pensiero di papa Francesco, nella Evangelii gaudium, dedicato agli imprenditori (“La vocazione di un imprenditore è un nobile lavoro, sempre che si lasci interrogare da un significato più ampio della vita; questo gli permetterebbe di servire veramente il bene comune…”, n. 203), ha concluso richiamandosi a Edmondo Berselli, giornalista e scrittore scomparso alcuni anni fa, e al suo ultimo testo, “L’economia giusta”, in cui aveva spiegato come sia possibile trovare un equilibrio tra mercato, persona e società.

Giannino Piana, docente di Etica ed economia nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Torino, teologo moralista.

Correggere il capitalismo, andare in direzione di un capitalismo dal volto umano: questa l’indicazione anche di Giannino Piana. All’origine della crisi del sistema capitalista, secondo il teologo novarese, stanno tre idee venute meno: l’idea dello sviluppo illimitato, l’idea che sia il singolo con il suo interesse individuale a muovere lo sviluppo, e l’idea della mano invisibile. Ora bisogna uscire dalla crisi, dice Piana, senza mettere sotto processo il capitalismo, che in sostanza va considerato (e indirizzato ad essere) una economia sociale di mercato (così anche nella Centesimus annus, di Giovanni Paolo II). Quello che certamente va contrastato è il capitalismo ideologico. Per uscire dalla crisi del capitalismo ci si deve interrogare sul modello economico e sul “chi” fa l’economia, considerando che le forti diseguaglianze si riflettono negativamente sul piano economico. Piana sostiene che l’economia di mercato va inquadrata secondo alcuni valori etici essenziali: il concetto di profitto sociale, il primato dell’economia reale su quella finanziaria, una soggettualità degli attori dell’economia che accanto a stato e mercato dia spazio anche all’economia civile in modo da democratizzare il sistema economico. Infine Piana ha sostenuto che, se certo la sussidiarietà è importante, essa è però solo un mezzo, mentre la solidarietà è il fine.

Il dibattito che è seguito a questi interventi è ruotato intorno al rapporto tra conflitto e armonizzazione (puntare ad armonizzare stato, mercato e società civile non significa svalutare il conflitto?), a come considerare oggi la società civile (i giovani sono soggetti quasi assenti, cosa fare nei loro confronti? E le donne?), alle virtù e ai limiti delle elezioni primarie, a quale peso dare alla dimensione mondiale della crisi, e a molti altri aspetti. Alla domanda di Guido Formigoni di indicare, ciascun relatore, una priorità sull’agenda, la Bonomi ha ripreso il tema dell’economia civile, e ha sottolineato l’esigenza di sostenere e far conoscere le esperienze virtuose di quelle imprese che si sono aperte al sociale e al civile. Franzini ha risposto ribadendo la necessità di una revisione costituzionale che intervenga sulla formazione della classe dirigente. Mosconi (che ha fatto un appassionato elenco delle buone prassi dei distretti industriali emiliani e delle reti virtuose che sono operative tra imprese, scuola, università, assessorati al lavoro degli enti locali, con belle esperienze anche di welfare aziendale) ha indicato l’esigenza primaria di dare vita a un programma nazionale di scuole tecniche superiori che valorizzino e mettano in rete i giovani, l’industria manifatturiera, la scuola e i territori. Giannino Piana ha sottolineato come prioritaria l’esigenza di coscientizzare i politici sulla radicalità della crisi che stiamo attraversando (che ha anche radici mondiali) e sulla necessità di darsi come obiettivo lo sviluppo dell’economia nella logica della solidarietà.

Ora, questo insieme di idee, proposte e tracce di lavoro, è affidato alla buona volontà della rete c3dem per farne, ove possibile, qualche approfondimento che possa avere una ricaduta positiva.

Giampiero Forcesi

2 Comments

  1. E’ possibile parlare di “sistema economico” (capitalistico o meno) senza riferimento alle risorse per la vita e ai processi della loro più compiuta utilizzazione per il bene comune?
    Nella società cognitiva che stiamo vivendo, le risorse sempre più utilizzate sono le “risorse di cultura” e, tra queste, sono prioritarie, assieme alla ricerca ( umanistica e scientifica), le “risorse d’arte e di storia”.
    Risorse che, fin dal 1973, Giovanni Urbani definì la “peculiare componente qualitativa” degli ambienti che viviamo.
    E’ a queste risorse che va dedicata attenzione con nuovi studi e nuovi processi di ricerca per la migliore conoscenza e per la più pertinente valorizzazione (che non produca distruzione, come fa gran parte del turismo, cosiddetto “culturale”).

  2. Ricordo che all’inizio del pomeriggio Sammarco aveva posto in modo più esplicito la domanda sulla riformabilità del capitalismo “E’ riformabile o da rifiutare in toto?”. Infatti, chiedersi solo se è riformabile sembra implicare che – riformabile o no – ce lo dobbiamo comunque tenere perché “there is no alternative”.
    Per la verità alternative almeno teoriche ce ne sono, visto che il capitalismo non c’è stato né sempre né dappertutto, quindi la vera questione è se – una volta che si fosse deciso che è da rifiutare -è praticamente possibile farlo.
    Le mie schematiche opinioni in proposito sono:

    1) il capitalismo è da rifiutare in toto per varie ragioni:
    – non è compatibile con la salvaguardia dell’ecosistema
    – provoca una sempre maggiore concentrazione della ricchezza
    – anche quando (per un tempo limitato e in aree limitate) produce un effettiva diffusione della ricchezza materiale, incentiva il consumismo e l’individualismo al punto tale da legittimare la pessimistica domanda di Vitale “Ma noi vogliamo vivere insieme?”.

    Beninteso, il capitalismo non è la fonte di tutto il male, che tra gli uomini c’è sempre stato. Ma ad un certo punto la quantità di un male diventa una differenza qualitativa. Anche la guerra c’è sempre stata e così le armi, e anche con i soli machete si possono compiere genocidi. Ma con le armi nucleari si può distruggere l’intera umanità. Ma mentre il cosiddetto “olocausto nucleare” è un rischio terribile ma solo potenziale (speriamo!) i danni del capitalismo sono attualissimi.

    2) Come uscire concretamente dal capitalismo non lo sa nessuno.
    Io credo che questo richieda anzitutto un cambiamento di mentalità, diffuso a livello mondiale, che faccia cambiare le priorità alla maggioranza delle persone e faccia quindi privilegiare “l’essere all’avere”, come diceva già decenni fa Erich Fromm senza grande successo. Impresa ovviamente difficile, tanto che Latouche teme che il cambiamento possa avvenire solo in seguito a catastrofi ecologiche, che però ad un certo punto di innalzamento della temperatura media del pianeta diventano irreversibili.

    3) Allora non c’è niente da fare? No, in attesa della soluzione radicale è logico e necessario tentare di attuare tutte le riforme che consentano almeno di limitare il più possibile i danni.
    E per andare in quella direzione io credo che abbia ragione ancora Latouche quando dice che la prima cosa da fare è “decolonizzare l’immaginario”. Cioè smettere di credere ai miti dell’economia liberista, universalmente accettati anche quando palesemente falsi: come quello che la “crescita” (per come è stata intesa finora e per come la intende il capitalismo) possa risolvere il problema dell’occupazione…

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