Democrazia deliberativa: non c’è un modello unico, ma bisognerebbe crederci di più

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Continuiamo il percorso di riflessione che abbiamo cominciato con le interviste al prof. Giovanni Allegretti, a Susan E. George e a Rodolfo Lewanski, parlando ora di lobby e democrazia deliberativa con il professore Mauro Fotia, che ha insegnato Scienza Politica nelle Università di Messina e Trieste e Sociologia Politica nell’Università di Roma “La Sapienza”. Presso quest’ultima, tra l’altro, ha diretto una ricerca sulla finanza locale nell’Italia odierna, scegliendo come campioni i Comuni di Lombardia, Lazio e Calabria. Tra le sue ultime pubblicazioni: Il ritorno dell’estrema destra. Il Fronte Nazionale in Francia; Il liberalismo incompiuto; Debole come una quercia. Il neoliberismo di sinistra; Il consociativismo infinito. Dal Centrosinistra al PD.

 

Negli ormai lontani anni Sessanta e nei primi anni Settanta, lei nel saggio “Per una revisione critica del concetto di classe politica” (1964) e nel volume “Ruoli di dominio e classe politica” (1972) affrontò il tema della rappresentanza politica distinguendo quattro momenti nel processo decisionale. Quel suo saggio del ’64 fu citato da Costantino Mortati nei suoi “Elementi di diritto pubblico”, che hanno formato una schiera di giuspubblicisti e costituzionalisti. Perché lei distingue quattro momenti?

Il tema della rappresentanza è centrale nella ricerca sulla democrazia deliberativa italiana (e prima ancora straniera). Studiosi come G. Allegretti, L. Bobbio, A. Floridia, R. Lewanski, L. Raffini ed altri ancora, seppure con posizioni diverse, partono da questa centralità e pongono l’interrogativo se sia possibile introdurre nella rappresentanza elementi di democrazia diretta. Naturalmente non tutti, nel proporre metodiche deliberative dirette, riescono ugualmente convincenti. Così, ad esempio, coloro che propongono la metodica del sorteggio. Anche se del sorteggio parla pure il sociologo tedesco P.C. Dienel (come capo del gruppo di ricerca sulla partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica, si avvalse del contributo dei residenti nelle varie  collettività, sorteggiandoli nell’età compresa tra i 16 e i 68 anni). Il sorteggio garantisce certamente l’imparzialità, ma non determina alcunché in ordine alla partecipazione diretta di un grande numero di cittadini ad una deliberazione. Semmai, affida questa alla sorte di pochi. Più convincenti risultano coloro che vedono la deliberazione come la risultante di un dibattito pubblico (il débat pubblic della scienza politica francese) che coinvolge il maggior numero possibile di cittadini.

Con la mia proposta di articolare il processo decisionale in quattro momenti, il primo di questi, detto “inventivo”, mira a coinvolgere i cittadini nella loro generalità. Il che vuol dire che tutti i cittadini devono – possibilmente – essere presenti in un dibattito volto a trovare la soluzione del problema oggetto della decisione. Soluzione che verrà elaborata, secondo tecniche legislative o amministrative, ed eseguita dalla classe politica. A questa appartengono i momenti secondo e terzo, denominati appunto “elaborativo” ed “esecutivo”. Per poi sfociare nel momento “di controllo”, nel quale i cittadini tornano ad essere direttamente attori.

Sia chiaro, non uso l’espressione “democrazia deliberativa”, ma il senso ultimo del discorso approda nella partecipazione di una larga fascia di cittadini alle deliberazioni di interesse collettivo.

 

C’è una certa differenza tra il mondo statunitense e il nostro circa il modo di interpretare funzioni e opportunità per la democrazia deliberativa, vero?

L’espressione “democrazia deliberativa” appartiene alla letteratura politologica nordamericana. Ora, in questa, la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali sembra esaurirsi nel momento “inventivo” o di ricerca della migliore soluzione del problema affrontato. Tale momento è caratterizzato, come s’è già detto, da una discussione pubblica (“dibattito pubblico”), anche conflittuale, che però non sembra poi estendersi al “momento di controllo”. Il controllo, in realtà, è un fatto tecnico, volto a verificare se la soluzione scelta per un dato problema sia stata attuata o meno, escludendo ogni argomentazione “deliberativa”, cioè a dire, ogni elemento di discussione.

In questo senso, nei confronti di questa letteratura politologica, è necessario affermare, invece, l’importanza della funzione di controllo dei cittadini nel lavoro di rinnovamento della democrazia contemporanea. Tale rinnovamento, infatti, si potrà avere se i cittadini parteciperanno alle decisioni pubbliche non solo nel momento iniziale della discussione sulle decisioni da prendere, ma anche nel momento finale del controllo, teso a verificare se le decisioni prese sono state realizzate o meno. Nella mia ottica, dunque, la funzione di controllo, oltre che da appositi organi pubblici, previsti dallo Stato di diritto, deve essere esercitata, in maniera diretta, anche dai cittadini. Essa non è solo una funzione tecnica, ma anche politica.

In conclusione, per me, il termine “deliberazione”, in quanto indica l’atto dei cittadini di prendere una decisione (insieme ai politici, agli amministratori e agli esperti), dopo aver esaminato gli argomenti favorevoli e contrari, deve essere accolto anche dalla produzione politologica italiana ed europea. Il che, del resto, è già accaduto. Naturalmente, rimane il fatto che nella politologia del Nord America si pone l’accento sulla presenza dei cittadini solo nella discussione pubblica. Ma, in primo luogo, bisogna riconoscere che porre l’accento sulla discussione e sul confronto dei vari punti di vista è, ai fini del rispetto della democrazia, di grande significato. In secondo luogo, osservo che, se, da una parte, il termine, di per sé, non implica la partecipazione dei cittadini al controllo delle decisioni prese, dall’altra, non nega espressamente la rilevanza di tale momento partecipativo.

 

Riguardo ai fattori che investono i processi decisionali lei ha dedicato degli studi specifici alle lobby e, ancor prima, alla finanza pubblica, e alle leadership politiche che si sono succedute nel Mezzogiorno d’Italia dall’Unità ad oggi. Cominciamo dalle lobby: qual è la sua riflessione?

In Italia le lobby hanno sempre evocato, forse non senza motivo, l’idea di forze oscure. Esse, in quanto gruppi di pressione nei settori agrari, industriali, commerciali, finanziari, bancari, hanno sempre premuto sulle classi politiche in direzione di interessi di parte, e, per di più, di parte palesemente minoritaria. Per cui di recente, sull’esempio del mondo anglosassone, si è ricorsi alla regolamentazione anche in Italia.

Nel nostro Paese è stata disciplinata l’attività dei rappresentanti di interessi (i cosiddetti lobbisti) svolta nei confronti dei membri della Camera dei deputati, come ha stabilito la recente deliberazione dell’Ufficio di Presidenza dell’8 febbraio 2017. Tale deliberazione non solo precisa chi deve ritenersi rappresentante di interessi, ma crea il Pubblico Registro dei lobbisti che agiscono nelle sedi della Camera, ai sensi della regolamentazione approvata precedentemente dalla Giunta per il Regolamento nell’aprile 2016. Si è puntato, insomma, sulla pubblicità e sulla trasparenza della pressione lobbista quali requisiti essenziali perché si abbia una legislazione rispondente alle esigenze di una partecipazione popolare.

Ma proprio tali requisiti, in particolare quello della trasparenza, vengono non di rado a mancare. Lo testimoniano peraltro i recenti fatti che negli Usa hanno investito la stessa Presidenza.

 

Qual é il suo pensiero sulla democrazia deliberativa nei processi decisionali che investono la finanza pubblica?

L’argomento della finanza pubblica è assai delicato e singolarmente intricato. Tuttavia sono convinto anch’io, come taluni degli studiosi sopra menzionati, che forme effettive di democrazia deliberativa sono possibili anche in questa sede. Soprattutto in tema di finanza locale. Mi riferisco all’approvazione dei bilanci dei Comuni dopo un dibattito pubblico che investa ampi settori delle comunità locali per eccellenza.

 

Veniamo alle classi politiche del Mezzogiorno d’Italia e del “Mezzogiorno d’Europa”, per usare la dizione dell’economista italo-danese Amoroso in un suo saggio sulle classi dirigenti del Sud Italia. Qual è la sua riflessione in proposito?

Il volume curato da Bruno Amoroso (recentemente scomparso) si inserisce nel quadro di una ricerca sul Sud Italia, la Germania dell’Est e la Polonia Orientale. Per parlare solo del Mezzogiorno italiano, dico subito che esso versa ancora in una condizione di mancata crescita. Almeno il Mezzogiorno tirrenico. Nel Mezzogiorno adriatico si hanno regioni come l’Abruzzo e la Puglia, che hanno compiuto dei passi avanti. Rimane il problema di un progetto politico di crescita che guardi al Sud nella sua unità e interezza, pur senza disconoscere le specificità di talune aree. Un tale progetto non poteva essere realizzato nella fase del notabilato né in quella dei nuovi mediatori, che hanno visto nello Stato erogatore di assistenza e aiuti vari la soluzione di ogni problema.

Così pure oggi non può essere perseguito dal network dei poteri imprenditoriale, criminale e politico che imperversa non solo in Sicilia, Calabria, Campania e Puglia ma in tutto il Mezzogiorno, con macroscopici riflessi al Centro e al Nord del Paese. Il potere criminale organizzato opera come una lobby tanto potente quanto illecita. E perciò il ceto politico meridionale deve starsene lontano, scegliendo definitivamente la via della pubblicità e della trasparenza.

 

Che ne pensa delle nuove lobby che operano sulla democrazia on line?

In premessa, osservo che la domanda dà per scontato che esiste una democrazia del web. Il che non convince, sia perché l’intreccio di opportunità e minacce generate dalla sterminata quantità delle informazioni digitali determina numerose preoccupazioni, sia perché la moltiplicazione all’infinito dei dati informativi dà vita alla possibilità di confusioni, e rafforza il rischio di trasformare la pubblicità in un caleidoscopio contenente un numero massiccio di dati incontrollabili e, da ultimo, di convertire  la trasparenza in opacità.

Affrontando il problema più a fondo, dirò che tali dati, in quanto non sono neutrali, pongono grandi sfide. Essi hanno un impatto rilevante per la qualità della vita, i fenomeni sociali e politici, la ricerca, i temi etici. Possono al riguardo creare nuovi modelli interpretativi e predittivi. In una parola, richiedono l’azione di una coscienza personale e collettiva necessaria per esplorare un pianeta ancora in gran parte sconosciuto sia agli operatori politici sia ai teorici e agli  esperti pratici democratico-deliberativi.

 

a cura di Giandiego Carastro

 

 

 

 

 

 

 

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