Cattolici democratici di Milano. Il significato di una proposta.

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Lo scorso 30 novembre si è tenuto a Milano, nel salone delle Acli, un incontro di “cattolici democratici milanesi”, in cui si è discusso un documento lungamente preparato “per un comune impegno politico culturale”. L’incontro è stato aperto da un‘introduzione di Sandro Antoniazzi. Giovanni Bianchi ha tenuto la relazione di base, che qui di seguito pubblichiamo integralmente. Fabio Pizzul ha proposto un sintetico schema sui temi dell’impegno politico in Lombardia.

Presentare l’iniziativa di un gruppo di cattolici democratici (che a lungo l’hanno preparata nelle catacombe milanesi) obbliga a legittimarla nella fase politica che stiamo attraversando, a situarla sul territorio, a rivendicarne l’utilità. La strada è quella che della politica cerca di recuperare l’autorevolezza e la credibilità piuttosto che le residue illusioni di primato e di potenza. Per l’italiano medio infatti, preso nella tenaglia del disincanto e del ribellismo, la politica, pur continuando ad apparirgli tradizionalmente una “cosa sporca”, si è trasformata in maniera ancora più pericolosa in un “cosa inutile”. Utile invece agli interessi di una casta che pur di perpetuarsi come ceto politico ha rinunciato ad essere classe dirigente.

Dunque, una politica chiamata a riscoprire le proprie ragioni e a ritornare tra la gente. Capace di ricominciare senza dimenticare la propria vocazione pedagogica. Vocazione che viene prima del suo articolarsi in visioni del mondo e correnti di pensiero. Una vocazione che non è andata smarrita nella tradizione del cattolicesimo democratico e nelle sue superstiti manifestazioni. Quelle manifestazioni che, benché residuali, consentono di pensare un futuro senza dimenticare gli ultimi disperati tentativi di ricominciare la storia del popolarismo in Italia.

 

 

Viviamo nella stagione delle primarie. E il centro-sinistra ne ha moltiplicato con successo le edizioni e le forme. Così che anche l’area del populismo berlusconiano, nel momento del suo massimo dissesto, ha guardato ad esse con interesse sincero, pur dovendo riconoscere alla fine che per la salute dissestata dell’area berlusconiana l’operazione era disperata e addirittura sconsigliabile. È sintomatico ed è positivo che sia così. Le primarie hanno oramai ottenuto un loro statuto di cittadinanza nella politica italiana, dove partiti costituzionalmente europei praticano da sei anni un costume tradizionalmente americano. Non mancano ovviamente problemi di traduzione e di trapianto, ma le primarie sono entrate oramai nella mentalità degli italiani. In mancanza di partiti e di programmi affidabili esse appaiono ai nostri concittadini come l’ultima spiaggia della partecipazione politica, e le residue speranze di una democrazia da anni in transizione finiscono per coagularsi intorno ad esse. Così le primarie sono diventate il mito fondativo che ha surrogato, fino ad ora, la mancanza o la debolezza di manifesti politici, di progetti di lunga lena e alto volo: quelli attraverso i quali un partito – come ricordava Michels – si presenta al mondo. Dunque, le primarie come salvagente. Le primarie come molo dal quale riprendere il mare aperto di una politica indecifrabile ed assente. Ma le primarie, davvero provvidenziali, da sole non possono bastare: esse sono un comportamento collettivo e il loro senso non può che discendere da un’idea di democrazia e da un progetto politico. Il rischio perciò di inflazionarne l’uso e la funzione è chiaramente presente e deve essere decisamente evitato.

 

 

Il problema riguarda tutte le forze politiche. Ed è per tutte anzitutto un problema di cultura politica. I comportamenti politici perdono senso e si smarriscono senza una chiara e ribadita fondazione ideale. Anche il cattolicesimo democratico fa i conti con questa circostanza storica. E l’iniziativa di un gruppo di cattolici milanesi che ha deciso di unire le proprie forze per dare inizio a un’attività politica e culturale, prima di presentarsi, ha quasi il bisogno di giustificarsi in una città dove i maggiori quotidiani hanno dedicato non poco spazio negli ultimi mesi a dar conto dell’eccessiva dispersione e quindi dell’irrilevanza politica del cattolicesimo impegnato nello spazio pubblico. Il cattolicesimo politico, nel largo ventaglio delle sue posizioni, chiusa oramai da un ventennio l’esperienza della Democrazia Cristiana, ha visto il succedersi di una serie di certificati di morte. Mentre ha continuato a svilupparsi la presenza di un “mondo cattolico” in grado invece di rinnovarsi e riproporsi nell’ambito della società civile.

Il giudizio severamente funebre riguarda ovviamente l’esperienza politica dei cattolici nel suo complesso e nella vasta gamma delle sue esperienze. Riguarda perciò anche la presenza dei cattolici democratici che sono una parte rispetto al tutto dell’impegno dei cristiani e che hanno storicamente prodotto una presenza a cavallo tra le espressioni della società civile (associazionismo, sindacato, cooperative, forni sociali, circoli familiari, casse rurali e artigiane) e la forma partito inventata da don Luigi Sturzo che è diventata lo strumento adatto a distinguere i cattolico-democratici dai clerico-moderati, più corrivi al movimentismo, ovviamente di destra, e non di rado nostalgici del gentilonismo.

 

 

Chi si ritrova intorno alle poche pagine di questo documento non la pensa in tal modo e si potrebbe rispondere con una battuta di spirito che se il cattolicesimo politico, complessivamente considerato, è morto, il cattolicesimo democratico è tuttavia morto di parto… Una condizione che ha prodotto esperienze tuttora significative e operanti, e in attesa di essere ricollegate.

Il cattolicesimo democratico fa i conti con questa circostanza storica. È cioè chiamato a leggere i “segni dei tempi” della presente stagione dentro l’itinerario della democrazia italiana. E i cinquant’anni di distanza dalla celebrazione del Concilio Ecumenico Vaticano II ripropongono una lettura della presenza dei cristiani nello spazio pubblico alla luce del grande evento voluto da papa Giovanni XXIII. Con il concilio infatti la Chiesa cattolica fa pace con la modernità al tramonto. E lo sviluppo dei riformismi non è più letto sotto il sole di Satana, ma sotto il sole di Dio. Una Chiesa cattolica finalmente amica della politica, al punto da definirla come “la più alta forma della carità”, e di provare ad uscire definitivamente dalla sindrome di Costantino. Perché la “Chiesadei poveri” presentata in concilio dal cardinale Lercaro vuol dire cessare di viversi come instrumentum  regni.

La luce del concilio cinquant’anni fa irradiava i grandi soggetti collettivi nel loro storico sviluppo. E la bussola proposta per l’orientamento era quella dei “segni dei tempi”: il riscatto dei lavoratori, l’emancipazione delle donne, il raggiungimento della dignità statuale da parte dei popoli ex coloniali segnarono un’epopea interna alla stagione dei movimenti, quando il protagonismo del laicato cattolico “adulto” soffiava nelle vene del sindacato e del partito proponendo la centralità del popolo di Dio. Una condizione che consentiva a Giuseppe Dossetti di affermare che in Italia riforma della politica e riforma della Chiesa andavano di pari passo, ancorché chiaramente distinte.

Ma l’inarrestabilità e l’imprevedibilità del processo storico hanno drasticamente cambiato i segni dei tempi così come venivano letti dall’enciclica “Pacem in terris“.  Il discorso sulla recezione del concilio è quindi in buona misura interno alla cultura del cattolicesimo democratico e ne segna le metamorfosi e gli esiti. Le visioni di Maritain e Mounier ottengono l’assenso e il plauso dei padri conciliari, mentre una delle tante svolte a “U” della storia trova più pronte le chiese lontane dal vecchio continente che, elaborando tra difficoltà e contraddizioni le “teologie della liberazione”, prendono il largo dalle visioni dell’umanesimo integrale per riproporre drammaticamente il rapporto tra il Vangelo e la politica: l’ortoprassi – si diceva – al posto dell’ortodossia.

 

 

Cosa può voler dire oggi cattolicesimo democratico? Che cosa è nei confronti della chiesa il cattolicesimo democratico? Una esperienza di laicità condotta dai credenti a tutti i livelli, meritevole di una istruttoria adeguata per intenderne insieme le difficoltà e le potenzialità.  In una stagione nella quale nei partiti non ti chiedono cosa pensi, ma con chi stai, il tema diventa necessariamente quello dei contenuti. E il dilemma è stato posto da padre Costa sul numero di ottobre di “Aggiornamenti Sociali” quando si è chiesto se sia meglio un partito cristiano in cui la “differenza” può rendersi visibile, o partecipare con altri in partiti nei quali i cristiani si devono confrontare con altre visioni del mondo, rischiando di risultare invisibili se non inefficaci. Un dilemma non nuovo e non da poco. Molti sono gli espedienti ai quali la politica italiana è ricorsa inseguendo governabilità e lo stesso governo tecnico può apparire lo sforzo titanico e disperato del Quirinale di mettere in campo il governo dei migliori col parlamento dei peggiori.

La visione del cattolicesimo democratico è del resto una categoria molto articolata, sorretta da un giusto aggiornamento e viene dopo una stagione nella quale i cattolici democratici sono stati costretti partiticamente ed elettoralmente a una sorta di nicomedismo pur di salvare il salvabile. Anche in questo caso i cattolici democratici credevano di essere in transizione e si sono trovati in diaspora.

 

 

Questo, succintamente, il da dove veniamo. Perché chi non sa da dove viene non sa neppure dove va. Ma proprio la ricognizione ci forza a provare a indicare un futuro prossimo con un nutrito grumo di problemi.

Non ci è dato di pensare politica al di fuori del contesto europeo. Non a caso si è generalizzata  l’espressione: “Ce lo chiede l’Europa”. Che indica nel contempo una consapevolezza ma anche un’estraneità. Ha ragione Helmut Kohl: “Non c’è alternativa all’Europa”, ma l’Europa di Kohl ancora non esiste. Quest’Europa viene usata come il cimitero degli elefanti per i parlamentari italiani alla fine della carriera o dirottati altrove dalla carriera nazionale. Prevale in Europa la grande amministrazione burocratica. Mario Monti ha costruito in quella sede la propria autorità e il proprio  prestigio. E ha potuto lavorare al governo delle cose italiane nel momento in cui i partiti nazionali non erano in grado di reagire all’iniziativa del Presidente della Repubblica. Così pure le potenzialità di un suo ritorno sulla scena discendono a ben guardare dalla capacità tutta politica di Monti di federare un ampio ventaglio di forze politiche. Passaggio non semplice in una fase nella quale la divisione dei poteri è stata strattonata e messa in discussione, con una magistratura chiamata a intervenire per mutare il sistema politico. Continuiamo cioè a fare i conti con una versione della  democrazia bloccata: quella che aveva preoccupato Aldo Moro. A rischio di implodere per lo sfaldamento del centro-destra. Con questo fardello siamo entrati in Europa e vi camminiamo con qualche stento contribuendo a una situazione di stallo e di incertezza per la quale l’Europa è come i Balcani Occidentali: con un eccesso di storia che non riusciamo a consumare. Antichi problemi aggravati dalla congiuntura del capitalismo finanziario: una brutta bestia il capitalismo finanziario, ma non ne abbiamo un’altra, e dopo il fallimento dell’Urss e gli esiti cinesi non ci resta che provare, ancora una volta, a domarla.

 

 

Non si può negare che un nutrito menù di problemi stia davanti a noi. Anzitutto la distanza (evito il termine disagio) tra il lavoro di approfondimento e formazione che svolgiamo con gruppi, circoli e associazioni, e la labilità delle forze politiche nella metropoli milanese e nell’hinterland. Una distanza che sovente si trasforma in estraneità. Dal momento che è palese la crisi delle culture riformatrici, ivi compreso il cattolicesimo democratico. Abbiamo ormai consumato tutto il fieno in cascina. Anche l’ultimo Ulrich Beck sosteneva che la corsa alle riforme compatibili ci ha condotti al punto dove le riforme compatibili le fanno i sacerdoti del capitale (da noi i bocconiani).

Molte delle pratiche  vaucherisitiche applicate dal governatore Formigoni avevano come senso il mantra: “Meno società e più Stato”. Mentre la fase obbliga a recuperare il senso solidale, e non soltanto la sussidiarietà delle istituzioni.

Anche da qui la domanda all’origine di tutto un lavoro: come il nostro impegno incontra le forme del politico in questa fase? La nostra infatti non è più, in questa stagione, una democrazia fondata sui partiti, come affermavano Togliatti e Calamandrei. Questi partiti sono frastornati: è cambiata la grammatica e non credo siano più in grado di mantenere il monopolio della rappresentanza. Se anche dovessero sostituire il porcellum, non lo faranno con una legge che privi gli oligarchi del controllo delle nomine. E infatti anche questa circostanza risponde all’osservazione che non si tratta più di correnti che occupino i partiti, ma di tribù che li dominano e snaturano.

In compenso una via si è aperta alla ricerca inevitabile di nuova classe dirigente, nel senso che si è accorciata la distanza tra amministrazione politica. La gente lo ha inteso e cerca di praticare questa strada per dare nuova rappresentanza alle istituzioni. Il partito infatti per selezionare classe dirigente dovrebbe tornare a fare formazione e creare tirocinio: operazione che incontra ostacoli insormontabili nel partito, trasformatosi di fatto nel partito degli eletti. Per questo, percorrendo la via dell’amministrazione e diminuendo le distanze con la politica, i cittadini stanno procedendo da qualche decennio su una via “alla francese”, nel senso quantomeno analogico che in Francia nessun leader è tale senza essere stato prima sindaco della propria città.

Queste circostanze aprono lo spazio a gruppi non istituzionali che dedichino le proprie forze all’azione formativa. Un’azione che non deve restare soltanto sul piano teorico ma deve anche sforzarsi di intensificare e produrre esperienze, per questo avendo cara la propria autonomia nel rapporto con le istituzioni e con gli stessi partiti. Avendo anche chiaro che in politica non si riesce mai a funzionare come monadi. Da qui l’imperativo quasi categorico di mettersi in rete.

 

 

Approcci diversi necessitano. Anzitutto un bisogno di sintesi culturale che vada al di là dei tatticismi e che si dedichi a un’osservazione attenta della società civile. C’è infatti una crisi dei partiti che ha fatto nascere realtà nuove, oltre il dilagare del narcisismo dei protagonisti. Oltre un individualismo che si coagula intorno a un leader. Altro l’atteggiamento richiesto e  altre le  competenze, perché amministrare vuol dire oggi fare i conti con la povertà della città.

D’altra parte è palese che pochi sindaci vengono dal cattolicesimo democratico. Che il governo Monti ha alzato l’asticella della politica. Che l’elaborazione teorica continua a essere latitante. Si  esige altresì un recupero di popolarità, senza lobbismo, anche di tipo ecclesiastico. E vale la pena mettere a tema la categoria politica del Servizio. Chi infatti opera senza cultura diventa o indignato o disperato.

Il cattolicesimo democratico è anche chiamato recuperare la sua radice ecclesiale. Guai se si percepisce la presenza dei cattolici in politica come di gente che ha poco da dare e molto da chiedere. Tutto ciò è preliminare al tentativo di dare soggettività nuova al cattolicesimo democratico, lasciando alle spalle tentazioni ricorrenti quali quelle di creare un partito di tutti i cattolici (operazione oramai palesemente impossibile e giudicata tale dalla stessa gerarchia ecclesiastica) o un’opa sul centrodestra. Il cattolicesimo democratico infatti, volente o nolente, è chiamato ad operare a guisa di fermento e non di corpo organico. Resta comunque palese, quasi un continuum, il suo carattere popolare, e da qui la sfida possibile sulla sua capacità di ritessere la rappresentanza, evitando ovviamente di fare discorsi soltanto fra i garantiti. Tutte buone ragioni per affermare che siamo a un crocevia dove si pone un problema di vita o di morte per il cattolicesimo democratico. La scommessa è fare emergere quel che giace, convinti che c’è di più di quel che appare e che si pensa. Sarà compito di un’operazione di aggiornamento fare emergere percorsi diversi. Un punto di vista. Una ricognizione del territorio. Una rete leggera. L’indicazione di un progetto o almeno di uno schizzo credibile.

 

 

In positivo, due idee – coscientemente ingenue e disarmate – costituiscono il patrimonio iniziale di convinzioni del gruppo dei cattolici democratici milanesi.

La prima convinzione è che le idee contino quanto i comportamenti. Si è già fatto cenno alle primarie. Un fatto indubbiamente positivo e addirittura ricostituente per una democrazia assediata dall’indifferenza dei cittadini. Un’indifferenza che si esprime con un allontanamento dal voto in termini repentini e massicci, superiore alla metà degli elettori nelle ultime consultazioni siciliane. Dopo la corsa a distribuire le scomuniche a quella che con troppa facilità viene chiamata “antipolitica”, siamo chiamati a fare i conti con le idee che rendono sensato nel quotidiano l’interesse perla politica. L’assuntodal quale prendiamo le mosse è che siano le convinzioni a sostenere i comportamenti e che quindi le idee contino quanto i comportamenti e anche di più. È questo l’ambito che abbiamo scelto per il nostro impegno collettivo, avendo chiaro perciò che le novità della politica debbono confrontarsi con la tradizione e che quindi per andare avanti bisogna non soltanto aver chiaro da dove si viene, ma anche conoscere le proprie radici piuttosto che strapparle. È la tradizione che consente autentiche novità, fuori dalle spericolatezze dei nuovissimi vuoti, perché la tradizione tiene insieme continuità e discontinuità, e anzi fa in modo che la ricostruzione delle continuità e delle regolarità della politica riesca a misurare il senso e la distanza della discontinuità e a produrre novità utili e durature. Anche in questo atteggiamento si trovano le chiavi per capire le ragioni di quella platea di cittadini troppo vasta, e in rapida preoccupante espansione, che abbiamo preso l’abitudine di collocare sotto l’etichetta onnicomprensiva di antipolitica. È infatti il dibattito intorno alle idee e alla loro credibilità tradotta in comportamenti conseguenti che può convincere quanti pensano che la politica sia diventata una cosa inutile, della sua ancora possibile e diversa utilità, conseguente a un recupero di dignità e credibilità.

La seconda convinzione che ci anima è che per le nostre idee i “mezzi poveri” siano più adatti dei ricchi a farle circolare. Tra i mezzi poveri ci sono per noi gruppi e cenacoli che non rincorrono gli studi televisivi, dialoghi franchi anche in piccoli gruppi, che si tengono lontani dalla retorica della comunicazione pur non demonizzandola. Il silenzio è il luogo della parola più adatto ad essa del chiasso. Così come il piccolo numero è più caldo e convincente di una folla solitaria.

E’ chi non ha il senso delle proprie radici ed è in fuga dalla propria storia che si trova in rischio di proporre come futuro la fotocopia del passato prossimo. Oh se riuscissimo a produrre automobili nel nostro Paese con gli stessi ritmi degli anni ottanta e novanta! E invece la ricostruzione di un rapporto positivo tra politica e società è in grado di ritrovare i fili di una cultura e di un’etica civile, un’etica di cittadinanza condivisa, in grado di sostenere una nuova prospettiva della politica.

 

 

Nuovi cartelli indicatori stanno non a caso riemergendo. Prima tra tutte la dizione “bene comune”. Si tratta del ritorno di un termine da tempo desueto e malamente sostituito dall’espressione “interesse generale”:  un termine che implica non soltanto una ricerca collettiva e inclusiva, ma che la ricerca non venga ridotta dal desiderio di ciascuno alla prospettiva di una carriera.

Da questo punto di vista i cattolici democratici milanesi, pur considerando positive le iniziative promosse dalla gerarchia ecclesiastica o da organizzazioni cresciute nel sociale e di grande impatto e credibilità, dalla Cisl alle Acli alla comunità di Sant’Egidio, ritengono superata un’ipotesi di unificazione politica dei cattolici, per la quale non si danno oramai da vent’anni le ragioni interne ed internazionali che l’avevano consigliata. Nel rispetto quindi e nell’apprezzamento di altre scelte politiche che si collocano sul terreno di un pluralismo conseguente al lascito comune del Concilio Ecumenico Vaticano II, essi criticano un uso eccessivamente disinvolto del richiamo cattolico per raccogliere possibili voti di un’area di destra in disgregazione, così come pensano che anche le forze politiche che si collocano al centro geometrico degli schieramenti non possano far discendere dal Vangelo e neppure dalla dottrina sociale della Chiesa l’invito al moderatismo, certamente estraneo e addirittura indicato come l’avversario di rigore dal cattolicesimo democratico di matrice sturziana. Tutto ciò nel rispetto dell’eccedenza della fede cristiana e della sua irriducibilità, a destra come a sinistra e passando per il centro, a religione politica e civile. È il travaglio di una lunga e dialettica tradizione storica che ha prodotto i percorsi di una laicità faticosamente costruita dai credenti e che, mentre contribuisce al consolidamento della laicità di tutti gli italiani in un paese che Norberto Bobbio definiva già decenni fa di “diversamente credenti”, non accede a una concezione della laicità propria di altre culture che la considerano un proprio patrimonio acquisito, al quale i cattolici debbano semplicemente accedere ed acconciarsi; e non invece una sorta di luogo terzo costruito con l’apporto di percorsi diversi e di itinerari in ogni caso sofferti.

Dalle tensioni non ci si può riparare e la grande lezione del cattolicesimo democratico ci ha insegnato che il dialogo franco a partire dai propri principi è la piattaforma migliore per risolvere le questioni che attraversano, non di rado in maniera drammatica, confini e recinti. Così come ci ha insegnato che il Vangelo non può essere ridotto a prontuario etico e che il rapporto tra fede e politica resta esigente e fondamentale, ponendo ai credenti il compito di un continuo aggiornamento professionale, ma anche quello di una testimonianza che viene prima ed è imprescindibile.

 

Vi è un bisogno che attraversa questa stagione disordinata nella quale le opportunità fanno ressa insieme alle difficoltà: è il bisogno di produrre democrazia. Un bisogno centrale in quest’Europa,  che pur nella novità e plasticità della sua forma federale, si scopre però, così com’è, non più al centro del mondo e anzi finita in un cono d’ombra periferico. Un’Europa anzi inseguita dallo spettro della propria decadenza, a dispetto delle opportunità culturali e reali di pensare un futuro da protagonista. Un’Europa chiamata ad andare oltre se stessa. Non si tratta di scagliare la palla sulle tribune nei territori nebbiosi della geopolitica, ma di prendere atto che nessuna politica nazionale è destinata a restare e già non è più tale: una visione che incalza i partiti e, più consapevolmente, i governi, quelli di transizione e quelli che verranno, ma anche il sindacato, che non è una struttura opzionale o marginale, insieme ad altre associazioni del civile, di tutte queste democrazie in difficile transizione.

Non a caso a fare da contraltare all’avidità dei mercati, perennemente agitati dagli animal spirits,  si pongono le esigenze dei lavoratori (anche quando sono invisibili e soprattutto quando sono spinti a milioni sul margine della povertà) e del lavoro. Perché se il lavoro era il grande ordinatore delle società fordiste, l’interrogativo di fondo è se esso non sia anche il luogo intorno al quale ordinare le società del postfordismo. Quando “il lavoro che manca stanca di più del lavoro che stanca”, e la sua assenza ha trasformato il precariato delle nuove generazioni, da elemento interno alla contrattazione aziendale, a una condizione umana  non soltanto generazionale. Chi non ha un ruolo e una garanzia di cittadinanza nella società è impossibilitato a pensare il futuro per sé e per quanti gli stanno accanto e con lui camminano in questa transizione infinita.

Non ci sono “bamboccioni” in questo Paese, ma generazioni che non possono pensare di emigrare da se stesse: i “non luoghi” sono diventati una dimensione interiore, e Marc Augé ci aveva avvertiti per tempo quando osservava che il globale è interno alle persone, mentre il locale si colloca esternamente a loro.

È in questo quadro – riassunto per esigenze di spazio in maniera rischiosamente biginesca – che si colloca la vicenda italiana, non votata ad essere per destino marginale e periferica. Se da una parte infatti l’avvento di Mario Monti a Palazzo Chigi chiude e tampona in limine mortis la lunga stagione, quasi ventennale, del berlusconismo, dall’altro il governo in tutto politico di un grande “tecnico” non si insedia dopo aver esortato la politica a “farsi più in là”, e spintonandola nel retrobottega. Il governo di Mario Monti – voluto e preparato dal Quirinale – presidia il vuoto di questa politica. Un vuoto sanzionato dallo sguardo popolare che pur patendo non poco le riforme e le mancate riforme del governo in carica, mantiene nei suoi confronti una fiducia di gran lunga superiore rispetto a quei partiti che punisce nelle urne anzitutto con il nonvoto. La vuota dialettica dei talkshow perde finalmente se confrontata con l’esigenza di mettere le mani sulle leve che governano i processi reali. E chi mostra di cimentarsi con essi appare più affidabile di chi ha seminato promesse impossibili o ha nascosto le difficoltà con mediatica leggerezza come la cenere sotto il tappeto.

La storia e la sua memoria (perché per guardare avanti bisogna avere il coraggio anche di voltarsi indietro) offrono lezioni durissime: Hitler e il nazismo raggiunsero il potere promettendo piena occupazione e realizzandola, con costi a dir poco apocalittici. Il mondo e il Paese quindi hanno bisogno di politica, non però di questa politica. È dunque a sproposito che sono state rilasciate negli ultimi tempi patenti e scomuniche di antipolitica. In effetti c’è più rabbia nei confronti di questi partiti che non della politica in quanto tale. Il bersaglio, visto anche con gli occhi di un populismo la cui coda è destinata a restare a lungo tra noi, è infatti la Casta: un’etichetta confezionata con successo da due giornalisti e che ha raggiunto la credibilità di una nuova categoria del politico. Per questo il livore nei confronti della casta va smontato nella prassi piuttosto che scomunicato nei discorsi. E la politica non deve tanto praticare l’esorcismo quanto contraddirlo sul campo. Siamo alle solite: non le prediche, ma i comportamenti ricreano le convinzioni e perfino gli ideali. Sapendo valutare in questo senso anche le opportunità che si aprono proprio nella terra di nessuno della transizione infinita.

 

 

Negli ultimi 17 anni abbiamo assistito ai riti e alle prevaricazioni di quella che le analisi più avvertite hanno letto come una partitocrazia senza partiti: un massimo di potere concentrato ai vertici, cui corrispondeva un minimo di partecipazione alla base. Un minimo ulteriormente ridotto da una legge elettorale che il latino maccheronico di porcellum non riesce ad ingentilire.

I gruppi dirigenti, continuamente pungolati dal presidente Giorgio Napolitano, devono assolutamente uscire da questa condizione, pur sapendo che l’inerzia delle rendite di posizione demotiva le assemblee parlamentari a legiferare contro se stesse. E francamente non vale da sola in questo caso la preoccupazione legittima di assicurare la governabilità dopo il voto: è una preoccupazione da affrontare insieme a quella di una partecipazione dalla quale i cittadini non possono ulteriormente considerarsi esclusi per quel che riguarda le forme della decisione. L’equazione ha due incognite e non può essere risolta affrontandone una sola: a quel punto la governabilità risulterebbe improbabile e impotente perché vissuta come la governabilità della Casta.

Eppure da tempo qualcosa si muove. Se le primarie sono un comportamento collettivo che ricarica la politica nel momento di una bassa preoccupane della sua credibilità, la politica non cessa tuttavia di essere un pensiero collettivo, e un’organizzazione di questo pensiero tenuta insieme da relazioni comunitarie  che non di rado alludono all’amicizia. Qui giace il problema del Paese e anche il nostro. La crisi non è superabile senza il governo della politica, ma questa politica si è dimostrata incapace di governo. E i comportamenti collettivi, soprattutto quelli che risultano credibili e praticabili agli occhi dei cittadini, e quindi in grado di interpretare la fase e di condurci oltre la transizione infinita, hanno bisogno di contenuti e di ideali condivisi: una visione del futuro la cui costruzione appaia possibile a partire dal presente. Può parere una provocazione nei giorni che attraversiamo, ma non stiamo andando per profeti: siamo dentro la tradizione più classica del pensiero politico europeo ed occidentale.

 

 

È a partire da queste considerazioni che il gruppo dei firmatari del documento che oggi viene presentato si è interrogato intorno alla presenza e all’utilità del contributo di quanti, attraverso percorsi non soltanto plurali ma anche molto variegati, provengono dalla grande stagione di quello che siamo soliti chiamare “cattolicesimo democratico”. Una visione delle cose e una presenza politica che per lunghi periodi non solo hanno governato il Paese ma ne hanno anche segnato l’egemonia culturale e politica. Non tanto per continuare una storia – perché le discontinuità non si programmano ma comunque accadono  –  ma per verificare e non lasciar cadere quelle che ai nostri occhi appaiono le molte opportunità di un contributo non a perpetuare una tradizione, ma a pensare insieme politica e un futuro per l’Italia, che è stata la vocazione del cattolicesimo democratico. In ciò distintosi come antagonista di quella versione cosiddetta clerico-moderata che aveva invece per scopo precipuo quello di difendere gli interessi cattolici.

Una visione delle cose determinata, capace di dialettica e anche di conflitto, ma intesa al bene comune e non agli interessi di una parte soltanto. In grado di produrre scenari suggestivi, ma  anche di creare iniziative e strutture di inclusione a partire da quel “mondo cattolico” che è riuscito a trasformarsi nei decenni, a dispetto dei molti certificati di morte stilati nei suoi confronti, qualche volta anche da noi. Per la natura eminentemente popolare e associativa del cattolicesimo italiano che, a differenza ad esempio di quello francese, si è meno espresso gruppi intellettuali e liturgici, dando piuttosto forma ad associazioni, Casse Rurali e Artigiane, iniziative imprenditoriali e mutualistiche, circoli familiari. È infatti a partire da questo tessuto che il cattolicesimo democratico ha dato vita con don Luigi Sturzo a una propria originale forma partito rispondente alla cultura del popolarismo, con una disseminata presenza nei municipi e negli ambiti amministrativi, a cavallo di un rapporto costante tra società civile e istituzioni.

Non dunque più società e meno Stato, ma più società e più Stato, che era il mantra alla Costituente del giovanissimo giurista meridionale Aldo Moro e la bussola dell’azione di governo di Alcide De Gasperi. Non mancano autorevoli analisti, anche di parte cattolica, i quali affermano da tempo che il cattolicesimo politico e quindi anche il cattolicesimo democratico hanno concluso la propria parabola. Il nostro parere è che il cattolicesimo democratico ha continuato nonostante tutto dare vita a soggetti operanti non soltanto nei mondi vitali della  società civile, ma anche nelle forme della politica e dell’amministrazione. Bisogna ripartire da qui, e il nostro tentativo non è quello di creare dal nulla, ma di ricollegare esperienze esistenti, sopravvissute o inedite, in un progetto e un’amicizia comune, nel tentativo di contribuire a esperienze politiche non separate, ma nelle quali la lezione e il lievito di una politica testimoniata sul campo prendano parte con un contributo originale ed evidente. La fine del partito di ispirazione cristiana (questo è statala Democrazia Cristiana, non un partito cattolico, introvabile in Italia) consegna ai credenti l’esigenza di continuare a pensare una politica cristianamente ispirata.

 

 

È a questo punto che l’esigenza di rimettere a tema il rapporto tra fede e politica non può essere storicamente evitata. A mezzo secolo dalla celebrazione del Concilio Ecumenico Vaticano II, quell’evento storico non risulta per noi un elemento della retorica cattolica, ma l’occasione per ripensare, nella complessità della tradizione, la recezione del Concilio, una recezione che non concerne soltanto i documenti, ma anche i soggetti che hanno vissuto nella chiesa il passaggio dall’epoca della cristianità a quella di un mondo secolare ed “adulto”.

La città di Milano, la grande comunità cristiana che la abita sono impegnate in esperimenti dove la ricerca di risposte concrete si accompagna allo studio dei problemi che sostengono le speranze del futuro mentre riscoprono le proprie lunghe radici. È un problema comune a tutte le culture. Ognuna chiamata a fare la propria parte perché la città dell’uomo sognata da Giuseppe Lazzati cresca nel quotidiano con una dimensione di cittadinanza inedita. È stato il cardinale Martini a ricordarci, sul fondamento della Scrittura (e in compagnia di Max Weber), che la politica, senza sbilanciarsi in promesse che non è in grado di mantenere, è a misura delle cose impossibili. Per le possibili dovrebbe bastare l’amministrazione.   

 

 

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