Stato sociale: tornare a Beveridge?

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” Libertà dalla guerra e dalla paura della guerra. Libertà dall’ozio e dalla paura dell’ozio causato dalla disoccupazione forzata. Libertà dal bisogno e dalla paura del bisogno. Queste sono le tre libertà fondamentali. Questi sono gli obiettivi che dobbiamo perseguire con incessante determinazione”. Così William Beveridge introduceva il Rapporto che lanciò lo stato sociale postbellico. Era il 1942, le bombe cadevano su Londra mentre tutta Europa era occupata dai tedeschi. La sopravvivenza nazionale e individuale era la priorità assoluta. Malgrado ciò, c’era chi guardava lontano. Keynes programmava un nuovo ordine economico mondiale, Beveridge un patto sociale per le “libertà fondamentali”, entrambi avevano come obiettivo un’economia di piena occupazione.

Lo stato sociale, nato timidamente a fine Ottocento, ampliato in alcuni paesi negli anni Trenta, fiorì e si rafforzò in tutta Europa nel secondo dopoguerra, seguendo modelli in parte diversi, alcuni maggiormente fondati sulla cittadinanza (protezione di base a tutti i cittadini) altri più sul lavoro (protezione anzitutto ai lavoratori e alle loro famiglie). Nato dall’idea socialdemocratica di un patto tra capitale e lavoro, lo stato sociale fu attuato anche dai partiti conservatori cristiano democratici. La spesa sociale crebbe rapidamente in tutta Europa fino a agli anni Ottanta del secolo scorso, la crescita continuò poi a ritmo più lento. Il welfare state divenne una carattere distintivo, culturale e politico, dell’Europa occidentale. Anche gli Stati Uniti, sebbene con minore carica ideologica, accrebbero la spesa sociale. Altrettanto cominciarono a fare numerosi paesi in America Latina e in Asia.

Il “neoliberismo” lanciato da Reagan e Thatcher e fiorente negli anni Novanta e Duemila, malgrado il prestigio culturale che conquistò, non ebbe la forza politica di ridurre la spesa sociale che continuò a crescere, seppure a ritmi meno elevati che nel trentennio precedente, in quasi tutti i paesi, tranne che per brevi periodi nel Regno Unito e in Svezia, le due patrie originarie del welfare state. Benché la sua retorica dicesse il contrario,  lo stesso Reagan non poté o non volle diminuire la spesa pubblica, che anzi aumentò. Lo stato sociale si dimostrò nei fatti, oltre le ideologie, soprattutto ma non solo in Europa, come un’istituzione consolidata, intoccabile pena la perdita di consensi elettorali. La sola cosa che potrebbe distruggerlo, nota Peter Lindert uno dei maggiori studiosi in argomento, è un debito pubblico fuori controllo.

Tutto bene, dunque? Certamente no. Non tanto per la quantità quanto per la qualità della spesa. Lo stato sociale europeo si è consolidato in un quadro demografico, tecnologico, sindacale e internazionale molto diverso dall’attuale. La sua inadeguatezza qualitativa spiega in parte, a mio parere, il diffondersi di ideologie populiste. La pandemia nella quale ancora viviamo ha messo a nudo lo scarto tra cittadini più e meno protetti. Faccio solo due esempi: lo stato sociale europeo, e massimamente quello italiano, è squilibrato a favore delle generazioni più anziane e del lavoro tradizionale, strutturato. Non si è adeguato alla fluidità del mercato del lavoro (anche di quella “buona”, non solo della Gig Economy). Non protegge sufficientemente il futuro dei giovani nel solo modo possibile: fornirli di cultura e  formazione professionale adeguate a un buon inserimento nella società e nel lavoro. Tra le riforme delle quali si parla, penso che quella del welfare dovrebbe essere tra le prime. Anzitutto per equità, ma anche per favorire occupazione e sviluppo. Mi piacerebbe immaginare un “ritorno a Beveridge”, a una protezione universale di base per tutti i cittadini e le cittadine, indipendentemente da ogni altra loro qualifica.

 

Gianni Toniolo

 

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  1. E’ vero, bisognerebbe “ritornare a Beveridge” ,”ritornare a Keynes” e molti altri ritorni a tutti quei pensieri e azioni di politiche riformiste praticate. Mentre lo scontro “comunismo” e “anticomunismo” lacerava il mondo fino al 1989 pochi riflettevano sulle altre vie di “stato sociale” concretamente vissuto, che poi si è rivelato, l’unica via concreta in grado di coniugare giustizia e libertà, alla quale il cristianesimo sociale aggiungeva la fraternità. E già fin dagli anni trenta Carlo Rosselli rifletteva sul socialismo liberale e Emmanuel Mounier (Esprit nasceva in quegli anni) sul personalismo comunitario. Qui stanno le radici culturali di una sinistra moderna e plurale. Salvatore Vento

    • Caro Salvatore, sì.. tanti ritorni guardando avanti. Keynes è abbondantemente ritornato ma in una versione nella quale lui non si riconoscerebbe (quella che dice che in economia non di sono vincoli e che si può finanziare allegramente qualunque spesa in disavanzo, non hanno letto il suo “How to pay for the war”, ad esempio). Beveridge è molto dimenticato, mi pare utile riscoprire il suo progetto universalistico di stato sociale. Il Covid ha messo drammaticamente in evidenza le debolezze e iniquità del welfare italiano: tanto ai vecchi e poco ai giovani, molto alle categorie protette e poco o nulla a quelle non protette (proprio il contrario ci come dovrebbe essere). In nessun paese europeo sono aumentate come da noi povertà e disuguaglianze negli ultimi anni e mesi.
      Gianni Toniolo

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