Storia delle diseguaglianze, ieri e oggi. Un libro di Pierluigi Ciocca

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Pierluigi Ciocca sostiene che negli ultimi due secoli l’economia di mercato capitalistica ha unito a un formidabile sviluppo della produzione, che ha fatto uscire dalla povertà centinaia di milioni di persone, tre elementi negativi (le tre “i”): iniquità, instabilità e inquinamento; elementi che minano gli equilibri del sistema e le stesse basi democratiche della società. In un volumetto edito pochi mesi fa da Einaudi, Ricchi, poveri. Storia della diseguaglianza, si concentra soprattutto sul divario tra ricchi e poveri. Come si è evoluto nella storia? Che cosa fare per ridurlo?

di Giapmpiero Forcesi

Quello delle diseguaglianze è un tema centrale nella riflessione politica attuale, in particolare della sinistra. Riguarda sia la sperequazione tra i cittadini all’interno di un singolo Paese, sia la sperequazione tra le diverse aree e i diversi Paesi del mondo. Tra le numerose pubblicazioni recenti sull’argomento si distingue per facilità di lettura, unita però alla competenza dell’autore, un volumetto di Pierluigi Ciocca edito pochi mesi fa da Einaudi: Ricchi, poveri. Storia della diseguaglianza. L’autore ha lavorato per decenni alla Banca d’Italia e ne è stato a lungo vice direttore generale ed è socio dell’Accademia  dei Lincei. Da quando è in pensione si è dedicato a studi di storia dell’economia. Scrive di tanto in tanto sul Manifesto, il che sembra indicare un suo spingersi a cercare risposte innovative, meno conformiste, alle questioni sociali che abbiamo davanti.

In meno di 170 pagine Ciocca abbozza, come dice il titolo del libro, una storia della diseguaglianza, su scala mondiale, con un’attenzione particolare all’Italia e si sofferma sui nodi che contrassegnano, ai nostri giorni, il rapporto complesso tra sviluppo economico e disuguaglianza. Parte da una premessa, in cui descrive in sintesi la situazione attuale e anticipa quelle che, a suo avviso, sono le vie possibili per ridurre la diseguaglianza; seguono alcune pagine in cui si mettono a fuoco le dimensioni della povertà e della ricchezza; poi viene fatta una ricostruzione storica dell’origine della diseguaglianza e del suo andamento nel corso della storia dell’umanità, soffermandosi in particolare sulla “svolta” avvenuta all’inizio del XIX secolo con l’avvento dell’economia di mercato capitalistica; infine, si riprendono le considerazioni fatte in premessa, si ragiona sulle alterne vicende del rapporto conflittuale tra mercato e istituzioni dello Stato nel corso degli ultimi due secoli, e, sulla scia del pensiero di Keynes a cui Ciocca si richiama convintamente, si discute su fin dove può limitarsi la diseguaglianza senza incrinare la democrazia.

La premessa

Ciocca sostiene che negli ultimi due secoli l’economia di mercato capitalistica ha unito a un formidabile sviluppo della produzione, che ha fatto uscire dalla povertà centinaia di milioni di persone, tre elementi negativi (le tre “i”): iniquità, instabilità e inquinamento; elementi che minano gli equilibri del sistema e le stesse basi democratiche della società. Con la pandemia di oggi, e il blocco delle attività economiche che ha comportato, si è acuita la distanza tra chi ha e chi non ha, ed è cresciuta la sfiducia nella democrazia. Due gli obiettivi che, secondo lui, debbono e possono essere raggiunti: abbattere l’indigenza a livello mondiale, e contenere le sperequazioni nei redditi e nei patrimoni all’interno delle economie avanzate. Come? Riavviando la crescita economica, intervenendo nei processi distributivi, rafforzando il welfare state con più risorse e opportunità.

Povertà

Nel 2015, a vivere in povertà assoluta, cioè con meno di due dollari al giorno, erano circa 700 milioni di persone, il 10% della popolazione mondiale (i due terzi in Asia, un terzo in Africa); con un netto miglioramento rispetto a soli 25 anni prima: nel 1990 a vivere con meno di due dollari erano due miliardi di persone, il 33% dell’umanità. Oggi, però, la pandemia ha frenato la riduzione della povertà, spingendo indietro circa 120 milioni di persone. Per avere un’idea della diseguaglianza attuale basta un dato: l’indice di sviluppo umano (HDI), che misura salute, istruzione e reddito, segna nel 2019 uno 0,95 per la Norvegia (aspettativa di vita di 82,3 anni, aspettativa di anni di studio pari a 18, reddito annuale pro capite di 68.000 dollari) e uno 0,38 per il Niger (aspettativa di vita di 62 anni, aspettativa di studio di 6 anni, reddito di 912 dollari). Se questi sono i livelli della disuguaglianza tra Paesi, è forte anche la diseguaglianza tra i cittadini all’interno dei singoli Paesi, ed è nettamente maggiore nei Paesi più poveri. Con un’avvertenza: che va considerata anche la povertà morale, quella che è determinata dalla mancanza di lavoro, una condizione (un male endemico) che è emersa soprattutto negli ultimi due secoli.

Ricchezza

Al di là dei dati (oggi la metà della popolazione adulta mondiale detiene non più dell’1% del patrimonio complessivo, mentre l’1% più ricco ne detiene il 45%), Ciocca osserva che i ricchi hanno comunque dei “meriti sociali”: sono spesso i principali contribuenti fiscali (per il 45% nei Paesi più avanzati, per il 30% nei Pvs); risparmiano di più e possono dunque investire; sono tra i maggiori benefattori. Ma è anche vero che la ricchezza porta ad avere più potere e a far nascere le lobby che minano la concorrenza e la stessa democrazia. La dinamica più ricchezza più potere più ricchezza è giunta oggi a un punto tale che ci si chiede se il capitalismo finanziario si sia talmente sviluppato a livello globale da aver assunto un potere maggiore di quello degli stessi Stati nazionali. Ciocca risponde di no. La crisi economica e finanziaria del 2008 e 2009 e la pandemia hanno dimostrato, a suo avviso, che il ruolo dello Stato resta e che anzi solo lo Stato può dare risposte a tutela dei cittadini. Secondo Ciocca, la finanza è oggi sempre meno capace di imporsi sugli Stati (cosa che nell’800 e nella prima metà del 900 è invece avvenuta). Oggi i moderni gestori del denaro (“ragionieri con dottorati in finanza matematica”, come egli li chiama) non hanno una visione del mondo, un interesse generale, un pensiero politico. L’industria finanziaria è divenuta una “macchina impersonale”, irrilevante nella sfera dell’alta politica. In conclusione, dice Ciocca, “gli Stati pur sempre dispongono di margini per intervenire, impegnando risorse al fine di riassorbire la povertà e limitare gli squilibri distributivi”.

Le diseguaglianze nella storia dell’umanità Un excursus

Fatte queste considerazioni, Ciocca passa a ricostruire la nascita della diade ricchi/poveri nel corso della storia dell’umanità e a ripercorrere l’aumento o la diminuzione delle disuguaglianze sociali nelle diverse epoche. Usando l’indice di Gini (che verso lo 0 indica il minimo di disuguaglianza di reddito o di patrimonio, e verso l’1 il massimo) e rifacendosi a numerosi studi, annota che per la Grecia del IV secolo a.C. è stato calcolato un indice dello 0,71 (cioè una forte diseguaglianza; tanto che l’1% deteneva un terzo dei patrimoni); mentre nella Roma augustea, quattro secoli dopo, l’indice per quanto riguarda i redditi era lo 0,36 (cioè una disuguaglianza molto minore). Se si considera l’intero territorio dell’impero romano la diseguaglianza era però piuttosto alta, circa lo 0,50; essa è andata poi diminuendo con il declino dell’impero fino a raggiungere il livello minimo (0,15) nel 700, quando si è registrato il massimo (generale) impoverimento. La sperequazione, dunque, si ridusse drasticamente con lo sfaldarsi dell’impero e con la peste del 541 (prolungatasi per due secoli): due realtà, queste, che colpirono duramente le classi abbienti. La popolazione del territorio dell’impero, nel 700, scese a soli 27 milioni di abitanti rispetto ai 67 milioni nel 200 (in Italia scese da 8,5 milioni a soli 4 milioni).

Per i successivi tre secoli, fino al 1000, proseguirono sia l’impoverimento generale sia la riduzione delle sperequazioni. Poi il nuovo assetto della sorgente società feudale comportò una ripresa economica che durò fino a tutto 1300 (sviluppo delle città, nascita di nuovi mercanti, artigiani, banchieri…) e determinò l’aumento della popolazione europea che risalì a 73 milioni. Con la ripresa crebbe anche la diseguaglianza, soprattutto nelle città (l’indice Gini segna lo 0,70 a Londra e Parigi, e lo 0,53 a livello continentale). Con la peste della metà del 1300 iniziano di nuovo a ridursi la crescita e la popolazione (quest’ultima in Italia scese dagli 11 milioni del 1300 agli 8 milioni nel 1500); e si ridussero anche le sperequazioni. Viceversa, tra il 1500 e il 1800 la produzione tornò a crescere, e con essa anche la popolazione (da 60 milioni nel 1500 a 180 nel 1800); ma il benessere materiale per la maggioranza della popolazione non migliorò. L’economia agricola aveva bassa produttività, c’era sovrabbondanza di manodopera e i redditi erano poco sopra il livello di sussistenza. La disuguaglianza risalì sia nei redditi che, ancor più, nei patrimoni. Una disuguaglianza che fu più forte fra gli abitanti di uno stesso paese che non fra i Paesi (solo i Paesi Bassi e il Regno Unito, in quei tre secoli, erano economicamente più avanzati). L’indice di Gini si mantenne in Europa tra 0,46 e 0,56 (in alcune città italiane l’indice sui patrimoni salì a 0,60).

La svolta del 1800

“Tutto cambiò – scrive Ciocca – con il 1800”, quando la rivoluzione industriale in Inghilterra fa nascere l’economia di mercato capitalistica, che è il modo di produzione che si è esteso prima in America del Nord e in Europa e, nel 900, in tutto il mondo, dando all’umanità – sottolinea Ciocca – uno sviluppo produttivo senza precedenti: dal 1800 ad oggi (2020) la popolazione mondiale è cresciuta di 8 volte, la produzione di 100 volte, il reddito medio pro capite di 14 volte (nell’Europa occidentale la popolazione è cresciuta di 4 volte, la produzione di 65, il reddito pro capite di 17).

Due sono i motori della produttività dell’economia di mercato capitalistica, ricorda Ciocca: l’accumulazione di capitale e l’innovazione tecnologica. Il primo ha contribuito per il 40% a incrementare la produzione; mentre per il 60% vi ha contribuito il progresso tecnico. L’accumulazione, e dunque gli investimenti, agli inizi dell’800 erano solo del 2%, nel 1860 erano già all’11%, a metà 900 erano saliti al 22%, e oggi sono al 25%.

Questo forte sviluppo ha portato, a differenza dei secoli precedenti, a forti dislivelli di reddito fra i Paesi (mentre assai di meno sono cresciuti i divari all’interno dei Paesi). Nel 1820 il reddito pro-capite in Europa occidentale e negli Usa era meno del doppio di quello dell’Europa orientale, della Russia, dell’America latina e del Giappone; era poco più del doppio di quello dell’Asia e il triplo di quello dell’Africa. Nel 2003 gli Usa avevano raggiunto un reddito pro-capite del 50% maggiore di quello dell’Europa occidentale, di 5 volte superiore a quello dell’Europa orientale, dell’ex URSS e dell’America latina, di 7 volte superiore a quello dell’Asia (Giappone escluso) e di 20 volte a quello dell’Africa. E’ vero che in questi 200 anni il reddito medio pro-capite è aumentato ovunque (in Africa di 4 volte), però i divari di potere d’acquisto individuale sono cresciuti in un rapporto di 1 a 100. A livello mondiale l’indice di Gini è passato dallo 0,50 del 1820 allo 0,66 del 1980.

L’economia di mercato capitalistica, ci ricorda Ciocca, tende per sua natura alla disuguaglianza, perché accentua i divari di remunerazione a fronte di un ampio ventaglio di differenze fra i soggetti (che siano singoli individui o imprese o nazioni): la loro capacità di iniziativa, di lavoro, la propensione al rischio, l’istruzione, l’esperienza, l’origine familiare e l’eredità …; ma anche la fortuna, e anche le discriminazioni (per sesso, per religione, per etnia…).

A partire dal 1990, vi è stata una flessione nel livello di disuguaglianza fra i Paesi. I Paesi dell’Asia sono usciti dal sottosviluppo e sono cresciuti a ritmi molto superiori a quelli delle economie avanzate. Cina e India (un terzo della popolazione mondiale) hanno accresciuto la loro quota del Pil mondiale dall’8% degli inizi degli anni 70 al 20% del 2003 e al 25% del 2020.

 Il conflitto tra mercato e Stato dal 1800 ad oggi

Ma che cosa è accaduto per quanto riguarda la disuguaglianza all’interno dei singoli Paesi dal 1800 ad oggi? Qui  due sono state, e sono, le forze in gioco, dice Coccia:  il profitto, che è lo scopo del mercato, da una parte, e le istituzioni pubbliche, dall’altro. Il profitto è la forza che, ad un certo punto della storia dell’umanità, ha per lo più sostituito il potere nel determinare la disuguaglianza. Durante l’800 e fino alla prima guerra mondiale ha prevalso il profitto, e pertanto le disuguaglianze all’interno dei Paesi sono cresciute: nel 1810 l’1% più ricco deteneva il 50% dei patrimoni nell’Europa occidentale; e tale percentuale è salita al 60% nel 1910, con un indice Gini stabile sopra lo 0,50. Ma dal primo dopoguerra, e fino al 1980, la disuguaglianza interna è diminuita; la concentrazione dei redditi e dei patrimoni inizia a calare; i redditi dei lavoratori sono difesi dall’iniziativa sindacale, dalla tassazione progressiva, dai sistemi di sicurezza sociale. Ed è soprattutto nel secondo dopoguerra che le istituzioni hanno la meglio sui mercati, e la disuguaglianza nei redditi e nei patrimoni scende ancora molto: nel 1950, nei maggiori Paesi europei, la quota dei patrimoni dell’1% più ricco scende al 40% del totale e la quota dei redditi dell’1% più ricco scende dal 20% del 1910 all’8%; gli indici Gini segnano lo 0,25 in Germania, nel Regno Unito, nei Paesi Bassi, e tra lo 0,32 e lo 0,36 negli Usa, in Francia e in Italia.

Un’ulteriore svolta, questa volta a favore del mercato, avviene attorno al 1980 e dura fino ad oggi. Per via della globalizzazione e dei nuovi paradigmi tecnologici la crescita dell’economia nei Paesi occidentali rallenta, la disoccupazione torna a crescere, i sindacati si indeboliscono, il dumping sociale cinese livella i salari, e la concentrazione dei redditi e dei patrimoni è tornata ad aumentare. Gli interventi dello Stato si sono ridimensionati: deregolamentazione dei rapporti di lavoro, privatizzazioni, tagli alla spesa sociale, indebolimento del welfare state. Oggi l’1% dei ricchi in Usa detiene il 20 % dei redditi, mentre in Europa la percentuale è tra il 10 e il 15%. Nei Paesi Ocse la povertà relativa è aumentata ovunque (tranne che in due Paesi, il Messico e l’Italia).

L’economia capitalistica non ha alternative, ma ha effetti negativi da combattere 

Oggi, dunque, la questione della sperequazione nella distribuzione dei redditi e dei patrimoni è di urgente attualità. Pierluigi Ciocca l’affronta con una serie di considerazioni, la prima delle quali è che non esistono alternative realistiche all’economia di mercato capitalistica, la quale si è affermata come una ineguagliabile macchina di crescita e che, per lo più, si è sviluppata unendosi alla forma democratica dell’assetto politico. Una seconda considerazione è che l’equità non è, di per sé, un freno all’economia di mercato, ma anzi, nella misura in cui evita tensioni sociali troppo forti, garantisce la stabilità del sistema; oltre al fatto che sollevare le persone dalla povertà significa contribuire allo sviluppo generale dell’economia e della società. Viceversa – e questa è una terza considerazione – la diseguaglianza, nella misura in cui tra l’altro conduce a misure fiscali correttive e dunque a un aumento delle tasse, può pregiudicare la crescita, spingendo le imprese a non investire (si è visto come l’aumento della diseguaglianza negli Usa, nel Regno Unito e nei Paesi nordici tra il 1995 e il 2005 ha ridotto di un quinto il tasso di crescita).

D’altra parte, si è anche constatato che la crescita non comporta, di per sé, una diminuzione della disuguaglianza. E qui Ciocca torna alle tre “i”, le tre connotazioni negative della crescita nell’economia di mercato capitalistica: iniquità, instabilità, inquinamento. La crescita è iniqua, perché le forze del mercato esaltano l’imprenditorialità e l’efficienza, premiando oltremisura i vincenti; è instabile, perché va incontro ai rischi dell’investimento e ai rischi finanziari (rischi in sostanza inevitabili); è inquinante, per la pressione che opera sulle risorse naturali e perché il meccanismo del profitto non mette in conto i costi delle esternalità negative. Se questo è vero, è anche vero però che la crescita stessa è essenziale per rimediare a questi aspetti negativi. Con le risorse che crea nel tempo, la crescita può contenere l’instabilità e ammortizzare le perdite provocate dalle bolle speculative; allo stesso modo, la crescita può combattere l’inquinamento creando le risorse necessarie a riparare i danni all’ambiente e a finanziare gli investimenti necessari a diversificare le fonti di energia; e la crescita è anche – dice Ciocca – la condizione primaria per contenere l’iniquità. Ed è per questo che egli ritiene sbagliata la scelta di “de-crescere”. La strada è un’altra: prendere atto che, se è vero che il mercato accentua le diseguaglianze (e tende a produrre inquinamento), le istituzioni possono, e devono, operare per correggere il funzionamento del mercato; ma lo possono fare se, al tempo stesso, l’economia è in crescita. Solo con la crescita, infatti, si può disporre delle risorse necessarie per sconfiggere la miseria e limitare la diseguaglianza.

I dati dimostrano come dal 1980 al 2018, su scala globale, tutte le classi di reddito hanno visto aumentare il loro potere d’acquisto: per la metà meno abbiente degli abitanti del pianeta, l’aumento è stato dal 60 al 120%; per i quattro decimi della popolazione con redditi intermedi, è stato del 40%; per il 9% con redditi superiori, è stato tra il 40 e l’80%; e per il rimanente 1% dei più ricchi è stato tra l’80 e il 240%. Dunque la crescita riduce, ma non elimina, la povertà; e, da sola, non corregge la disuguaglianza. Sempre nel periodo 1980-2018 la metà meno abbiente della popolazione mondiale ha percepito il 12% della crescita accumulata nel quarantennio, ma l’1% dei più ricchi ha accumulato il 27%.

Il conflitto ineliminabile tra eguaglianza ed efficienza

Dunque, l’azione dello Stato, per eliminare la povertà assoluta e ridurre le diseguaglianze, è cruciale. Ciocca, pensando all’Italia, fa un elenco di misure necessarie: una qualche forma di reddito minimo, forme migliori di protezione sociale, investimenti pubblici produttivi che limitino la disoccupazione, accesso alla buona istruzione per i giovani meno abbienti, un congruo salario minimo, norme anti-discriminazione; e facilitazioni per il credito, cura della mobilità e altro ancora.

C’è poi l’azione redistributiva, cioè l’uso della tassazione  e i trasferimenti dal bilancio pubblico per correggere la sperequazione nella distribuzione dei redditi. In Italia questa azione c’è stata: negli anni dal 1970 al 2010 l’indice di Gini dei redditi di mercato era alto (da 0,40 a 0,47), ma, con la correzione realizzata da imposte e trasferimenti, è sceso di molto, oscillando tra 0,27 e 0,30. La questione, però, è molto delicata, ammonisce Ciocca. Come dosare la progressività delle imposte sui redditi, e in particolare sui patrimoni? In un’economia di mercato capitalistica tra uguaglianza e efficienza il conflitto è ineliminabile. Si deve combattere la povertà, ma bisogna ledere il meno possibile gli incentivi e l’efficienza.  E ancora: l’eguaglianza (la riduzione dell’eguaglianza) costa; quanto, in una società, si è disposti a pagare? E va ricordato tassare per redistribuire si può, ma è più agevole farlo in un’economia in espansione. Ora, negli ultimi tempi, le economie dell’area Ocse hanno visto un rallentamento  della dinamica della produttività, e dunque un rallentamento della crescita (dal 2,8% annuo nel periodo 1994-2004 si è passati all’1,8% nel periodo 2005-2019); e in Europa la crescita è stata solo di poco più dell’1% (e la produttività ha avuto un incremento annuo poco superiore allo zero; in Italia e in Francia è addirittura scesa sotto lo zero). La pandemia ha dato un ulteriore colpo all’economia in tutto il mondo.

L’impoverimento (e le paure) della piccola e media borghesia, e la proposta (inopportuna) di Piketty

Un elemento su cui Ciocca si sofferma è la difficoltà che ha colpito in particolare la piccola e media borghesia. È la classe sociale più colpita dalla pandemia, ed è anche quella che dagli anni 80 in poi ha tratto meno benefici dallo sviluppo economico, rispetto alle categorie di reddito superiori e inferiori. Essa teme oggi di subire prelievi fiscali per arginare il debito pubblico. Come si è visto negli Usa, le classi medie impaurite sono un pericolo per la democrazia. Questo disagio delle classi medie, unito all’indebolimento dei partiti e dei corpi intermedi, sta portando a un sentimento diffuso di stanchezza, se non di insofferenza, nei confronti della democrazia, come dimostra un sondaggio fatto nel 2019, secondo cui sono insoddisfatti della democrazia il 52% degli abitanti di 34 Paesi dell’area Ocse (in Italia si è dichiarato insoddisfatto il 69%).  Ecco perché, ad un certo punto, Ciocca dice che “non poteva cadere in un momento meno felice” la proposta di Piketty, il celebre economista francese, di andare – come scrive in Capitale e ideologia (La Nave di Teseo, 2020) – “oltre l’attuale sistema capitalista e delineare i contorni di un nuovo socialismo partecipativo (…) istituendo una vera proprietà sociale del capitale grazie a una maggiore condivisione del potere nelle imprese”, e ciò tramite un prelievo annuo sul patrimonio, una tassazione delle successioni e un’imposta sul reddito spinta fino al 90%. “Si può non amare il capitalismo – commenta Ciocca –, ma metterlo a rischio quando non vi sono alternative…”.

Keynes e l’attualità di uno Stato che aumenti gli investimenti pubblici

Keynes non amava il capitalismo, ricorda Ciocca, ma, in mancanza di un sistema migliore, cercò di emendarne i difetti e di valorizzarne i pregi. Per il grande economista britannico (1883-1946) il capitalismo è affetto da instabilità, e dunque disoccupazione, e da iniquità distributiva, ed è moralmente ingiusto perché incoraggia i peggiori istinti e fa amare il denaro, cosa che Keynes considera una “malattia orrenda”; ma egli prevedeva – lo fece nel 1930 – che in cento anni il capitalismo avrebbe portato l’umanità a stare otto volte meglio di come stava allora, e avrebbe praticamente risolto per tutti (se non ci fossero state guerre né un aumento troppo forte della popolazione) il problema economico. In effetti, nonostante la seconda guerra mondiale e la quadruplicazione della popolazione del pianeta, l’aumento del Pil pro-capite nel 2030 è oggi stimato proprio di otto volte superiore a quello del 1930. Però il mondo è ancora stretto nella necessità; e dunque – osserva Ciocca – resta prioritario lo sviluppo dell’economia. E’ lo Stato che deve intervenire, come del resto raccomandava lo stesso Keynes. Deve farlo con investimenti pubblici utili alla società, e dunque con una spesa in grado di autofinanziarsi nel medio periodo, senza cioè affidarsi alla spesa corrente e a maggiori tasse. Tanto più dopo la pandemia che ha ampliato i divari retributivi sia all’interno dei Paesi avanzati sia fra i diversi Paesi. L’Unione europea, come sappiamo, ha finalmente deciso di sostenere un programma di massicci investimenti e di riforme (il Next Generation EU). Ma va tenuto conto che, negli anni precedenti, un po’ in tutto il mondo avanzato, gli investimenti strutturali erano stati tagliati dalle pubbliche amministrazioni; in Italia gli investimenti fissi erano passati dai 58 miliardi del 2009 ai 38 del 2018, penalizzando in particolare il Mezzogiorno e il sistema sanitario nazionale.

Un  welfare state ben orientato e ben finanziato può ridurre le disuguaglianze

In ultimo, Ciocca polemizza con i molti che hanno definito la pandemia un’opportunità. Lui vede invece che si tratta ora di far di tutto per tornare a sostenere la crescita, senza la quale sarà assai arduo lottare contro la povertà e contenere le disuguaglianze. Per cui le numerose proposte che in questo tempo di pandemia sono emerse da più fronti per un qualche superamento del capitalismo gli appaiono prive di senso. Oltre il rilancio della crescita, che è prioritario, e prima ancora della riduzione delle diseguaglianze, che pure è un obiettivo importante, Ciocca ritiene fonfamentale lo sforzo per eliminare la povertà assoluta, da farsi potenziando i sistemi di assistenza e di previdenza sociale e orientandoli a sottrarre alla povertà le fasce della popolazione meno abbienti. Ritiene che un welfare state ben disegnato e ben finanziato incida efficacemente sulla povertà e sulla stessa disuguaglianza (e così la pensava Federico Caffè, annota Ciocca ricordando i tanti contributi su questo tema dell’economista scomparso nel 1987). Per rafforzare il welfare servono però risorse, anche tenendo conto degli interventi necessari per l’invecchiamento della popolazione e per far fronte ai flussi migratori. Risorse che non vanno trovate dilatando i disavanzi di bilancio e che non è opportuno, oggi, per ragioni sia politiche che economiche (il riferimento è all’impoverimento e all’insofferenza delle classi medio-piccole di cui si è accennato sopra), acquisire tassando i patrimoni e le successioni, ma piuttosto contrastando davvero l’evasione e l’elusione fiscale e colpendo i paradisi fiscali..

Disuguaglianze che si possono giustificare e disuguaglianze intollerabili

Infine Ciocca suggerisce di prendere di mira “le punte della ricchezza smodata”, che giustamente esasperano gli animi delle classi meno abbienti, e non solo loro. Egli mostra, di nuovo, di pensarla come Keynes il quale riteneva che in un’economia di mercato capitalistica “una giustificazione sociale e psicologica possa darsi per diseguaglianze nei redditi e nei patrimoni anche significative, ma non per disparità ampie come quelle odierne”. E, da quando Keynes scrisse queste righe nella sua Teoria generale, sappiamo bene come quelle disparità siano aumentate di venti o trenta volte.

Sin qui il libro di Pierluigi Ciocca, la cui ricostruzione storica, ricca di dati, appare di grande interesse, e le cui tesi sono ovviamente discutibili, e anzi sono e debbono essere discusse, ma hanno certamente il pregio di una certa chiarezza argomentativa e costituiscono come un basamento solido da cui si può provare ad allontanarsi per cercare strade nuove e più radicali di rimessa in discussione dell’attuale sistema economico, sapendo però con maggior attendibilità qual è la posta in gioco.

Giampiero Forcesi

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