Ridare centralità al lavoro

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Pubblichiamo la relazione introduttiva che l’autore ha tenuto il 13 dicembre alla Casa della Cultura di Milano in occasione dell’incontro “La sinistra e i lavoratori: un problema aperto”, organizzato da Demos, i Circoli Dossetti e il Circolo De Amicis

 

 

Il problema che affrontiamo oggi è un problema serio e troppo trascurato. Si tratta del senso e del valore politico del lavoro, dell’importanza del lavoro nella società e nella politica. La sinistra, una volta, era costituita da partiti di lavoratori, anzi un tempo erano chiamati partiti operai e il titolo era appropriato. E’ esistito a Milano, alla fine dell’Ottocento un Partito, il Partito Operaio, che ammetteva l’adesione soltanto di operai.

Abbiamo, a riguardo del lavoro nella sinistra, un patrimonio storico e teorico immenso e di grande valore. I cambiamenti politici ed economici, nazionali e internazionali, intervenuti in questi decenni hanno indotto ad abbandonare concezioni e ideologie, ritenute superate, non più adeguate. Questa decisione era ed è senza dubbio giustificata. Forse però l’abbandono del patrimonio passato sarebbe potuto avvenire in modo meno sbrigativo, ma soprattutto è bene richiamare l’attenzione sul risultato finale: ieri avevamo un patrimonio solido di orientamento sul lavoro, oggi non ci è rimasto sostanzialmente nulla, non esiste più un minimo di visione condivisa del lavoro.

Così il lavoro che rivestiva un carattere politico frte, decisivo, oggi è praticamente confinato a questione privata, personale, senza più rilievo pubblico.

 

E’ vero che oggi il mondo del lavoro è estremamente diversificato, a volte addirittura atomizzato, e non vediamo più le grandi fabbriche in cui ieri era concentrata la classe operaia, una massa che costituiva una grande forza collettiva su cui contare. Ma non è che con questo sia sparito tutto, soprattutto non sono spariti i lavoratori e i loro problemi, anzi, sono aumentati sia i lavoratori sia i problemi. E i problemi si sono complicati.

Innanzitutto, i lavoratori sono un numero imponente, oltre 25 milioni in Italia (fra dipendenti e autonomi), circa 3 miliardi nel mondo. Se fossi un generale e avessi un esercito potenziale di 25 milioni mi sentirei forte, non debole. E si tratta di una moltitudine di persone che tutte, dalla prima all’ultima, dall’ultimo manovale al primo scienziato, creano valore, producono ricchezza; persone adulte, attive, soggetti che pensano e agiscono. Non abbiamo più le masse di ieri, abbiamo una moltitudine di persone: ciò significa che oggi più che sulla quantità dobbiamo puntare sulla qualità, sulle capacità e creatività delle persone.

E poi questi lavoratori sono al centro delle grandi trasformazioni che ci attraversano e di cui parliamo ogni giorno: tecnologiche, ambientali, globali. Possono svolgere un ruolo passivo, di resistenza al cambiamento, oppure esserne i sostenitori e protagonisti. Siamo entrati in un’epoca di transizione, dove questi cambiamenti si intrecciano e si accumulano tra loro e solo una valida intesa tra politica, imprese, sindacati, lavoratori può consentire al paese di affrontarla con successo. Anche perché tutte queste trasformazioni richiedono interventi politici.

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Dunque, i motivi per ridare valore politico al lavoro non mancano, ma i dubbiosi e gli oppositori obbiettano che non essendoci più la classe operaia ed essendo congiuntamente tramontata l’ideologia che la sorreggeva e che le assegnava un ruolo decisivo del cambiamento sociale, sono venute a mancare le condizioni storiche per riaffermare “politicamente” il lavoro.

 

Per affrontare questa obiezione si può scindere il problema in due parti:

  • La diversificazione e la frammentazione attuale del lavoro costituiscono una condizione materiale che non consentirebbe una visione comune, un discorso unitario della classe lavoratrice
  • Caduta l’ideologia di ieri non è più riproponibile una visione che la sostituisca, che ridia un ruolo sociale e politico al lavoro.

Sembrano possibili risposte valide per l’una e per l’altra questione, certo risposte che vanno costruite, su cui bisogna lavorare. Per quanto riguarda le considerazioni materiali, se oggi le condizioni di lavoro sono differenziate, proprio la loro molteplicità e gravità richiedono di essere affrontate e chiamano in causa direttamente più di ieri la responsabilità della politica. E’ aumentato il carattere politico dei problemi.

In secondo luogo, se è stato opportuno abbandonare le ideologie di ieri, questo di certo non significa rinunciare al pensiero: significa invece che alle idee di ieri dobbiamo sostituire delle idee nuove. E se non le abbiamo ancora elaborate, non possiamo dire non si può, rinunciare e abbandonare il campo: dobbiamo prendere atto dei nostri limiti attuali per superarli. Parlo, naturalmente, di un pensiero collettivo, che deve essere capace di superare tanti individualismi diffusi e anche il mito della società liquida, dove tutto è evanescente, non c’è nulla che tiene, ogni riferimento scompare.

Vorrei soffermarmi su questo. Siamo in un paese democratico, qualunque idea abbiamo del futuro, della società futura, certamente pensiamo a una realtà democratica. Diversa da questa, più giusta, più egualitaria, più convivale, ma sempre democratica. E la società democratica è fatta dai cittadini, se vogliamo cambiarla dobbiamo usare metodi democratici. La società di ieri l’hanno fatta delle persone, se vogliamo una società diversa tocca a noi idearla, elaborarla, costruirla. Certamente è un lavoro imponente economico, sociale, culturale, ma possibile. E’ la storia possibile, è compito dei lavoratori, della politica, della sinistra avanzare proposte di trasformazione.

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Cerco così di introdurre alcuni dei principali problemi presenti oggi nel mondo del lavoro, ma collegandoli a prospettive generali, come parte di una visione collettiva del lavoro; in altre parole, cercando di richiamare il loro significato politico.

 

1.La prima prospettiva importante è quella della dignità del lavoro. Si tratta di una condizione che in una società democratica evoluta dovrebbe essere assicurata ad ogni lavoratore. Riguarda tanti aspetti della condizione lavorativa: salario, ambiente, professionalità, possibilità di crescita.

Un principio di questa natura è sostenuto anche dall’ILO a livello mondiale (decent work), purtroppo in una forma molto tenue, trattandosi di una struttura che funziona per persuasione morale (moral suasion), a differenza di altre strutture internazionali come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, dotati di strumenti ben più potenti, quelli economici.

Sottolineo solo due aspetti. Parlerei di salario vitale, più che di salario minimo, nel senso di un salario che consenta a tutti di vivere dignitosamente. E’ molto di più del discorso attuale sul salario minimo; non è solo una battaglia legislativa e contrattuale, ma è anche una battaglia sull’economia, sul lavoro nero, su tante situazioni di arretratezza. Esistono ancora e in modo diffuso situazioni di vera disumanità: lavoratrici e lavoratori pagati 3 o 4 euro all’ora, sedicenti cooperative che mettono nella busta paga meno del dovuto, lavoratori sfruttati e umiliati in mille modi. Dobbiamo contrastare con ogni mezzo questo degrado umano.

Dovrebbe costituire una meta storica per un partito di sinistra: puntare su una società dove tutti i lavoratori abbiano una salario dignitoso. E assumere seriamente un impegno del genere nei confronti dei lavoratori dovrebbe rappresentare una base per ristabilire un rapporto di fiducia reciproca. E’ anche un pezzo della società che vogliamo costruire.

In secondo luogo, dignità significa rispetto delle persone, di ogni persona. Troppi lavoratori sono trattati in modo indegno, da condizioni umilianti o di vero sfruttamento, da discriminazioni di ogni genere, particolarmente fra gli strati più deboli, gli immigrati, ma anche le donne. (Che continuano fra l’altro ad essere sottopagate).

Recentemente è stato firmato un accordo all’ENEL che porta il titolo di “Statuto della persona”. Alcune parti sembrano scritte da un filosofo. Si tratta di un riconoscimento importante, certo in un’azienda particolare, ma che dimostra una cosa essenziale: che ormai le esigenze umane vanno al di là delle tradizionali rivendicazioni e hanno una portata culturale e civile, che deve portare a un salto di qualità dell’intero paese, che non dovrebbe più accettare condizioni non rispettose degli esseri umani.

 

 

2.Un secondo problema riguarda la formazione e la cultura. Siamo in una società sempre più complessa e dove i cambiamenti sono continui, incessanti, tanto nel lavoro quanto nella vita sociale. I requisiti cognitivi di base richiesti per accedere al lavoro, ma anche per la vita civile, sono sempre più elevati. Basta pensare alla conoscenza digitale di base e basta vedere un elenco qualsiasi di offerte di lavoro, che spesso rimangono inevase: sono richieste di persone già preparate. Ma chi le forma?

Certamente le scuole tecniche e professionali, gli ITS, ma anche le aziende dovrebbero fare di più. I contratti e gli enti bilaterali da qualche tempo affrontano il problema. Ma la dimensione è ancora inadeguata.  Occorrerebbe che i sindacati – con un appoggio legislativo – lanciassero un grande piano formativo/culturale analogo a quello che hanno fatto cinquant’anni fa con le 150 ore, con cui si è dato il titolo di Terza Media a centinaia di migliaia di lavoratori e si è creato uno stimolo culturale al di là dei temi scolastici. Parlo di un piano il più possibile aperto a tutti perché la conoscenza non sia riservata a una élite e non diventi un altro fattore di diseguaglianza, ma serva invece a saldare situazione e livelli diversi. Si tratta di un’altra battaglia di grande impatto sociale. Bruno Trentin in un lontano discorso honoris causa all’Università di Venezia (nel 2002) affermava che il futuro del lavoro è nella conoscenza. La conoscenza ha un grande valore per il singolo lavoratore, ma contemporaneamente rappresenta una grande forza collettiva.

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3.Il rapporto lavoro-vita si sta rapidamente evolvendo, anzi, si potrebbe dire che sta esplodendo. Le due cose non si identificano più. E la vita viene ritenuta giustamente come una realtà più importante del lavoro, da non sprecare in un lavoro che dice poco o niente alla persona.

E questa tendenza a volte si manifesta in modo dirompente, come nel caso della “great resignation”, la grande dimissione, migliaia e migliaia di lavoratori che lasciano il lavoro, si licenziano. L’importante è lasciare il lavoro, che non dà senso, poi si vedrà.

E’ una grande occasione per un partito attento ai lavoratori per capire che si tratta di una fenomeno di grandissimo rilievo, una vera svolta storica. E’ una critica al lavoro di tipo nuovo, esistenziale, radicale: non è la persona che deve adattarsi al lavoro, è il lavoro che dovrebbe adattarsi alla persona. Sono le persone che prendono coscienza e che si muovono autonomamente, senza organizzazione strategia, ma per un modo di sentire diffuso.

Esistono strumenti e rivendicazioni che possono in parte rispondere a queste nuove esigenze. MI riferisco, ad esempio, alla riduzione dell’orario di lavoro, non tanto in modo generale, quanto con tante rivendicazioni differenziate che tengano conto di esigenze diverse. Alcune aziende già stanno adottando la settimana di quattro giorni, ci sono casi di flessibilità oraria scelti dai lavoratori, esiste una proposta di orari a menu, esiste l’idea di una sociologa di un lavoro di 30/32 ore settimanali sia per gli uomini che per le donne, che consentirebbe poi una migliore divisione anche del lavoro domestico. E poi oggi c’è lo smart working e il lavoro da remoto, parziale o totale. Anche un sistema di welfare universale, che comprenda dipendenti e lavoratori autonomi, potrebbe costituire una risposta utile.

Senza entrare ulteriormente nel merito, possiamo dire che accanto alla forte richiesta di flessibilità da parte aziendale, si deve affermare un’analoga richiesta di flessibilità da parte dei lavoratori.

Certamente il soggetto principale di questa prospettiva deve essere il sindacato, ma essa è sorta come espressione di una coscienza collettiva, un modo di pensare comune, di cui le aziende non possono non tener conto. Questi fenomeni in atto ci dicono una cosa importante nuova: la crescita di un modo di sentire e di pensare di tante persone costituisce una forza che obbliga le aziende e le istituzioni a cambiare.

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4.In quarto luogo vorrei ricordare che i lavoratori sono dipendenti (e molti lavoratori autonomi sono in condizioni analoghe), con tutto quello che questo comporta. Vorrei anche ricordare che all’origine il movimento dei lavoratori combatteva per migliorare le proprie condizioni di lavoro, ma anche per superare questa condizione. A questa condizione generale si aggiungono poi condizioni specifiche di dipendenza delle donne, che sono lontane ancora dall’avere un pieno riconoscimento, dei giovani molti dei quali fanno un’estrema fatica ad inserirsi nel lavoro, per non parlare degli immigrati, a tutti gli effetti cittadini di serie B. (E apro una parentesi per ricordare che gli immigrati in realtà sono lavoratori immigrati e come tali dovrebbero essere considerati).

C’è oggi uno stridore evidente tra la condizione del lavoratore in azienda e la sua condizione di cittadino libero in una società democratica. Nonostante tanti anni di democrazia, i rapporti in azienda sono rimasti sostanzialmente fermi. Ora molti lavoratori, per un cambiamento della coscienza e della conoscenza, o perché sono accresciute le esigenze di espressione, sopportano con maggiore difficoltà questo rapporto. E se non trovano risposte reagiscono col disinteresse, l’apatia, il fare il meno possibile, il chiudersi individualistico. Insieme alla “great resignation” non meno rilevante è il fenomeno del “quiet quitting” (lavorare il meno possibile)

C’è quindi una grande esigenza che i lavoratori possano esprimersi maggiormente, possano contare di più per quanto attiene il proprio lavoro, le mansioni, l’organizzazione. Se l’esigenza di espressività e di libertà si manifesta con l’abbandono del lavoro, può però anche trovare una risposta in un lavoro più libero, più scelto, più dotato di senso. E’ il grande discorso della partecipazione.

Si può pensare anche a forme di partecipazione negli organismi aziendali, meglio se successive alla partecipazione diretta dei lavoratori, per non creare sovrastrutture. La partecipazione dei lavoratori è stata proposta dai sindacati confederali oltre venti anni fa, ma ha fatto pochi passi, perché richiede molto impegno, azienda per azienda, da parte dei lavoratori, ma altrettanto e ancora di più dalla parte delle imprese. Questo è il campo ideale per verificare e realizzare le possibilità di cooperazione tra le parti sociali.

Cinquant’anni fa si è segnata una grande pagina di civiltà nelle aziende con lo Statuto dei Lavoratori; oggi sta maturando l’esigenza di un nuovo passo, di un altro salto di qualità, il riconoscimento nelle aziende di una partecipazione sostanziale dei lavoratori, un passo in avanti importante per la democrazia. Il riconoscimento della capacità di ogni lavoratore riveste un importante ruolo sociale, ma un riconoscimento pubblico della loro partecipazione rivestirebbe un carattere politico enorme, un vero fatto “rivoluzionario”.

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  1. Esiste poi un grande settore, di importanza vitale, ma troppo trascurato; mi riferisco al settore sociale. Tralascio i settori sociali pubblici (scuola e sanità) che sono regolamentati, ma vorrei parlare del lavoro domestico, del lavoro riproduttivo, delle assistenti familiari, delle RSA e di buona parte del Terzo Settore, dei servizi alla persona che sono la maggior parte dei servizi; un grande campo dove prevale il lavoro femminile.

Sono settori dove i bassi, anzi bassissimi salari, sono diffusi.  I lavoratori (meglio le lavoratrici) sono pagati poco perché il lavoro è personale, di cura alla persona, che per sua natura non consente aumento di produttività. Non è un lavoro produttivo, è un lavoro sociale, un lavoro di cura. Non possiamo dunque pensare che da un miglioramento dell’economia, derivi un miglioramento di questi salari. Occorre considerare queste attività alla pari dei servizi pubblici e non in modo residuale. E’ la società che deve considerare importante il lavoro sociale e quindi riconoscergli un giusto trattamento. E ciò vale anche per il Terzo Settore, a volte considerato un utile strumento per risparmiare sul costo del lavoro, mentre merita di essere seriamente valorizzato. Indubbiamente va affrontato il tema del finanziamento: è un tema che affrontiamo poco o che risolviamo con la spesa pubblica. Innovare anche in questo campo, ad esempio con esperienze di mutualismo, che sono forme collettive, sarebbe importante.

Sul lavoro domestico, riproduttivo e di cura di familiari bisognosi, mi avvalgo del discorso di Joan Tronto, femminista americana nota peri suoi contributi sull’etica della cura, che sostiene che l’ammontare totale del carico di lavoro di cura, oggi coperto in larga misura da donne, dovrebbe essere diviso più egualmente fra tutti. Sarebbe anche un progresso democratico perché così le donne avrebbero più tempo per occuparsi anche di politica.

E’ superfluo sottolineare come nel campo sociale, la responsabilità politica sia primaria.

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@ Ho parlato di problemi del lavoro, ma esprimendo una visione politica. Non sono temi di politica del lavoro (interventi e leggi specifiche sul lavoro), ma sono temi politici tout court, perché sono rivolti a cambiare la società. Sono parte di una visione della società che vorremmo.

 

Si discute molto in questo periodo dell’identità del PD e della sua mancanza; ritengo che in mancanza della visione di una società futura, il modo più semplice e sicuro per recuperare un’identità sia quello di esprimere le nostre idee su alcuni temi essenziali (ambiente, pace, economia globale,..) ma con una prospettiva rivolta al futuro, cioè in una prospettiva di medio periodo.. Uno di questi temi essenziali è il lavoro, su cui cerchiamo di dare il nostro contributo, ma chiaramente non è l’unico. Non proponiamo un partito del lavoro, proponiamo di dare centralità al lavoro, ma non un’esclusività.

 

Alcuni di voi avranno letto il documento laburista firmato da Bentivogli, Ceccanti, Tonini .. Sono amici che hanno colto il problema e hanno scritto un documento di politica del lavoro. In questo documento ci sono proposte sicuramente da considerare, ma rischia di essere fuorviante e di riportarci alla logica abituale. Non si tratta solo di rivedere la nostra politica del lavoro, ciò di cui abbiamo bisogno è un partito che abbia nel suo DNA il lavoro. Non si può fare una politica del lavoro, se il partito non ha una coscienza adeguata del lavoro nella sua cultura. E non dimentichiamo che alla caduta dell’importanza del lavoro, ha corrisposto una perdita di influenza della sinistra.

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Cosa dovrebbe fare il partito.

  1. Innanzitutto, esprimere un documento fondamentale (penso ai documenti fondamentali della SPD, come ad esempio quello di Bad Godesberg) in questo o in un altro Congresso. A livello locale ci proponiamo di presentare una Mozione, firmata da un certo numero di Circoli. Per questo raccoglieremo i contributi di oggi, formiamo un gruppo redazionale e successivamente promuoviamo un secondo incontro oppure invieremo a tutti una bozza di mozione in modo da raccogliere possibili modifiche. Naturalmente più Circoli coinvolgiamo, più il discorso avrà valore.
  2. In secondo luogo, il partito deve rappresentare i lavoratori, rappresentarli, non organizzarli. I lavoratori sono organizzati dal sindacato, noi dobbiamo rappresentarli, il che significa essere un partito che ha nella sua coscienza collettiva il problema del lavoro, che ha una presenza significativa di lavoratori nelle sue fila, che dimostra quotidianamente con la propria azione e il proprio modo di essere che cosa sostiene e da che parte sta. Anche atti simbolici e dimostrativi a riguardo possono essere importanti. Possiamo imparare in questo dai populisti, che con pochi gesti e proclami (l’attacco agli immigrati, il reddito di cittadinanza) conquistano il loro elettorato. Noi dobbiamo essere in grado di produrre atti significativi che riguardino il lavoro.
  3. In terzo luogo, occorre essere presenti fra i lavoratori. Là dove non ci sono le forze sufficienti a livello di circolo, si opera a livello di zona, realizzando dei gruppi di lavoro che si impegnano su questo. Non gruppi di studio: gruppi di pensiero e di azione.
  4. Occorre tenere un rapporto costante, permanente, con le organizzazioni sindacali, in forma unitaria e non solo su problemi contingenti, ma soprattutto confrontandosi sulle prospettive, sui grandi problemi (ad esempio, promuovendo un seminario annuale su una questione). Occorre lavorare autonomamente, ma parallelamente. Si tratta di un rapporto tra organizzazioni indipendenti, dove il partito deve esprimere le proprie opinioni, che possono anche divergere da quelle sindacali (ad esempio il partito potrebbe esprimersi a favore dell’unità sindacale).

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Veniamo alle conclusioni. Ci sarebbero molti altri problemi da affrontare, sociali, culturali, relazionali, di cui almeno uno essenziale, quello dell’economia. E’ evidente che non possiamo pensare di risolvere i problemi del lavoro senza un buon sviluppo dell’economia; il che significa affrontare problemi strutturali del nostro sistema: la presenza diffusa di piccolissime aziende a carattere familiare, la bassa produttività, l’arretratezza tecnologica e organizzativa di metà delle aziende, i ritardi del Sud e così via. Sta cambiando rapidamente anche il ruolo dello Stato e della politica nell’economia: le sfide energetiche, delle risorse strategiche, della transizione carbon-free, dei cambiamenti climatici, stanno mettendo in discussione profondamente la globalizzazione per come è avvenuta e il rapporto tra pubblico e privato nell’economia.

Il mondo del lavoro è dunque profondamente interessato a uno sviluppo che sia sostenibile. Possiamo avere critiche sul capitalismo, ma una cosa diversa sono le imprese. Il mondo del lavoro deve ricercare un’intesa col mondo delle imprese, purché non sfruttino, e abbiamo un comportamento rispettoso sia dei diritti umani e sociali, sia dell’ambiente.

Enormi sono i problemi da affrontare in un’economia mondiale dove sono presenti colossi enormi, sia le multinazionali sia le grandi potenze economiche, di fronte a cui rischiamo la fine dei vasi di coccio. La concorrenza internazionale è una concorrenza sfrenata al ribasso estremo, “race to bottom”, causa prima del deterioramento generale delle condizioni di lavoro, non solo nel nostro paese, ma in tutto l’Occidente.

E’ una battaglia dalle dimensioni gigantesche e abbiamo bisogno di tutte le forse disponibili per poterla affrontare con speranza di successo; per questo realizzare una seria cooperazione con le imprese, su una base di rapporti chiari, costituisce una necessità. Se non riusciamo ad affrontare seriamente questa situazione, il rischio è che la forza di una concorrenza senza regole proceda progressivamente accrescendo le condizioni di lavoro fragili e precarie, a volte realmente servili.

La posta in gioco è molto alta e decisiva. Per questo i lavoratori devono essere preparati e coscienti e avvertire che non sono tanti atomi, singoli, isolati, ma una realtà collettiva, un movimento del lavoro che può esprimere una forza reale sia nel difendere le proprie condizioni sia nel migliorare la società. Il partito deve ritornare a rappresentare i lavoratori, deve essere per loro un punto di riferimento, una guida sicura in mezzo alle traversie del tempo presente. E’ questa una funzione essenziale, primaria, che il partito garantire.

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Troppi lavoratori comuni, operai, manovali, muratori, lavoratori delle pulizie (la categoria più numerosa), lavoratori dei servizi e delle cooperative, si sentono trascurati, abbandonati. E d’altra parte abbiamo tanti lavoratori qualificati, tecnici, professionisti, ricercatori che fanno parte di settori avanzati, spesso internazionalizzati, che costituiscono una speranza per il nostro futuro. Per entrambi, per tutti i lavoratori, la nostra prospettiva, deve essere ambiziosa; il popolo, la gente, non si muove senza prospettiva.

Un partito di sinistra guarda alla società con l’idea di cambiarla, di trasformarla, questo è il suo compito, la sua missione. Non possiamo limitarci a rispondere ai problemi che man mano si presentano (ieri la pandemia, oggi la guerra in Ucraina con le sue conseguenze): dobbiamo avere un’idea di cambiamento, delle idee concrete della società che intendiamo realizzare.

La democrazia non è un sistema statico, un punto d’arrivo: è una realtà dinamica, che si può e si deve cambiare. Una volta si parlava di democrazia progressiva; non intendo riandare a cose passate, intendo dire che è giusto pensare a una democrazia più avanzata, più sostanziale. Anche perché, se non ci si batte per una democrazia migliore, la democrazia non sta ferma, va indietro ed è ciò che in parte sta già avvenendo e può avvenire.

Per questo il partito deve ritornare ad avere una base sociale, deve ritornare a rappresentare i lavoratori.  Per fare una legge basta il Parlamento, per cambiare la società occorre una forza sociale nel paese. Lavoro e democrazia sono strettamente intrecciati, quindi riportare il lavoro al centro del nostro partito è un modo per renderlo più forte e più all’altezza di condurre le battaglie necessarie allo sviluppo della democrazia nel nostro paese.

 

Sandro Antoniazzi

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