Per una politica nuova. Da dove partire? Qualche suggerimento

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«È illusorio pensare di rivolgersi indistintamente a un pubblico cattolico; l’individualismo, la mancanza di coesione sociale, la superficialità con cui si aderisce a questo o a quel richiamo politico, l’attuale assoluta mancanza di ogni formazione politica, richiedono una paziente opera ricostruttiva che non può che partire dal basso. Si parte da lì per risalire e porsi i problemi ai livelli più alti, che non vanno dimenticati, ma che al momento possiamo solo seguire e stimolare».

Tenendo conto di questo scenario certo non esaltante, disegnato nel testo base di questa discussione, provo ad avanzare, in punta di penna, alcune considerazioni che pongono un obiettivo. D’accordo, superiamo quella annosa e ormai vetusta distinzione tra cattolici sociali e cattolici democratici. E superiamola perché non ha più senso nella logica delle cose, visto che molte delle questioni sociali (lavoro, salute, formazione scolastica, accoglienza degli immigrati e cittadinanza, tutela dell’ambiente, ecc.) si traducono, alla prova dei fatti, in norme, regole, istituzioni, provvedimenti, sui quali, almeno un po’ di tempo fa, i cattolici cosiddetti democratici erano meglio “predisposti”, o attrezzati, perché nel loro sapere di base (il know how) trovavano fertili riferimenti al passato.

E superiamola provando a fare un bel passo in avanti. Non un semplice disconoscimento della differenza, né una fusione pura e semplice. Bensì una sintesi che generi un qualcosa di più avanzato e più ricco dei due genitori, come spesso accade alla generatività biologica.

Le questioni centrali sono di carattere misto. Di certo appare più urgente e pressante quella legata al lavoro e alla difficoltà, per molti, di unire il pranzo con la cena. Ma se anche scelte sagge dovessero risolvere questi problemi, o quantomeno attenuarne l’impatto devastante dovuto all’assenza prolungata di rimedi ai drammi, ecco, temo che non avremmo comunque evitato un costante logoramento della democrazia presso l’opinione comune che, a conti fatti, mette a repentaglio qualsiasi scelta duratura di concreta vivibilità. In estrema sintesi: dove si poggia, oggi, la centralità di una difesa della democrazia atta a renderla il quadro più congruo per opportune scelte di politica economica e sociale? Potremmo dire che sta nella convinzione radicata che le scelte collettive, maturate in ragionevoli periodi di tempo e in modo trasparente, affiderebbero il potere di amministrare a chi è capace di tradurre in atti efficaci ed efficienti le risposte alle situazioni problematiche. Tutto ciò è ormai palesemente smentito dalla situazione vigente nonché dai fatti. E per diverse ragioni: a) le scelte della rappresentanza classica delle democrazie sono determinate in altri contesti che non confidano più nel circuito tradizionale di comunicazione/consenso/voto/rappresentanza; b) i poteri sono distribuiti (e forti) sempre più “altrove” e non nelle sedi istituzionali, ma spesso in altre occulte e imperscrutabili; c) il potere di corruzione non è stato intaccato; d) i problemi si fanno sempre più internazionali e non bastano affatto provvedimenti locali; e) il potere dei media di “autopromozione di massa” (M. Castells) è oramai capace di scardinare anche convinzioni consolidate o – viceversa – di strutturarne altre finora inimmaginate; f) il potere della tecnica ha ormai imposto tempi, scelte e dinamiche ovunque; g) il potere della finanza ha reso critica la gestione della cosiddetta “economia reale”. E non sono solo questi i “nemici” della democrazia.

Di fronte a questo scenario, credo che non bastino solo analisi dettagliate e intuizioni politiche; occorrono pratiche, immersioni nel quotidiano, carne e sudore, scarpe logore e mani compromesse. Per questo, non sono d’accordo nel ritenere che «il cattolicesimo italiano è fermo; perde dei pezzi e perde di significanza, ma, essendo tuttora diffuso, non avverte a sufficienza l’esigenza del cambiamento». È a mio avviso una delle principali, non certo l’unica, risorsa vera e disponibile, “pronto uso”, di questo paese. Migliaia di realtà e milioni di cittadini volontari, che non fanno solo opera di assistenza (ma dire “solo”, è ingiusto). Bene. È in corso d’opera, forse sottotraccia, una profonda trasformazione di ripensamento. Ma fatta a pezzi, a isole, senza un disegno comune, che si compiace spesso del lavoro che si fa sul territorio (che come ogni territorio ha – per forza di cose – una visione parziale) e che però trascura il quadro d’insieme (per la serie: rispondo alle esigenze di chi ha fame a non mi preoccupo di capire e quindi di risolvere il fatto generatore della sua fame…). Per fare questo lavoro, perciò, è utile la comunità di chi pensa e ha qualche possibilità di studiare e disegnare o tracciare, come dice questo “Appunto”, strategie più generali per una cultura politica nuova.

Propongo un percorso, a partire da quattro pilastri, come si conviene ad uno stabile che abbia l’ambizione di rimanere ben piantato a lungo. E sono pilastri che stanno nel Dna delle comunità cattoliche, non fosse altro per il riconoscimento dovuto al Maestro fondatore. E che bisogna riprendere in mano e rigenerare nell’interesse della collettività. Con un po’ di coraggio, forse, e senza cedere il passo ad un pervasivo e opprimente scetticismo generale.

La capacità di contribuire a governare i conflitti

Saranno sempre più intensi, diffusi, immediati e brucianti. Per diverse ragioni, con diversi soggetti in campo e soluzioni sempre più complicate da trovare. I danni che rischiano di produrre, in alcuni casi, sono devastanti e duraturi. Il ruolo di soggetti (le comunità cattoliche?) trasparenti, non interessati, spesso non di parte e capaci di affrontare le dinamiche con la pratica della non-violenza e il valore acquisito della mediazione, sarà condizione ineludibile per tener in vita la pacificazione di luoghi e ambienti, che non si limiti all’assenza di guerra, ma, nel riconoscimento di diritti e soprusi, sappia trovare posizioni più avanzate, efficaci e durature.

La riabilitazione dei linguaggi

Le parole formattano la mente; reiterate e strategicamente utilizzate (nel bene, come nel male), condizionano pensieri, azioni e comportamenti. Lo abbiamo percepito con forza nei giorni tristi del lockdown. Si può pensare che coloro che si dicono “figli della Parola” siano artefici di una rigenerazione costante e continua del corretto uso della parola e dei linguaggi che ne nascono? E, di conseguenza, delle narrazioni che si producono, senza le quali, lo sappiamo oramai bene – purtroppo –, non c’è nessun disegno politico capace di affermarsi e durare.

La pratica della democrazia

Però la democrazia non ha più tempo di fermarsi alle parole che la definiscono e in qualche modo la circoscrivono: diretta, partecipativa, rappresentativa, deliberativa… e così via. Ha bisogno invece di autoprogettarsi, ridisegnandosi “alla grande”. Non bastano progetti minimalisti di rattoppo di buchi e strappi. Bisogna che siamo noi, cioè chi ci crede realmente ed è disposto a sacrifici, a pause d’attesa, ad un lungo lavorio d’ascolto e di seria esercitazione e formazione alla cittadinanza, a progettare e favorire un disegno di allargamento radicale della partecipazione. Spaventati da fallimenti evidenti di democrazia diretta (che non è la deliberativa e/o partecipativa e che, anzi, di questa la prima ne camuffa spesso la reale portata, fingendo libere consultazioni poi puntualmente tradite nei risultati), noi cattolici siamo diventati prudenti, razionalisti, pieni di dubbi e di condizionamenti. Così, se anche volessimo difendere quella rappresentativa, ovviamente non abbattuta ma rinnovata dalla partecipata, finiremmo inevitabilmente, passo dopo passo indietro, a segnare la fine dell’una e dell’altra sotto un discredito generale. Proviamo, invece, a cogliere l’occasione di questo obbligato e accelerato sviluppo generale delle competenze digitali e prendiamo la “palla al balzo” per definire un Design (sì, al pari dell’estetica delle cose, la progettazione della democrazia può avere una “sua estetica” affascinante) innovativo e inclusivo. Ci vorrà tempo. E allora?

La costituzione di Reti

Da soli non si va da nessuna parte, e per quanto il distanziamento (fisico o sociale che sia) ci verrà ancora imposto per molto tempo ancora, la filosofia di fondo vincente sarà quella di creare connessioni, relazioni, rapporti strutturati e solidi, infrastrutture umane che possano durare nel tempo e generare nuovi approcci, sviluppi, frutti. «Partire dal livello locale vuol dire partire dalla gente, con la gente, e dai loro problemi», si legge nel documento. Bene. Significa anche «poter fare esperienze nuove di politica che cambino e rinnovino gli attuali partiti e il modo di fare politica che non è più adeguato». Di più, significa molto di più: stare dalla parte della gente è dimostrare che nella condivisione strategica e non occasionale si ottengono risultati importanti. Lo dimostrano alleanze come “l’Alleanza contro la Povertà”; “Le città del ben-vivere”, con il Manifesto programmatico dell’Economia civile per le amministrazioni locali; il “Patto tra le città per l’immaginazione civica e la cura condivisa dei beni comuni”; chiudiamolaforbice.it, campagna per sensibilizzare e informare sulle interconnessioni tra diseguaglianze, diritto al cibo, migrazioni, conflitti, ambiente e finanza; mettiamociingioco.org, contro i rischi del gioco d’azzardo; Libera, contro le mafie; e altre, molte altre. Da lievito, sullo sfondo o in presa diretta, le comunità cattoliche possono essere generatrici di realtà simili, fecondarle, o sostenerle e farle durare, dando loro spazio, voce, continuità, organizzazione e, perché no, sedi e strutture laddove ve ne fosse bisogno.

 

Quattro assi direzionali, quattro basi, che andrebbero poste, infine, all’interno di un sistema articolato come è quella grande, visionaria e insieme concreta, alleanza di oltre 270 tra le più importanti istituzioni e reti della società civile, nata il 3 febbraio del 2016: che è l’Asvis, Alleanza italiana per lo sviluppo Sostenibile, “Per dare un futuro alla vita e valore al futuro”, applicazione concreta di tante idee e proposte di papa Francesco, con i suoi 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals – SDGs nell’acronimo inglese), articolati in 169 target (obiettivi parziali) da raggiungere entro il 2030. È un evento storico, sotto diversi punti di vista. Che noi cattolici non possiamo permetterci di accogliere con tiepida sufficienza, nella malcelata accettazione dell’adagio (letterale) che “ne abbiamo viste tante”, e che “in fondo il mondo è così e non possiamo cambiarlo”.

Sono suggerimenti di metodo più che di merito. Che hanno bisogno di fiducia, passione, coraggio, convinzione, per diventare azione fruttuosa. E se non riconvertiamo prima le nostre menti e i nostri cuori, davvero, la strada verso la “perdita di significanza” sarà ancora più ampia e battuta.

 

Vittorio Sammarco

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