Per discutere l’asse politico del Pd e del governo

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Il dibattito in corso sull’indirizzo politico del Pd e del governo è molto vivace e interessante. Aspro e anche puntuto, come forse conviene di fronte ai momenti importanti. L’abbiamo rilanciato anche tra di noi su questo portale e con il seminario di sabato 11 (vedi notizia apposita). Tentando di dare un contributo, vorrei isolarne solo un aspetto, che capisco sia collegato con altri, ma che ha una sua originalità: a me premerebbe primariamente discutere della qualificazione e dalla collocazione del Pd, partito perno del centro-sinistra, definitivamente omologato alla linea della sinistra europea di governo (socialdemocratica, se vogliamo usare questa etichetta parziale). Non si tratta quindi di riprendere immagini come quella del partito «a vocazione maggioritaria», oppure del «partito della nazione» o di una presunta deriva centrista. Ma piuttosto del complesso delle scelte simboliche e programmatiche che identificano l’asse politico del partito. Come possiamo oggi definire questo asse politico? Si usa spesso l’espressione «riformismo», intesa in senso molto liberale, che punta legittimamente a ottenere consensi al centro, anche in quei ceti e in quegli ambienti sociali legati alla competizione di mercato che la sinistra italiana ha sempre fatto fatica a rappresentare. Però, mi chiedo, è sufficiente indicare questo tipo di orientamento per risolvere i problemi?

Non è che abbiamo a che fare con una novità assoluta. A me pare che Renzi stia portando a sistema e in qualche modo rigorizzando (con alcune sottolineature personali, oltre che con una sensibilità e un’attitudine comunicativa propria della sua generazione, che può piacere o meno) una linea politica essenziale che non è affatto nuova. Potremmo identificarla grosso modo con la linea di tutte le sinistre di governo delle democrazie mature, che negli ultimi trenta/quarant’anni hanno avuto a che fare con il ciclo politico-economico della globalizzazione finanziaria, succeduto al ciclo fordista-keynesiano. L’approccio «riformista» ha preso atto dell’impossibilità di contrastare questa dinamica oggettivamente prorompente (per varie ragioni che sarebbero da approfondire), e ha tentato quindi di governarla e moderarla, incanalandola in una certa salvaguardia dell’equità e dell’equilibrio sociale. Scontando anche una tendenza alla verticalizzazione e personalizzazione della politica, che è stata il riflesso complementare di quella stagione, proprio per la frammentazione sociale e l’esasperazione degli individualismi. Naturalmente, in ogni paese e in ogni fase si sono perseguite varianti diverse di questo approccio complessivo. Ormai sarebbe anche un bel tema storiografico cercare di capire se i diversi attori e i diversi partiti siano riusciti o meno nel proprio intento; ma non vorrei qui discutere questo.

Il punto è che oggi mi sembra che la fase storica sia ormai sensibilmente diversa. La crisi sistemica odierna è propriamente nata come crisi della globalizzazione finanziarizzata, e quindi sono in atto percorsi di vario tipo di ridefinizione degli equilibri e di ricerca di un nuovo modello per fare i conti con quello che non funziona più (si pensi ai temi della regolazione della finanza, della scarsità di investimenti produttivi, dei paradossi dell’austerità di bilancio, della fatica del capitalismo a riprodurre lavoro). Certo, l’uscita dalla crisi è tutt’altro che vicina e nessun nuovo modello è già bell’e pronto alle porte. Però, se vogliamo azzardare una tendenza, sembra che si stia andando verso una stagione in cui la preconizzata fine degli Stati sovrani è stata del tutto smentita, e anzi lo Stato è ritornato prepotentemente sulla scena (si pensi all’enormità finanziaria del bailout di Obama o alla capacità del governo cinese di gestire la straordinaria crescita dell’economia di un paese-continente).

Allora, qui si pone un problema. Siamo sicuri che sia sensato continuare a gestire la mediazione politica sui consueti registri, rischiando di non cogliere problemi che si stanno spostando? E se un partito come il Pd continua a inclinare nella direzione ormai canonica, non ci sono aperti spazi enormi per una ridiscussione del suo asse politico? Questo vale sia per una sinistra esterna al partito, sia per una discussione interna. Per quanto riguarda la sinistra fuori del Pd, in Italia la situazione è resa complessa dall’intrecciarsi alla frattura destra-sinistra di quella più radicale tra sistema politico e contestazione integrale della classe politica. Ma sono in corso evidentemente vari processi, forse anche innovativi.

A me parrebbe comunque che anche dentro al Pd ci sia spazio per avviare una grande discussione attorno a questi temi, oltre l’attuale stallo tra maggioranza e opposizione, che appare un poco riduttivo. La necessità di evitare la retorica dello Stato minimo comporterebbe tutt’altro che ripetere un vecchio statalismo della spesa per la spesa (è chiaro che l’Italia non se lo potrebbe nemmeno permettere). Piuttosto, il rilancio selettivo e innovativo di un ruolo dello Stato capace di affrontare nuovi problemi: il controllo delle dinamiche finanziarie, una politica industriale originale ed attiva, un serio antitrust e una normativa articolata sul conflitto d’interessi, politiche di inclusione e redistribuzione fiscale più accentuata, una politica di difesa sobria e di mediazione attiva nei conflitti, il sostegno a meccanismi di partecipazione e responsabilizzazione, una sponda modernizzatrice per le rappresentanze sociali piuttosto che non il loro semplice ridimensionamento, il ripensamento delle politiche per la cultura e la promozione dell’italian way of life «buono pulito e giusto». C’è una prateria di questioni da riprendere, contrapponendole alla sola idea della riduzione della fiscalità e del dimagrimento della pubblica amministrazione.

Naturalmente, si tratta di una linea di pensiero che non può che trovare il suo completamento e il suo inveramento ultimo in una seria politica europeista. Renzi ha fatto bene a negoziare allentamenti dell’austerità (per ora modesti, anche se la dialettica con Draghi sembra funzionare). Ma il vero passaggio successivo è immaginare un grande rilancio della costruzione di una forma di statualità vera a livello europeo (quale che sia, per carità, senza schematismi ideologici, basta che funzioni…). In un mondo di giganti, nessuno dei vecchi Stati nazionali europei è all’altezza della situazione da solo. Che si aprisse nel partito una dialettica su questi temi a me convincerebbe molto di più rispetto alle schermaglie attuali.

 

Guido Formigoni

 

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  1. Concordo in pieno. Nella costruzione del Pd e soprattutto nelle dinamiche interne di potere l’appello alle rispettive tradizioni ( spesso strumentale e polemico) ha offuscato l’esigenza di analisi e proposta di orizzonti di equità relativi a nuove fratture e storture e quindi a nuovi contenuti programmatici.
    “Dì qualcosa di sinistra” è stato declinato come bandiera nostalgica e acritica anzichè come domanda che interrogava prima di tutto su quali fossero i contenuti dell’essere di sinsitra.

    Nel Pd oggi c’è una temperatura altissima relativa a scontri sul posizionamento, ma scarsamente leggibili e coerenti sui contenuti. Tanto si è che mentre il job act che tocca temi socialmente centrali e che veniva criticato ferocemente dalla minoranza poi è scivolato via senza troppi intoppi lo scontro all’ultimo sangue avviene sulla legge elettorale che ha un immediato e deciso effetto sulla classse politica del partito.

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