La traiettoria dell’economia circolare nel disegno del Green New Deal

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L’economia circolare è un paradigma irrinunciabile per garantire competitività al sistema economico e sostenibilità all’ecosistema dinnanzi alle sfide globali del climate change e della ripresa dell’Unione dopo l’emergenza sanitaria. La transizione verso la circolarità ha bisogno, e tende a promuoverli, di settori di lavoro ad alta intensità e qualificazione, con un impatto positivo sull’occupazione sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. 

 

 

Secondo quali percorsi e strategie il nostro Paese potrà riemergere dalla crisi pandemica e guardare con fiducia al futuro? Sicuramente un terreno obbligato è quello di consolidare e diffondere il modello di sviluppo che già ci vede vincenti su alcuni fronti, ossia quello dell’economia circolare. Il vantaggio competitivo dell’Italia proprio nell’ambito del design industriale giustifica infatti la sua collocazione al primo posto nel Rapporto per l’economia circolare anche nel 2021 e nel Rapporto Greenitaly di Symbola-Unioncamere per il design, la sostenibilità nell’agricoltura e il legno d’arredo nel riutilizzo circolare.

Nella traiettoria del Green New Deal europeo, che assume quali snodi centrali la transizione ecologica e digitale, è fondamentale la questione dell’economia circolare quale paradigma economico irrinunciabile per garantire competitività al sistema economico e sostenibilità all’ecosistema dinnanzi alle sfide globali del climate change e della ripresa dell’Unione dopo l’emergenza sanitaria.

Il disegno tratteggiato dal Green New Deal conferma, nel complesso, l’inquadramento concettuale del nuovo modello di sviluppo in una traiettoria molto più estesa della mera gestione dei rifiuti per assumerlo quale tassello fondamentale della Strategia industriale europea, utile a generare valore e ad attrarre investimenti. Viene dunque riaffermato come l’economia circolare investa l’intero processo industriale di progettazione e di produzione di beni e interessi dunque tutte le filiere della produzione, fin dalla selezione delle materie prime, scelte in virtù del loro possibile riutilizzo. La progettazione di beni che si pongano compiutamente nel segno della durabilità e della riparabilità rappresenta infatti, a monte, la vera cifra per il successo del nostro Paese nella sua implementazione.

Il tema dell’insostenibilità del modello lineare, caratterizzato dalla nota sequenza: «Take, make, dispose» (prendi, consuma e getta), non è certo nuovo, né appare dunque del tutto originale l’accento posto di recente, da un autorevole gruppo di studiosi, nella rivista Bioscienze del 2017, sulla conseguente necessità di ripensare i rapporti fra economia e ambiente.

Fin dal Rapporto del 1972 su «I limiti allo sviluppo», commissionato al Massachusetts Institute of Technology dal Club di Roma, l’urgenza di ripensare il modello di sviluppo veniva fondato sul timore di un esaurimento delle risorse naturali e sulla conseguente necessità di preservarne i livelli ecologici minimi. A ben vedere si trattava di una proposta di revisione che, pur evocando i limiti del modello lineare, si muoveva tuttavia all’interno della sua stessa logica e razionalità, che a dire il vero non veniva del tutto sconfessata.

In realtà gli studi di settore sono oggi univoci nell’affermare che il rischio di insostenibilità del sistema non consiste tanto nell’esaurimento delle risorse naturali non rinnovabili, almeno nel breve periodo. La relativa criticità consiste, piuttosto, nella pressione derivante dalla crescente domanda di materie prime, non bilanciata dalla presenza di risorse facilmente accessibili che non pongano problemi sul versante della sicurezza geopolitica.

La prospettiva appare dunque quella, logicamente differente, di una ridefinizione del modo di progettazione e di produzione industriale che in qualche misura renda superflua la stessa evocazione dell’ambiente quale limite allo sviluppo industriale poiché ne è in qualche modo alternativa. Il tema dell’esaurimento del capitale naturale viene in effetti accantonato dall’individuazione di soluzioni tecniche tali da consentirne un utilizzo senza sprechi né dispersioni.

La logica pertanto è quella di un modello in cui le istanze ambientali, integrate nella ridefinizione stessa del processo industriale, convergano e non si contrappongano a quelle correlate alla competitività economica e all’occupazione. In tale prospettiva non solo tali istanze non si configurano quali limiti allo sviluppo industriale ma divengono dei veri e propri driver del progresso economico e sociale.

La transizione verso la circolarità si caratterizza, dunque, quale passaggio fondamentale verso un’eco-innovazione di processo e di prodotto, di nuovi programmi di ricerca e sviluppo, di un’accelerazione del progresso tecnologico.

L’affermarsi del nuovo modello, infatti, è alimentato da (e può accrescere a sua volta) la disponibilità di maggiori posti di lavoro. Per implementare l’economia circolare servono settori ad alta intensità e qualificazione che porteranno le aziende ad incrementare l’offerta di lavoro con un impatto positivo sull’occupazione sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo.

Le nuove professioni e competenze green e circular, come mostra il già citato Rapporto Greenitaly di Symbola-Unioncamere, si sono caratterizzate nel nostro Paese per un elevato livello scolastico e professionale degli occupati, nonché per una maggiore stabilità del rapporto di lavoro rispetto alle occupazioni tradizionali.

Più competitività, occupazione e, al tempo stesso, minore impatto ambientale del processo industriale sono le carte vincenti che l’Italia potrà giocare nel poker d’assi che si giocherà nella fase della ricostruzione del Paese dopo la crisi sanitaria. Speriamo che la classe politica sia in grado di coglierla e rilanciarla.

 

Monica Cocconi

(docente di Diritto amministrativo all’Università di Parma)

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