La crisi italiana e il suo futuro nella lettura di Lucrezia Reichlin e in quella di Alfredo Reichlin

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Padre e figlia a confronto. Lo stesso giorno, 11 dicembre. La prima sul “Corriere della Sera”, il secondo su “l’Unità”. Più disincantata la prima, ma simili entrambi nello scavare dentro le cose e nel percepire l’assoluta necessità di riaccendere la fiducia e la voglia di cambiare dei cittadini. D’accordo entrambi con De Rita dell’ultimo Rapporto Censis: il popolo italiano resiste “ma non è ancora scattata la magia dello sviluppo fatto da governo e popolo”. Prima pagina del Corsera: “Vizi e difetti che evitiamo di guardare (e risolvere)”. “La crisi del nostro Paese – scrive Lucrezia Reichlin, che è docente di Economia alla London Business School, direttore non esecutivo e membro del comitato di rischio dell’Unicredit Banking – ha radici lontane e tutte italiane”. Quindici anni di stagnazione, poi cinque di declini. Venti anni: “Questo è un fatto unico nelle economie del dopoguerra”. “Un Paese che ristagna o si contrae per vent’anni e che si tiene insieme grazie all’effimero effetto del debito pubblico fa fatica a trovare la forza per cambiare (…) perché tutta la societàè diventata restia al cambiamento, diffida di chi è diverso da sé (…); non capisce né approva il messaggio dell’urgenza del cambiamento…”. Ricetta: “Senza riscoprire una energia radicale e innovatrice in noi stessi e senza la mobilitazione di soggetti che credano all’urgenza del cambiamento e aprano un rapporto creativo tra governo e governati abbiamo di fronte a noi un declino”. Alfredo Reichlin, anziano dirigente del Pci, su “l’Unità”, Il partito della nazione, scrive: “Io parto dall’idea che, dopo le distruzioni di tessuto produttivo compiute dall’oligarchia finanziaria dominante, non si tornerà al vecchio modello keinesiano e industrialista. Per pensare l’Italia e governarla bisognerà far leva sulla formazione di un nuovo tessuto sociale che dia spazio alle forse creatrici del lavoro, della cultura e di quella capacità italiana di fare impresa che è una cosa unica al mondo. Ecco perché bisogna mettere in campo un partito più aperto, più inclusivo, che faccia più da collante della società. Ridare voce alla società come luogo delle relazioni e non somma degli individui. Restituire agli uomini la possibilità di impadronirsi delle proprie vite. Io penso (…)”.

 

 

 

 

 

 

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  1. Allora furono compiute scelte che sono alla fonte della crisi attuale. Furono scente non solo economiche , ma che definirono una precisa – e dura – gerarchia sociale. Lo si volesse o no, lo si dicesse o no ( e in parte è stato anche detto), la concentrazione selvaggia di risorse umane e materiali su quello che chiamo per brevità il ” modello Fiat “, segno la collocazione subordinatadi tutto un settore della vita italiana quale l’agricoltura, definìla sorte di interi territorie fasce sociali. Non furono soltanto gli operai dentro le fabbriche a pagare. Il colpo al Mezzogiorno e alle campagne venne dato allora. E molte questioni che oggi ci affannano e sono divenute addirittura di modo – l’urbanesimo esasperato, l’incontrollabilità e i costi delle grandi aree metropolitane, la congestione assurda in ristrette fasce di pianura, il guasto ecologico – ebbero il loro punto di partenza nelle decisioni che vennero prese a cavallo degli anni quaranta e gli anni cinquanta.” Pietro Ingrao – Masse e Potere editori riuniti 1977 – pag 11

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