Tornare a governare pacificamente il conflitto

| 0 comments

Credo che pochissimi, forse nessuno, della mia generazione, possa riconoscersi (e sostanzialmente dunque collocarsi) nella politica di oggi, in particolare di sinistra, avvertendone senso e ragioni. Ho cercato di capire perché, e naturalmente tutto potrebbe essere viziato dai miei condizionamenti. Ma mi sembra non del tutto infondata un’ipotesi che può forse essere utile proporre alla comune riflessione, anche se lo farò entro una contestabilissima semplificazione descrittiva dei fatti (al limite del ridicolo), proprio perché qualcuno,  più lucido di me, mi aiuti a chiarirla meglio.

Si tratta di questo. Consapevolmente o meno, con più forza e coerenza o meno, la generazione uscita dalla seconda guerra mondiale  ha avvertito e vissuto la lezione che ne veniva: il dovere di cambiare gli equilibri del mondo, la spartizione dei diritti e dei poteri.  In questo obiettivo si sono mischiate, sovrapposte, contrapposte due diverse istanze: quella della lotta, della rivoluzione, del conflitto (nettamente maggioritaria), e quella della regolazione pacifica dei conflitti, del rapporto essenziale che questa ha con la tenuta della democrazia di governo (tesi nettamente minoritaria). C’è chi ha reso consapevolmente questo secondo il principio regolatore della politica  democratica (e penso in primo luogo a Moro), e chi lo ha vissuto più istintivamente (ed è stata la vera novità del comunismo italiano,  il suo segnale “altro”). C’è chi ne ha subìto i condizionamenti senza derogare troppo, almeno materialmente; ma nell’insieme questo è stato il segno vero sia della rinascente democrazia, sia della stessa logica obbligata della guerra fredda. Questo è valso a governare conflitti sociali interni alle nazioni e alle classi, sviluppando positivamente condizioni sociali e autonomie locali, ma anche rapporti internazionali (dalle decolonizzazioni alla ricerca collettiva di mediazioni internazionali).

Abbastanza presto, però, i poteri reali ancora ben saldamente in carica, e cioè di fatto la grande finanza (spesso con più o meno riconoscibili rapporti con la criminalità internazionale, crescente in particolare intorno al narcotraffico) hanno saputo ritagliare anche entro quella logica tutti i propri spazi.  E’ stata forse qui la svolta vera degli anni Settanta: nello sviluppo di una globalizzazione non governata da alcuno, istintivamente avvertita dalle nuove generazioni, prima di altri, come il dato reale della storia che si andava facendo, e infine registrata politicamente dalla presa d’atto ufficiale del ritorno strategico della destra. I conflitti non si governano pacificamente, i conflitti si affrontano con tutta la spregiudicatezza delle logiche di parte, quando serve.  Questo non è formalmente divenuto un principio della politica ufficiale, ma è stato come statuito entro l’autonomia assoluta delle dinamiche finanziarie,  delle strategie di sviluppo, dei rapporti di forza economici, della giustizia sociale.  L’esito dei conflitti lo  decide chi ha la  forza per farlo.  Questa è stata la svolta storica che ha segnato in modo altro dal 1945 la politica della Thatcher e di Reagan e il ritorno fra i giovani del fascino della violenza, della rivoluzione, del terrorismo.

Alla pratica di un governo collettivo dei conflitti internazionali (di fatto, all’ONU) si è finito per rinunciare; ci si arriva solo se non dà fastidio a qualcuno che conta. Oggi la pazienza, la saggezza, l’attenzione al governo pacifico dei conflitti non conta più: non è la suprema autentica superiorità del vero uomo di Stato, del protagonista della storia. Può ancora funzionare, talora, nei piccoli conflitti locali, ma non è la logica della grande politica. I conflitti si sciolgono, nel migliore dei casi, dando ai forti ciò che è già loro e qualche contentino alle vittime.

Non a caso siamo nel terzo millennio nel pieno ritorno del terrore. E non prevarremo su di esso se  useremo più dello stretto necessario per debellarlo. E’ questa la lezione che dobbiamo  interiorizzare insieme.

Non riscopriremo la democrazia vera se non sapremo riscoprire   che la politica democratica è governo pacifico, oppure non ci sarà mai un mondo migliore.  Finora abbiamo pensato troppo la giustizia come una vittoria dei deboli, che è frutto di un governo tutto conflittuale del dissenso. E’ su questa illusione che sono franate tutte le sinistre, quelle rivoluzionarie in primo luogo, ma anche per molti versi quelle riformiste. E’ questa l’idea di sinistra che va sostituita, che deve ispirare nuovi partiti.

La sinistra oggi è concentrare il potere degli eletti sui nodi di fondo delle disuguaglianze, che sono alla radice vera dei conflitti: l’evasione fiscale,  l’autogoverno della finanza, l’irresponsabilità della direzione d’impresa, da nessuno controllata fra i veri interessati; e infine, ovviamente, la corruzione della classe politica come fedeltà assoluta agli interessi del mandatario di parte, non alla comunità nel suo insieme.

Ma questo è per me anche ripensare la politica, oltre che ripensare la sinistra. La pace nel mondo non è il naturale esito delle lotte popolari. La pace nel mondo è il compito di chi governa, comunque e da chiunque eletto, ma lo è anche di una nuova idea di cittadinanza, senza di che non sarà mai nemmeno di governo.

E’ in questo senso che oggi i portatori di un’idea piena di cittadinanza non sono i partiti ma gli attivi nel volontariato, perché si fanno carico di interessi collettivi, non dei loro, e intano pagano loro  il prezzo delle disuguaglianze. Ma devono saper ispirare nella stessa direzione la politica. Non in primo luogo difesa di sé, ma difesa di equilibri tollerabili, via  via più giusti, più fecondi, più dinamici.

L’esperienza del volontariato (tutto il volontariato positivo, a partire dalla professionalità onesta fino al sacrificio fisico di sé)  diventa così il dato ispiratore di una nuova idea di sinistra, che non incrementa i conflitti, ma li sana. Deve imparare però a farlo anche con la mediazione politica, con le soluzioni di fatto, con i comportamenti vincenti da suggerire, fino, ovviamente, alle pratiche di governo.

 

Paola Gaiotti de Biase

 

Lascia un commento

Required fields are marked *.