Quos vult perdere…

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La rielezione di Napolitano pone il punto fermo a una brutta vicenda, che mette in forse il futuro del Pd e mette una pesante ipoteca negativa sulle prospettive future del rinnovamento necessario della nostra politica. Qualche commento a caldo ci pare utile, per verificare assieme come ragionare sul futuro.

Logica, prima ancora che lungimiranza, dato il risultato elettorale, avrebbe voluto che il Pd si assumesse orgogliosamente la responsabilità di primo partito, pur restando acutamente consapevole della propria fragilità in termini di consenso e di numeri. E quindi affrontasse il problema dell’elezione del presidente della Repubblica proponendo in modo unitario e convinto una propria candidatura, che fosse però in grado – per l’assoluto livello di qualità e per la capacità di interpretare il sentire del paese – di incontrare la disponibilità necessaria di altri voti e altri consensi.

In che direzione guardare era in qualche modo fissato dallo stesso gioco condotto per più di sette settimane da Bersani dopo le elezioni: la proposta di un «governo di cambiamento» aveva infatti tentato di smuovere qualcosa nella protesta del M5S. Tale approccio sembrava aver colto il senso di quello che stava muovendosi nella diffusa critica alla «casta»: aspettative, attese, mugugni, ma anche residue speranze e qualche spazio di fiducia su un salto di qualità. Forse tale proposta politica avrebbe potuto essere presentata diversamente (un «passo indietro» del candidato non premiato?), ma non era affatto sbagliata, ancorché ardua. Ci si poteva aspettare coerenza al momento delle elezioni per il Colle.

D’altra parte, è certo che i grillini si sono assunti molta responsabilità con il loro pervicace rifiuto di ipotizzare una virtuosa coesistenza, per costruire o almeno favorire un progetto che avrebbe potuto anche, in prospettiva, diventare comune. Questa rigidità ha indebolito il già fragile assetto interno del Pd. Ennesima manifestazione ne è stata la proposta – un po’ curiosa nel modo, dopo il rito online e la margherita sfogliata di due prime scelte – della candidatura Rodotà, che avrebbe anche potuto essere una candidatura di incontro, se fosse scaturita da un dialogo. Ed è invece diventata ovviamente un ostacolo, nella misura in cui la si è voluta imporre unilateralmente come minoranza intransigente.

In questo quadro delicatissimo, è apparso uno scarto incomprensibile ai più la scelta del Pd di trattare con Berlusconi per il Colle. E soprattutto di offrire a lui la scelta del candidato preferito in una terna. Tutti passaggi che hanno reso la candidatura Marini debolissima, contraddittoria rispetto al percorso politico precedentemente e faticosamente tentato, incomprensibile alla base e invisa a molti dirigenti stessi del partito. Risultati che andavano al di là dei demeriti del politico abruzzese (ma insomma, la sua storia rappresentava molte cose, ma non certo il quadro dell’auspicato cambiamento).

A questo punto, il revirement sulla figura di Prodi avrebbe dovuto suonare all’esausto partito come il rintocco di una campana da ultima spiaggia. Il fondatore dell’Ulivo e antesignano del superamento degli steccati a sinistra, l’ex presidente della Commissione europea, l’uomo non di partito sostenitore di una politica aperta alla società: insomma, al di là di ogni giudizio personale, eravamo di fronte al recupero di un orizzonte politico. La drammatica capacità del partito di affossare quella candidatura, prima ancora di metterla alla prova della possibilità di ottenere qualche altro consenso (da parlamentari grillini o dalle fila dei centristi, a loro volta piuttosto sopra le righe in queste settimane),  è stato il segnale di un livello ormai inaccettabile della dissoluzione della possibile leadership politica del Pd nel nostro sistema. Nemmeno la minaccia di un suicidio collettivo ha potuto fermare le vendette e le guerre meschine per bande di una classe politica votata all’autodistruzione.

Un naufragio che avrà conseguenze durature. L’instabilità prolungata per il paese è già un grosso problema. In aggiunta, tali conseguenze riguarderanno anche la possibilità di affermare un progetto di cambiamento sensato e praticabile in Italia. Già si delinea una nuova divaricazione fatale tra protesta e proposta. Davvero tempi duri ci attendono.

 di Guido Formigoni

4 Comments

  1. A differenza di quello che tu dici, ho avuto fin dall’inizio dei dubbi sulla possibilità di praticare quel governo di cambiamento che Bersani ha proposto e tenacemente inseguito, perché questo comportava l’appoggio dei cinque stelle, e tale appoggio – a mio avviso – era ben difficile da avere ed era anche molto insidioso averlo (per le parole d’ordine di quel movimento). Si sarebbe potuto avere l’appoggio di una parte dei cinque stelle, staccatasi dalla casa madre, ma con che garanzie di tenuta, in un frangente così delicato sul piano economico e sul piano del dialogo interno alla UE? In sostanza, io penso che il Pd non aveva vinto, e dunque non avrebbe potuto tentare di fare il governo che voleva, quello del cambiamento auspicato. Il compromesso, benché inviso a tanta parte nella società, era l’unica strada. Si trattava, questo sì, di prospettarlo con forza, volando alto, e chiarendo bene su quali punti comuni e utili al Paese si poteva andare ad un accordo, spiegando anche che accordo non vuol dire inciucio…

    Giampiero Forcesi

  2. Caro Guido le tue osservazioni sono giuste.
    Consapevole di essere in minoranza, sono stato uno dei pochi convinti sostenitori della linea iniziale seguita da Bersani col “governo di cambiamento”.
    La possibilità di attaccare al carro riformista il M5S , non era a mio avviso né velleitaria né campata in aria.
    Era un percorso con una sua logica politica. Che andava verificato sul campo una volta certi che buona parte del voto grillino proveniva da sinistra.
    Bersani ha tentato di legittimare il Pd come forza di governo, andando poi a sbattere sulla Rivoluzione Permanente trotskysta di Grillo e soci. Come accenna Forcesi.
    Ma sono certo che questo è servito a evidenziare la confusione s-fascista del Movimento, avviando una (certa e lenta ) crisi alla sua identità. Vedremo.
    Dietro le mosse di Bersani io non ho mai visto narcisismo voglioso di premiership. Ma solo un modesto e faticoso se non solitario lavoro per salvare l’unità del partito, fallita poi miseramente con le successive mosse di Marini e soprattutto di Prodi.
    Sposare acriticamente il Movimento accettando Rodotà, significava spaccare il partito molto tempo prima. Nessun dialogo poteva essere accettato se non quello della resa incondizionata che in politica non è mai mediazione e incontro.
    Il suicidio, caro Guido, non lo ha a mio parere provocato Bersani. Ma la guerra per bande ( dire guerra per weltanschauung, mi sembra onorare troppo quello che è successo per Prodi) sottotraccia da tempo.
    Una guerra che si è poi concretizzata col manifesto Barca “ultradegasperiano”- solo per capirci – da una parte: ( tutto il partito che cammina e si sposta a sinistra), e le mosse “antidegasperiane” di Renzi dall’altra ( tutto il partito che cammina e si sposta verso il centro e la destra). Temo il peggio anch’io. Perché questa divaricazione e questi percorsi di cui sentiremo ancora parlare, inevitabilmente coinvolgeranno quella pattuglia silenziosa e in via di estinzione formata dagli ultimi giapponesi sull’isoletta cattolico democratica e popolare del Pd, che nessuna buona volontà di Enrico Letta riuscirà a rianimare e salvare. Non è un guaio. Capisco.
    Ma che, senza nessuna nostalgia di impossibi e astoriche nuove unità, scompaia dalla scena politica almeno una traccia da incarnare nei nostri tempi di ciò che è stata la nobile storia dell’impegno politico e sociale del cristiano laico lungo tutto l’arco del Novecento italiano, è solo un vero peccato.
    Forse e senza forse è da questa constatazione che C3Dem deve andare avanti.
    Buon lavoro.
    Nino Labate – Roma

  3. Scusate se insisto: ma mi dispiace sentir parlare di silenzio e di estinzione. Se, come afferma l’Autore del secondo commento, Nino Labate, la divaricazione (del PD) “inevitabilmente coinvolgerà quella pattuglia silenziosa e in via di estinzione formata dagli ultimi giapponesi sull’isoletta cattolico democratica e popolare”, io credo che un modo per uscire da questa dinamica estintiva è di non rimanere silenziosi, a livello nazionale e locale. Rimettere al centro il fine, che è la proposta politica, e considerare, con la leggerezza delle lezioni americane di Calvino, ad esempio, lo strumento partitico (gli strumenti partitici) per quello che è, cioè un mezzo: credo sia questa una responsabilità forte per chi è impegnato in politica. Forse è possibile, dall’isoletta dei giapponesi citata dall’Autore, raggiungerne un’altra, o la terraferma…
    Da sempre l’unico modo per contrastare le guerre per bande è la qualità della proposta politica, che lo strumento (sia esso partitico, o in senso lato associazionistico) potrà capire o meno, sopportare o meno, sviluppare o meno; ma insomma, l’importante è camminare, non arrivare al traguardo.
    Credo che la cultura cattolico democratica possa ancora offrire al Paese un contributo di modernità, della politica (stili e toni diversi, ma sono state perse molte occasioni) e del progetto. Io non sono impegnato in politica ma mi piacerebbe ritornare ad ascoltare qualcuno che “has a dream”, che fa proposte concrete di sviluppo del Paese basate su equità e giustizia (quella della Carta Costituzionale) fuori dalle agende dettate dagli altri, magari anticipandoli. E questo senza affidarmi al salvatore (della patria e dei partiti) di turno. Quando tra conoscenti o colleghi si parla dell’Italia di oggi, tutti concordano (ed abbiamo idee diverse…) sulla necessità di un bene comune come io lo riporto da Lazzati: massimo sviluppo sociale compatibile. Insomma, qualche argomento la cultura cattolico democratica (e liberale) ce l’ha ancora… Il silenzio porta inevitabilmente (e giustamente) all’estinzione. Ma questo non è il tempo del silenzio, e non solo di chi è impegnato in politica, ma di tanto mondo cattolico piuttosto distratto e smemorato, negli ultimi anni.
    Persone preparate, tecnicamente (per evitare la demagogia e la superficialità) e politicamente, proposte che, localmente e non, considerino prioritariamente le situazioni di ingiustizia, di sofferenza, di mancato rispetto della dignità della persona: questa è la ricetta per ricominciare al di fuori e al di sopra delle guerre interne (ed esterne). I mezzi per la comunicazione e la divulgazione delle idee non mancano. Le altre isolette, e la terraferma, non sono lontanissime, mi pare.

  4. Per una rivoluzione francescana della politica.
    La mia lettura sui fatti di cronaca di queste settimane – compresa quella più grave della mancanza di solidarietà nel gruppo dirigente del PD espresso col voto unanime a favore di Prodi e successivo siluramento – parte dall’amara constatazione dell’inesistenza di un’etica politica condivisa. Ritengo che oggi ci sia un grande bisogno di speranza, che solo un umanesimo laico e solidale (per noi cristianamente ispirato) può dare a moltitudini di persone sempre più deluse e impaurite. E’ compito del programma politico stabilire le priorità del momento (che peraltro sono ampiamente note), ma avendo ben presente il senso del futuro, le mete da raggiungere.
    La politica ha bisogno di una laica rivoluzione francescana, a partire dall’eliminazione di ogni privilegio e dallo stabilire livelli retributivi che non si discostino da quelli percepiti dalla media dei cittadini che svolgono ruoli direttivi. All’inizio di ogni legislatura (in ogni livello istituzionale) si deve dire con chiarezza quali livelli retributivi vengono stabiliti. Chi decide di far carriera politica deve essere dotato della passione di lavorare per un bene pubblico, per il bene comune e non per acquisire privilegi. La nuova etica della politica oggi deve passare necessariamente da qui, altrimenti le parole pronunciate sono false e si contrabbanda per servizio ciò che invece è l’aspirazione all’esercizio di un ruolo di potere. E sappiamo che il potere tende all’abuso e al costituirsi in casta, con le conseguenze che vediamo sotto i nostri occhi. Da almeno vent’anni giriamo intorno a questo problema senza riuscire a dare una soluzione, il tempo ormai è scaduto. Ci sono tante forze sane nella politica, bravi amministratori, tanti volontari, tante buone pratiche, che se non si risolvono questi problemi rischiano di essere travolti dal malessere generale e accomunati ai politici senza scrupoli, agli affaristi di ogni risma, ai corrotti. Lo stesso discorso vale per altre situazioni: dalla magistratura all’università, alle imprese. I dati per una verifica generalizzata sul funzionamento di questi settori della società, non mancano. Il PD si deve porre alla testa di questa rivoluzione francescana della politica.

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