Musulmani in Italia. La difficile ricerca di un luogo dove pregare

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A metà del mese di marzo  il Centro Islamico di Parma, che da anni utilizzava in forma regolare un capannone in una zona artigianale della città, ha dovuto sospendere le attività a causa della cancellazione, con atto amministrativo, dal registro delle APS (Associazioni di promozione sociale) da parte della Regione Emilia-Romagna,  avvenuta a seguito di un esposto di un cittadino proprietario di un’attività artigianale nella stessa area (che ha da sempre contestato con varie iniziative la presenza del Centro).

Alla base del provvedimento, in sintesi, il fatto che  il Centro avrebbe svolto per un certo periodo quasi soltanto attività di culto, non effettuando invece quelle attività previste dalle normative sulle APS (attività solidaristiche e di utilità sociale) . E’ stato presentato un ricorso al TAR contro tale decisione. Nel frattempo, associazioni, gruppi e forze politiche, nonché il Vescovo di Parma, mons. Enrico Solmi,  stanno chiedendo che si trovi una soluzione affinché  i 20.000 circa musulmani di Parma abbiano un luogo in cui trovarsi per pregare.

Abbiamo chiesto agli amici del Borgo di Parma che ci aiutassero a capire meglio la situazione, che ha rilevanza non solo locale. Lo hanno fatto chiedendo un contributo al coordinatore del Forum Interreligioso di Parma, che qui pubblichiamo, ringraziandolo.

 

Quanto sta accadendo in questi mesi a Parma presenta espetti e valenze che superano i confini della città e quindi meritano un’attenta osservazione.

La vicenda infatti si connette inevitabilmente a quello che è il contesto del pluralismo religioso in Italia: fenomeno tutto sommato piuttosto recente e seguito ai flussi migratori degli ultimi 30 anni. Rispetto al quale la revisione del Concordato del 1929, intervenuta nel 1984, non è in grado di per sé di assicurare una copertura complessiva e compiuta ai problemi che insorgono.

L’evento scatenante è in sé un semplice atto burocratico, quale la cancellazione dal Registro delle APS decretato da un Ufficio della Regione Emilia Romagna (riconducibile al lento e tormentato processo attuativo della Riforma del Terzo Settore che tuttora attende la sua conclusione): che tuttavia comporta l’impedimento o meglio il divieto per il Centro di cultura islamica (costituitasi appunto in forma di APS) di effettuare le pratiche rituali della preghiera.

Va subito chiarito che quindi – al di là dei fallaci titoli che compaiono sui media – non si sta discutendo di una moschea, poiché non si tratta di un vero e proprio “luogo di culto”, bensì di uno spazio surrettiziamente travestito per questo uso. Con l’osservazione doverosa che, comunque, una qualsivoglia struttura di “moschea” preveda e contempli non solo spazi di preghiera ma anche spazi ad altra vocazione.

La questione è complicata da più fattori squisitamente locali: la localizzazione in un capannone collocato in un’area artigianale, l’individuazione del sito curata a suo tempo dall’Amministrazione Comunale, ed inoltre il suggerimento dato alla locale Comunità Islamica, da parte dell’Ente Locale, di costituirsi a tal fine in Associazione culturale; la pervicace opposizione ormai decennale di un vicino confinante; ed infine l’utilizzo strumentale della situazione da parte di una forza politica (Lega Nord prima ed ora Lega).

Ma accanto a questi aspetti locali sussistono le ben note questioni irrisolte e tuttora pendenti, quali: l’assenza di una Intesa fra Stato e Comunità Islamiche (entro quanto previsto dal nuovo regime concordatario), l’assenza della Legge sulla libertà religiosa in attuazione dell’art. 8 della Costituzione. In assenza delle quali le normative urbanistiche faticano ad inquadrare correttamente il problema dei luoghi di culto per la confessione musulmana. L’arrivo poi della Riforma del terzo Settore, con una nuova riclassificazione delle Associazioni ed una loro normativa più rigida, ha avuto un impatto che a breve provocherà il moltiplicarsi di casi analoghi.

Come si evince da questo sommario prospetto riassuntivo, il caso parmense risulta tutt’altro che unico od isolato: al contrario, si susseguono situazioni simili od ancora più conflittuali: si pensi al caso di Piacenza, ove addirittura è in corso una forte contestazione di una delibera del Comune per l’edificazione di una vera e propria moschea, progettata come tale. Con l’aggravante che si tratta di uno stallo che perdura da tempo: rispetto al quale le Amministrazioni Comunali che si sono via via succedute hanno preferito la pratica abituale del gioco al rinvio.

Sussiste infine, perché negarlo, al riguardo una propensione “ad excludendum” piuttosto diffusa nella popolazione italiana, che evidentemente preferisce non avere nel vicinato la presenza di una moschea. Va letto in tal senso il richiamo del vescovo mons. Ambrogio Spreafico – che presiede la Commissione della CEI per l’ecumenismo e il dialogo – pubblicato in occasione del consueto digiuno Ramadan (Avvenire, 15.4.2021): il quale invita ad una maggior conoscenza, oltre la mera civile convivenza, per approdare a forme di maggior integrazione e ad occasioni di comunione. Ma la consapevolezza di questa difficoltà obiettiva non può costituire intanto un alibi per le Amministrazioni Comunali rispetto all’obbligo – che resta in capo a loro – di prevedere nell’assetto urbanistico delle città luoghi di culto anche per i fedeli musulmani: da allocare in aree e contesti spaziali degni e non marginali, specie ove essi costituiscano (come è il caso di Parma e dell’Emilia-Romagna) una porzione considerevole della popolazione residente.

L’auspicio è che Parma, città insignita quale “capitale della cultura” italiana 2020-21, la quale ha già dato prova di sensibilità ed apertura (non ultimo con l’inaugurazione della “fontana delle religioni”), sappia affrontare con lungimiranza questa prova considerando la comunità musulmana come un vero partner dell’Amministrazione Comunale, come del resto delinea il “patto di Cittadinanza” che venne siglato ormai oltre 10 anni or sono.

 

Luciano Mazzoni Benoni

Coordinatore del Forum Interreligioso di Parma

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