LA FORZA TRASFORMATRICE DELLA CITTADINANZA ATTIVA. UN COLLOQUIO CON GIUSEPPE COTTURRI

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Questa intervista è stata realizzata circa un anno fa in previsione di un “quaderno” sulla democrazia partecipativa del MO.V.I. (Movimento del Volontariato italiano). La pubblichiamo come uno strumento di documentazione in previsione del convegno che c3dem ha organizzato a Paestum dal 25 al 27 settembre, in collaborazione con il MO.V.I., su “Cittadinanza attiva e rinnovamento della politica nel Sud”, al quale sarà relatore anche il prof. Giuseppe Cotturri.

 

Ci apprestiamo ad incontrare Giuseppe Cotturri. Un professore universitario. A Bari. Esperto in sociologia della politica. Autore di numerosi libri. Ha diretto il Centro studi per la riforma dello Stato, la rivista “Democrazia e diritto”. Poi è stato presidente di Cittadinanzattiva. E’ l’ispiratore della riforma del quarto comma dell’articolo 118 della Costituzione italiana avvenuta nel 2001 (Stato, Regioni, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”). E’ convinto che in Italia si sia ormai sviluppata una grande forza che, dal basso, sta creando le condizioni, concrete, di un modo nuovo di fare politica, in cui i cittadini sono protagonisti. Solo – dice – che non ce ne siamo ancora accorti…

Una premessa (meno ottimista)

In questo tempo – come non riconoscerlo? – prevale nel paese un senso grande di scoraggiamento di fronte alla politica. Di fronte al futuro. La crisi economica, così dura, morde in profondità. Partiti e sindacati vivono ormai da molto tempo una fase opaca. E’ difficile sentire come possibile il cambiamento. E’ difficile sentire la democrazia come una cosa viva, forte, uno strumento capace di raccogliere le istanze delle persone, dei gruppi, delle comunità, e di portare a un cambiamento.

E’ uno scoraggiamento che, più o meno, riguarda un po’ tutti. Forse anche chi è impegnato in un’associazione di volontariato, in una cooperativa sociale, in un gruppo di base.

Non è facile individuare le cause di questa situazione. Bisognerebbe tirare in ballo la globalizzazione dell’economia, la subordinazione della politica al mercato e, ancor peggio, alla finanza.

Certo, anche la corruzione, la casta.

Ma anche la società, cioè noi. Il consumismo. Forse l’aver creduto in un benessere diffuso, raggiunto una volta per sempre, da cui non si sarebbe tornati indietro, e che semmai era solo da estendere a chi era rimasto indietro. Forse l’aver sottovalutato che l’emergere di altri paesi e popoli, e bisogni e interessi, ha incrinato l’equilibrio sul quale l’Occidente, il nostro paese  e anche noi ci siamo appoggiati per lungo tempo. Forse il nostro individualismo. Lo scarso spirito civico che ci ha sempre, più o meno, caratterizzato. Forse il venir meno della forza e della spinta di un movimento operaio che i meno giovani tra noi pensavano avrebbe portato più uguaglianza, più giustizia e anche più democrazia, più partecipazione…

Però non è buona cosa scoraggiarsi. E, anzi, ci sono motivi per avere fiducia che un cambiamento è possibile. E – soprattutto – che un cambiamento è nelle “nostre” mani.

 

Allora, Cotturri, lei, che ha avuto una lunga esperienza nella politica e poi anche in movimenti dal basso, ha scritto di recente un libro che si chiama “La forza riformatrice della cittadinanza attiva”. Vediamo,dunque, di riflettere con lei sulle reali possibilità che ci sono di cambiare. Di uscire dallo scoraggiamento.

Proviamo a guardare la realtà dal suo punto di vista. Cominciamo con la “cittadinanza attiva”. Di che cosa si tratta? Proviamo non solo a definire che cosa è o che cosa può essere, ma anche a fare una valutazione di quanto è sin qui emerso di più promettente, a suo avviso, in questo campo. E risponda a una obiezione: non ha ragione chi dice che – a di là del basso livello raggiunto dalla politica (così almeno ci appare) – il problema è che in Italia, nella società, c’è poco senso civico, ce n’è sempre stato poco, c’è sempre stata una scarsa coesione sociale, e che questa è la nostra storia, fin da quando s’è fatta l’Italia, centocinquanta anni fa?

 

Cotturri –  Nel secondo dopoguerra, ad alcuni attenti osservatori stranieri, noi apparivamo assolutamente privi di civismo, mobilitabili solo per “familismo amorale” (Banfield). I legami amorali col tempo si sono fatti potenti. Cordate di “amici”, bande di affari, interessi corporativi e di ceto, crescente economia illegale hanno progressivamente occupato il potere pubblico, hanno connotato partiti e piegato le istituzioni.  Tutto ciò ha celebrato il suo trionfo nel ventennio berlusconiano, preparato da corruzione e irresponsabilità decennale di forze di governo democristiane e socialiste (a livello locale anche il Pci fu lambito da questi andazzi…) . La sfiducia nella democrazia e nella politica quindi viene da lontano. 

Non tutti però si sono rassegnati, non tutti hanno ritenuto che l’essere cittadini significasse solo resa e passività. Urgevano bisogni, diritti calpestati, beni comuni lasciati allo sbando…  Dagli anni Settanta s’è formato molecolarmente un modo d’intervento autonomo e dal basso nella formazione del pubblico: esempi stranieri ve ne erano, ma l’universo italiano ha “inventato” modi propri di intervenire nelle politiche pubbliche: volontariati, cooperative sociali, associazionismo di promozione sociale: le definizioni e le leggi di sostegno si sono precisate nel tempo. Fino a conquistare nel 2001 un riconoscimento costituzionale (art.118, comma 4).

Il cambiamento quindi c’è stato, ora siamo nel pieno di una lotta di fondo, prima impensabile. Non si tratta di essere ottimisti, ma di misurare con realismo quello che s’è fatto per trarne forza e portare più avanti la trasformazione del paese.

La definizione di ‘cittadinanza attiva’ si è affermata negli anni Novanta, per designare specificamente tutto ciò. Essa quindi non ha un significato generico: il cittadino che partecipa, che protesta, che si mobilita e fa cortei o manifestazioni appartiene alle forme tradizionali del fare politica, ma egli non è per ciò stesso ‘cittadino attivo’. Le forme tradizionali di partecipazione,  protesta,  mobilitazione – limitate al momento “retorico” della politica – non modificano infatti  l’amministrazione e il potere pubblico, così come si sono affermati per decenni sulla base della delega generalizzata a un pugno di eletti.

Cittadinanza attiva, alla fine del secolo, identifica quindi una novità: sono sempre più diffusi comportamenti che mirano ad attuare diritti e bisogni, direttamente posti in essere da comuni cittadini, senza aspettare oltre dalle pubbliche amministrazioni quello che intanto essi possono realizzare da sé.

E’ un agire che spezza il gioco (domanda/offerta) dei sistemi politici, che interrompe le attese e la passività dei cittadini. In questo modo essi entrano nel campo delle risposte utili e, aprendo alla comunità il godimento del loro agire, si pongono come agenti di  “interesse generale”, accanto alle istituzioni pubbliche. Tanto più, quanto più esse solitamente appaiono sorde, morose o contrarie.  

Ora, in base al citato art.118 della Costituzione, tali istituzioni sono vincolate a accogliere e dare seguito positivo alla iniziativa civica: la cittadinanza attiva quindi ha un potere “trainante” dell’indirizzo pubblico. E’ una rivoluzione, ancora non ci si rende conto appieno delle potenzialità di questa svolta.

 

Il principio e la pratica della sussidiarietà

Lei, dunque, dice che questa della cittadinanza attiva è la via maestra, il “laboratorio”, per aprire la strada a una nuova e diversa forma di democrazia, di partecipazione dei cittadini: non più solo la partecipazione elettorale, non più solo i referendum, non più solo (o per niente?) i partiti, ma invece la pratica concreta delle “azioni positive dei cittadini”, le tante esperienze di partecipazione autonoma alle politiche concrete (l’uso dei beni comuni, i bisogni del territorio, le politiche sociali, le politiche ambientali…). E raccoglie tutto questo nel nuovo principio fondamentale che da 13 anni è iscritto nella nostra Costituzione: il principio della sussidiarietà. Per la precisione, la sussidiarietà orizzontale, o anche detta “sussidiarietà sociale”.

All’articolo 118, quarto comma (che lei ha concorso a scrivere!), dal 2001 è detto: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.

Lei dice che è qui che c’è la possibilità di una trasformazione radicale della politica. Anzi, di una “rivoluzione”. Ma vediamo un momento. Quell’articolo dice che le iniziative dei cittadini, per essere sostenute dalla pubblica amministrazione debbono rispondere all’interesse generale. Le si potrebbe, dunque, obiettare: come si concilia una iniziativa “autonoma” di un gruppo di cittadini, o anche di un gruppo di associazioni,  con l’interesse generale? Chi valuta se davvero quelle iniziative sono nell’interesse generale? E, se pure si stabilisce che le finalità di una certa iniziativa sono di interesse generale, le modalità per raggiungerla scelte autonomamente da un gruppo di cittadini non potrebbero generare disagio, opposizione, in altre fasce di cittadini? oppure non potrebbero frammentare iniziative che avrebbero invece maggior effetto se organizzate diversamente? E, insomma, l’iniziativa dei cittadini, se vuole avere il sostegno, delle istituzioni pubbliche, non dovrebbe accettare un limite alla sua autonomia? Non è necessaria una mediazione che conduca alla condivisione, da parte delle istituzioni, dell’iniziativa stessa, al fine di poterla, allora sì, sostenere?

 

Cotturri – Il punto chiave di questa domanda sta nel doppio interrogativo: come si valuta che l’iniziativa civica corrisponde a un interesse generale? e chi valuta? C’è poi l’osservazione conclusiva sulla necessità di costruire un sistema di comunicazioni positive tra iniziative civiche e risposte istituzionali: è giusto porre questo problema, ma la risposta riguarda le comunicazioni, appunto, non l’autolimitazione della autonomia.

Vediamo per punti.

La prima domanda è basilare: non si tratta di dare definizioni astratte. Ma di assicurare in concreto che l’iniziativa di comuni cittadini – anche singoli, dice l’art.118 – vada a beneficio di tutti e non pretenda di assicurare la soddisfazione solo dei promotori. Per identificare comportamenti di questo tipo nell’ultimo Censimento ISTAT la Fondazione per la cittadinanza attiva presieduta da Giovanni Moro (FONDACA) ha ottenuto che fosse inserita una domanda (la n. 27), circa le mission realizzate da soggetti del cosiddetto “non profit”. Non accontentandosi del fatto che l’ente non tragga e non ripartisca vantaggi economici tra i soci, la domanda ha specificato: avete tutelato diritti delle persone? Avete curato beni comuni? Avete sostenuto soggetti deboli o in difficoltà? Tutte e tre queste mission corrispondono a precise indicazioni della Costituzione: è chiarissimo il riferimento delle prime due ai valori della legalità e della solidarietà; la terza in particolare dà concretezza al secondo comma dell’art.3, sul compito della Repubblica (e quindi di tutti i cittadini) di “rimuovere gli ostacoli di fatto” che impediscono l’effettiva eguaglianza e partecipazione di tutti alla vita pubblica.

Chi valuta che di questo si tratti? I cittadini anzitutto hanno l’onere di esplicitare questi riferimenti, per richiamare le autorità territoriali ai loro propri compiti. E naturalmente le autorità politiche e amministrative devono dare su questo  un giudizio concreto: se non vi sono interessi particolari contrapposti, esse non hanno il potere di suggerire modi diversi di intervento, devono prendere atto che quella è la strada indicata da forze sociali autonome (né è richiesto che esse autorità diano “autorizzazioni”). Devono piuttosto accogliere e accompagnare.

Se però le istituzioni politico-amministrative individuano altri soggetti, potenzialmente lesi o comunque in disaccordo, non hanno il potere di vietare, ma sono investite di un compito politico ulteriore: convocare le parti diverse, creare un tavolo di accordi, promuovere uno sviluppo della iniziativa che significa coinvolgimenti di altre forze sociali. Se un qualsiasi cittadino si oppone – non per legittime ragioni, ma per “invidia”, per malevolenza verso i promotori, per contrarietà al nuovo – non può pretendere di bloccare una buona iniziativa che reca vantaggio a chiunque voglia goderne. Ma la sua contrarietà non potrà essere ignorata, si dovrà provare a rimuoverla col dialogo, il coinvolgimento e magari la corresponsabilizzazione. Questi sono compiti nuovi per chi ha funzioni di governo.

E ciò mostra che lo sviluppo di iniziative civiche non riduce o comprime il potere politico, ma lo sospinge a ruoli maggiori, più avanzati, più responsabili della effettiva coesione sociale. Aggiungo, in conclusione su questo punto, che a salvaguardia della libertà di iniziativa civica legittima il cittadino può sempre fare ricorso a un accertamento giudiziale.

Terzo punto: come già accennato, è uno stile nuovo di dialogo che deve instaurarsi. Il mio consiglio è che i cittadini che vogliono intraprendere una attività positiva, fosse pure per tutela di beni comuni, dovrebbero dare un “avviso di iniziativa civica” ai concittadini e comunque alle autorità competenti. Anche affinché queste predispongano quanto di loro competenza (misure per la sanità e la sicurezza, sospensione del traffico, presenza  di vigili per evitare confusioni o disordini ecc.).

 

Ancora una cosa. Perché, secondo lei, manca, forse anche tra noi, tra i cittadini attivi, una piena consapevolezza di questa forza trasformatrice dal basso che già esiste e che – come lei ha scritto –  è “più che una speranza”?

 

Cotturri – Sì, io penso che non vi sia ancora molta consapevolezza delle potenzialità connesse al potere civico sussidiario. Credo che la complessità delle situazioni nuove che si delineano può avere avuto una parte nel frenare l’estensione del fenomeno. Ma soprattutto credo che finora abbia prevalso una idea della sussidiarietà di tipo “strumentale”, indotta da Regioni e Enti locali: è accaduto, cioè, che i tagli di spesa pubblica sociale hanno suggerito alle amministrazioni locali di spostare, a minor costo, su soggetti non profit i compiti pubblici di natura sociale. Questo non corrisponde alla norma costituzionale. Credo anzi che tutto ciò abbia comportato fraintendimento e distorsione del principio costituzionale.

C’è ancora molto da lottare per dare futuro a questa conquista del potere dei cittadini, senza che si debba concedere alle istituzioni pubbliche di potersi ritirare e deresponsabilizzare rispetto a diritti che sono costituzionalmente assicurati.

Comunque, circa l’estensione di queste esperienze siamo molto più avanti di quel che comunemente si dice: le risposte alla domanda n. 27 del Censimento Istat del 2011, prima ricordata, consentono di dare una misura precisa, e imprevista, di questo sviluppo dell’ultimo decennio. Su oltre 301mila enti non profit censiti, sono 103mila quelli che dichiarano di svolgere a vantaggio di chiunque lo richieda una o più delle mission indicate (tutelare diritti, curare beni comuni, dare sostegno a soggetti in difficoltà), e altre 40mila circa fanno tutto ciò per i propri soci (in questo caso, però, non si tratta di cittadinanza attiva, ma di associazionismo mutualistico).  

  

Amministrazione condivisa

Veniamo alle concrete esperienze di collaborazione tra iniziativa dei cittadini e amministrazioni pubbliche e ai possibili percorsi che si aprono in questa direzione.

Secondo lei per avviare esperienze di amministrazione condivisa, cioè di collaborazione tra gruppi di cittadini e amministrazioni pubbliche, non è bene che si coltivi un atteggiamento positivo verso le istituzioni? Non sarebbe necessario riaffermare  il riconoscimento che esse sono la spina dorsale del paese, della società, e che vanno difese e non demolite, che vanno arricchite, umanizzate, rigenerate, e non rifiutate?

 

Cotturri – Per quello che ho detto non solo le istituzioni non debbono essere “demolite” e non si deve coltivare l’illusione dell’autosufficienza dell’iniziativa dal basso, ma concretamente è nella interlocuzione positiva col civismo che le istituzioni stesse si rilegittimano e “ritrovano” se stesse.

In questa prospettiva io includo anche il futuro dei partiti. La politica buona sa che deve riportare se stessa sotto il principio di legalità e sul fondamento costituzionale. Le Costituzioni democratiche, e tra queste la nostra, indicano alcuni diritti irrinunciabili della persona, alcuni valori supremi, vincoli di solidarietà, che tutti debbono difendere e perseguire: la novità di fine Novecento è nella legittimazione di poteri autonomi anche di minoranze in questa direzione. Ciò ha introdotto sostanzialmente un “contrappeso” alle derive dei poteri delle maggioranze rappresentative. Se queste smarriscono il senso dell’interesse generale, se ignorano  indicazioni costituzionali (e la storia della disapplicazione e del contrasto delle classi dirigenti con la Costituzione italiana del ’48 ha segnato tutta l’esperienza repubblicana) allora un correttivo può venire dal basso. Le iniziative civiche non solo identificano interessi generali negletti, ma operando positivamente per essi segnano anche un percorso “vincolato” delle istituzioni in quella direzione.

Non è un caso insomma che, in una storia come quella italiana, a seguito di malgoverno e non-governo, si sia fatta spazio l’autonomia di forze civiche legate al progetto costituzionale, determinate a intervenire positivamente nelle politiche pubbliche.

 

Quali sono le esperienze migliori di cui lei è a conoscenza che vanno nel senso dell’amministrazione condivisa, della collaborazione tra cittadini e istituzioni?

 

Cotturri – Elenco di casi? Qui non c’è spazio per farlo, ma basta un giro nelle migliaia di siti dedicati, e anche in non pochi volumi. Una periodica segnalazione la fa Labsus, osservatorio sulla sussidiarietà sul web.

Vorrei,  però, dare solo un avvertimento: valgono, per intendere il ruolo dell’autonomia sociale, i casi di progetti dal basso, cui le istituzioni hanno dato appoggio. Viceversa, se le finalità sono fissate in un bando delle istituzioni stesse, le relative attività di progetto e realizzazione non rientrano nella figura dell’articolo 118. Sono anch’esse utili, ma si tratta di casi di “eterodirezione” dell’autonomia sociale da parte della politica: direi che è buona politica, ma senza il “valore aggiunto” dall’autonoma iniziativa dal basso.

 

Un nuovo modello sociale

La cittadinanza attiva, le iniziative di sussidiarietà, le esperienze di amministrazione condivisa possono davvero condurre a un “nuovo modello sociale”, come lei scrive? Non è forse una pretesa troppo ambiziosa? Una utopia troppo grande? Non sarebbe più appropriato parlare solo di un “valore aggiunto” come dice il titolo di un altro suo libro scritto insieme a Gregorio Arena, il direttore del Laboratorio per la sussidiarietà?

 

Cotturri –  Il “valore aggiunto” delle varie attività civiche rilevanti per le politiche pubbliche può essere concretamente stimato. Non penso che oggi si sia già manifestato, a seguito di questa autonomia, un “nuovo modello sociale”. Di sicuro, nuovo è il modello politico-istituzionale, non più centrato solo su partiti, né sul monopolio amministrativo delle istituzioni. Il dispiegarsi del potere sussidiario dei cittadini potrà, in un percorso lungo, promuovere anche diverso modello sociale.

Perché do per sicuro che ci vorrà molto tempo?  Perché tutto ciò è affidato alla capacità individuale e collettiva di apprendimento. Si va avanti per prova ed errore. Non c’è altro modo. E gli apprendimenti collettivi che vengono da scelte erronee restano fissati nei codici sociali, purtroppo, solo a prezzo di grandi dolori, emergenze sottovalutate, disastri. Le correzioni stentano, a volte non si trova una fuoriuscita condivisa… Sovente i cittadini attivi si determinano a questo tipo di impegno proprio per fare in modo “che non capiti mai più, e non capiti ad altri, quello che a loro è successo”. Anche le comunità e gli Stati apprendono da fallimenti e dolori. Sperimentare il nuovo è un rischio. Rischi, che la politica istituzionale quasi mai ha il coraggio di assumere (ci sono sempre elezioni dietro l’angolo), e il consenso popolare accoglie solo ex post…

 

Un’ultima cosa

Professor Cotturri, cosa si sente dire a chi dice che bisogna “riamare la politica” e che è necessario “riscoprire le istituzioni”, cercare di capirle nel loro merito, perché, se talvolta sono “un freno a tutte le possibili mete della società”, sono però anche “la sostanza di cose sperate per il futuro, modi per affrontare e risolvere problemi, aumentare capacità, perseguire i valori dichiarati nelle prime righe della nostra Costituzione”?

 

Cotturri – Credo che il mio saggio sulla “forza riformatrice della cittadinanza attiva” professi grande “amore per la politica”: c’è  rivendicazione di libertà e di partecipazione politica per tutti; c’è un disegno per riequilibrare i poteri separati e delegati; c’è una scommessa sul dispiegarsi della politica diffusa.

Sull’importanza delle istituzioni ho già mostrato la mia profonda convinzione che non debbano essere svilite, ma ci sia obbligo di rilegittimarle. Comprenderne logica e merito? Certo, ma c’è tanto che si può fare per migliorarne l’impatto e la perfomance, proprio a partire dalla conoscenza dei loro meccanismi, dei loro limiti, delle loro rigidità.

Il punto che non mi stanco di sottolineare è  che nessun cittadino è esente dalla responsabilità di dare attuazione al disegno costituzionale. Scoprire che tanti impegni molecolari possono influire sulla logica delle istituzioni è scoprire che tutti abbiamo una libertà e quindi una responsabilità più grandi, di quello che fin qui ci hanno detto.

 

A cura di Giampiero Forcesi

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