I cattolici e la politica: irrilevanza dei cattolici o irrilevanza della politica?

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di Francesco Totaro*

 

Si tratta oggi di capire quello che i cattolici, nel concreto della situazione storica, possono fare per propiziare il cambiamento di una politica altrimenti destinata a rimanere asfittica e senza prospettive. Con tutta evidenza, non si tratta di compiti per i quali i cattolici dovrebbero puntare su una riedizione di un partito unico. In sostanza, si tratta di cercare di conferire alla politica lo spessore etico-antropologico di cui essa ha bisogno, filtrando laicamente, nell’agenda politica e in decisioni conseguenti, l’enorme patrimonio di suggestioni derivanti dai documenti proposti da papa Francesco

 

 

  1. Uno sguardo retrospettivo

Il rapporto tra i cattolici e la politica può essere considerato da prospettive diverse. Recentemente si insiste sulla tesi della irrilevanza politica dei cattolici (il dibattito è scaturito da un articolo di Ernesto Galli della Loggia sul “Corriere della sera”). Conviene però non attestarsi sulla cronaca e prendere le mosse da più lontano. La sottolineatura dell’attuale evanescenza politica dei cattolici poggia infatti sul riferimento, di tipo contrario, alla fase storica nella quale i cattolici, con qualche eccezione, erano organizzati in un solo partito, sebbene attraversato da correnti su molti punti anche in contrasto. La stagione del “partito unico”, a causa del cosiddetto collateralismo e della confusione tra politica e religione, fu segnata pure da ferite inferte al principio della laicità della politica e da tentativi non indolori di affermarlo, fino all’evento liberatorio del Concilio Vaticano II, con il riconoscimento del pluralismo dei cattolici nelle scelte politiche.

Facendo un salto cronologico, mi preme richiamare alla memoria l’iniziativa, nel penultimo decennio del secolo scorso, tesa alla formazione di un assetto bipolare del sistema politico italiano. Rompendo schemi consolidati, essa intendeva promuovere una logica di due schieramenti alternativi oltre il punto fermo del “centro” con le ali della destra e della sinistra (la seconda molto più competitiva della prima). Una tale iniziativa si incrociò in realtà con una fase di sommovimenti che sconvolsero, con processi di destrutturazione e di ristrutturazione, le formazioni politiche storiche. Con l’avvento della coalizione dell’Ulivo, i cattolici, sia nella figura del suo esponente principale, sia per il contributo di formazioni politiche e culturali nelle quali essi si erano in vario modo aggregati, si qualificarono indubbiamente nel ruolo di protagonisti. E ciò dipese dall’ampio sostegno di appoggi dal basso che erano radicati in una disseminazione di esperienze organiche al contesto ecclesiale. Non penso solo al retaggio dei gruppi, più o meno sedimentati, che si esprimevano come “comunità di base” o si proponevano come “cristiani per il socialismo”, ma anche a quelli con connotati più ufficiali – si pensi alla FUCI e al MEIC o, ancor di più, alle Acli, attestate maggioritariamente a sinistra anche dopo il rientro dalla ‘scomunica’ per la enunciazione dell’ipotesi socialista. Non tralascerei le “scuole di politica” nate nelle realtà diocesane più avanzate.

In uno scenario di aggregazione del mondo cattolico, sarebbe impossibile trascurare il “Progetto culturale orientato in senso cristiano” della Conferenza episcopale italiana. Voluto e guidato dal cardinale Camillo Ruini, esso rappresentava certamente il tentativo di istituire una ‘cupola’ sotto la quale raccogliere la vita culturale del cattolicesimo e, per altro verso, conferirle una direzione centralizzata. Non convincono però le interpretazioni volte a mostrarne una finalità di tipo conservatore, per giunta a sostegno di un patto politico con il leader, allora indiscusso e oggi scavalcato, dello schieramento di destra. Del resto, chi partecipò ai forum degli intellettuali cattolici, punta di diamante del “Progetto culturale”, organizzati annualmente sotto la direzione dello stesso Ruini che li apriva con una relazione introduttiva, deve riconoscere di avere beneficiato di una completa libertà di pensiero e di parola anche su temi di natura socio-politica, senza impedimenti all’esercizio della critica.

Su altre sponde sempre di natura ecclesiale, un medesimo stile di libertà e di critica caratterizzava anche l’animazione culturale, promossa nella diocesi milanese, senza nessun sospetto di un uso politicamente discutibile, dal cardinale Carlo Maria Martini, che ai membri della Commissione “Giustizia e pace” raccomandava la trattazione di temi “di frontiera” con accentuata rilevanza politica (per esempio “autonomie regionali e federalismo solidale”, la “questione fiscale”).

Questa stagione caleidoscopica della politica è stata qui tratteggiata sommariamente, con l’omissione delle dinamiche interne al mondo sindacale, che negli anni ’70 del secolo scorso visse un momento intenso di organizzazione unitaria per iniziativa precipua della componente metalmeccanica a impronta ‘cattolica’, mentre successivamente non evitò divaricazioni sia nella tattica sia nella strategia.

 

 

  1. La frattura del circuito della decisione

 

A cavallo con il primo decennio del nostro secolo la ‘potenza’ di decisione della politica entra in una fase nella quale paga lo scotto della trionfante globalizzazione economica. Di fronte alla piega neo-liberista e alla lex mercatoria dominante a livello internazionale, le istituzioni politiche nazionali giocano di rimessa e il loro deficit non è compensato dall’attività legislativa della Unione Europea. I centri della decisione, quanto più divengono incalzanti i mutamenti economici e tecnologici, si allontanano non solo dal controllo e dall’incidenza delle rappresentanze di vertice, ma anche dall’intervento diretto dei cittadini. Questi ultimi, invece di trovare nei rappresentanti interlocutori credibili e operatori di scelte efficaci, vengono frastornati e delusi dalla loro preoccupazione affannosa della ricerca di visibilità e dall’acquiescenza alla invadenza mediatica. In effetti, la veicolazione spettacolare della politica apre le porte a un mutamento genetico della intermediazione, che subisce l’alterazione profonda della massmediatizzazione.

Per rimanere nel campo propriamente cattolico e scusandomi per il riferimento personale, ricordo che nel 2003, per un Convegno dell’Azione Cattolica Italiana dedicato al tema “Crisi e trasformazioni della democrazia. Il caso italiano”, mi fu chiesta una relazione dal titolo: “La democrazia tra apatia politica e nuovi movimenti”. L’espressione “apatia politica” era una cifra che metteva allo scoperto la crisi di un elemento essenziale della democrazia quale, appunto, quello della rappresentanza e, quindi, della politica come capacità di intermediazione tra istanze di base e luoghi della decisione. In questo periodo, le mobilitazioni per la pace e quelle di stampo ecologista a carattere trans-nazionale, pur moltiplicandosi, sono di fatto indirizzate a detentori remoti del potere decisionale, i quali sfuggono alla imputazione di responsabilità e non possono essere interlocutori di un conflitto efficace.  Inoltre, in mancanza di una ‘riforma’ deliberativa della democrazia, grazie alla quale l’assunzione delle decisioni potrebbe scaturire da un dibattito teso a conciliare interessi particolari e bene collettivo, le proteste in ambito locale di movimenti impegnati nella tutela dei territori e portatrici di bisogni vitali si cristallizzano in una conflittualità senza sbocco e affidata a fiammate estemporanee. Non mancano quindi le espressioni della politica in senso lato, ma esse si manifestano, per così dire, in presa diretta e, non avendo fiducia in una ricezione istituzionale, prendono spesso la china della contrapposizione non mediabile.

 

  1. La politica al bivio: chiusura o allargamento

Si è pure parlato genericamente di “antipolitica”, la quale si presta a valutazioni non omogenee. Il dato di fatto non contestabile è la lunga marcia di un atteggiamento di distacco dalla politica che culmina nel fenomeno crescente dell’astensionismo elettorale. Questo ha comportato da ultimo la conseguenza regressiva della salita al potere di una minoranza dell’elettorato, assurta alla vetta della maggioranza di governo.  Tirando le somme, è difficile non prendere atto di un processo complessivo di interruzione o di frattura del circuito decisionale, che in un assetto democratico dovrebbe connettere la volontà popolare con la sua elaborazione da parte di chi è investito del mandato decisionale. Lo scollamento, tra istanze che si collocano in modo crescente nella sfera dei bisogni vitali e dei desideri di vita buona e i luoghi della decisione politica, può imboccare due direzioni differenti. O la politica si chiude nella gestione separata dell’esercizio del potere, dando fiato alle accuse di arroccamento nel privilegio della “casta”, oppure si dispone, non senza discontinuità coraggiose, ad allargare l’orizzonte della comprensione del proprio compito.

Nel momento attuale stiamo sperimentando l’onda lunga di questa ambiguità radicale delle possibilità della politica. La stagnazione delle élites che sembrano occupare gli organigrammi dei partiti, e si consumano in contese interne nella disputa relativa a obiettivi percepiti come incomprensibili dal seguito popolare che dovrebbe fornire carne e sangue a organismi che rischiano uno stato patologico permanente e si espongono alla dissoluzione, dipende, a ben vedere, dalla contrazione delle ambizioni dell’agire politico nella miope visione dell’esistente e nelle pratiche di consorteria.

 

  1. La necessità di un cambio di paradigma

Imboccare la via della rigenerazione della politica, oltre la chiusura nelle strettoie di una controproducente autoreferenzialità, richiede la consapevolezza chiara e coraggiosa della indifferibilità di una inversione di rotta. Quest’ultima esige un cambio di paradigma in grado di far riprendere alla politica la sua funzione  “architettonica”, cioè di costruzione delle condizioni di una vita buona per ogni persona nel contesto di una convivenza giusta e conforme a equità.

Sgombrando il campo da equivoci, non si tratta di tornare a proporre una visione totalizzante della politica, legata allo slogan “tutto è politico” che poi si rovescia nello slogan –  invadente e distruttivo –  “il politico è tutto”. Tra le acquisizioni post-ideologiche nella visione della politica c’è il netto distacco dalle pretese illusorie e inconcludenti nelle quali la politica cade quando non accetta i limiti del proprio raggio di azione e di incidenza. Ma una politica liberata da improprie invasioni di campo, che quindi si ri-definisce nella portata dei fini da perseguire e nella ponderazione dei mezzi con cui realizzarli, non può non relazionarsi a obiettivi che trascendono la sua separatezza.

Un energico cambio di paradigma è quello che può riqualificare la politica nel rapporto costitutivo con un orizzonte etico-antropologico all’altezza delle funzioni alle quali è oggi chiamata al culmine del suo processo evolutivo. Se lo statuto della politica si è infatti definito, lungo l’arco della modernità, in relazione alle parole d’ordine dell’ordine e dell’utile, attualmente essa è chiamata a realizzare la dignità della persona: di ogni persona riconosciuta nella propria dignità-di-essere e nel diritto di fruire dell’equipaggiamento esistenziale che può darle consistenza, dalla decenza dell’abitare alla tutela della salute, all’accesso al lavoro, alla fruizione della libertà di movimento, alla condivisione della cittadinanza e alla scelte di compimento individuale e relazionale. Del resto ordine e utile sono attualmente suscettibili di realizzazione solo se si soddisfa l’istanza della realizzazione della persona o, meglio, delle persone; altrimenti si va incontro agli squilibri di posizione che minacciano sia  il mantenimento dell’ordine sia il perseguimento dell’utile.

 

  1. Il campo di incidenza dei cattolici nell’agire politico

Qui si spalanca il campo di incidenza dei cattolici nell’agire politico. Si tratta di capire quello che i cattolici, nel concreto della situazione storica, possono fare per propiziare il cambiamento di una politica altrimenti destinata a rimanere asfittica e senza prospettive. Con tutta evidenza, non si tratta di compiti per i quali i cattolici dovrebbero puntare su una riedizione di un partito unico, nel duplice collateralismo e nel nesso vizioso di politica e di istituzione ecclesiale. La mission politica dei cattolici non può non imperniarsi sulla interpretazione coerente ed esigente del bene comune e sulla capacità di renderla traducibile, sia con lo sforzo individuale sia in forme di opportuna aggregazione, nelle strategie concretamente operative.

D’altro canto, le posizioni programmatiche delle forze politiche tanto più dovrebbero risultare attraenti per i cattolici impegnati politicamente quanto più siano in grado di recepire istanze provenienti da parte dei cattolici. Ma non in quanto catalogabili come cattolici, bensì in quanto interpreti e propugnatori di finalità e di mezzi, congruenti ed efficaci, per dare corpo alle condizioni per la fruizione di una cittadinanza compiuta e inclusiva, con ‘tolleranza zero’ per coloro che la negano a chi ad essa aspira.

In sostanza, si tratta di capire cosa i cattolici possono oggi fare per la politica, allo scopo di conferirle lo spessore etico-antropologico di cui essa ha bisogno.  Entrando nel merito dei contenuti, si tratta di filtrare laicamente, nell’agenda politica e in decisioni conseguenti, l’enorme patrimonio di suggestioni derivanti dai documenti proposti da papa Francesco, specialmente nelle encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti. Le parole d’ordine della “ecologia integrale” e della “carità come principio della politica” meritano un’accoglienza non solo di facciata o ridotta a un superficiale ossequio formale; aspettano pertanto di essere tradotte in operatività pratica e in strutture istituzionali adeguate alla instaurazione di condizioni di convivenza fraterna su scala universale.

Occorre congiungere questa riflessione forzatamente di natura panoramica con perlustrazioni sul terreno dove tracciare cammini più determinati. In ogni caso i cattolici, contro le insidie di un pragmatismo dal fiato corto che si fa surrogato di una prassi illuminata da proiezioni ideali, dovrebbero essere in prima linea nel dare slancio e concretezza attrattiva al cambiamento di paradigma della politica come impresa umana complessiva. Fallire in questo compito significherebbe non tanto l’irrilevanza dei cattolici nella politica, ma piuttosto l’irrilevanza della politica in quanto tale.

 

Franco Totaro

02-01-2023

 

Nota Redazionale

* Franco Totaro , pugliese di nascita, si laurea all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano nel 1964. La sua sua formazione è segnata da figure di grande rilievo filosofico come Gustavo Bontadini, Sofia Vanni Rovighi, Virgilio Melchiorre, Emanuele Severino e Carlo Arata. Conduce un’intensa carriera di docente universitario, prima a Milano, poi a Venezia e quindi a Macerata, dove ricopre anche la carica di Prorettore, E’ al fianco del mondo sindacale ed associativo, in particolare di quello attivo nell’ambito del lavoro e della tutela dei lavoratori, dedicandosi alla formazione di dirigenti e di volontari. Significativo il suo contributo di pensiero a organismi del mondo cattolico milanese (Acli, Commissione «Giustizia e Pace») durante l’episcopato di Carlo Maria Martini.

 

 

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