Ancora l’imposta sulla casa?

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L’uscita improvvisa del presidente del Consiglio sull’abolizione (di nuovo…) dell’imposta sulla prima casa mi pare un pessimo segnale politico. Ancora una volta si compie una scelta regressiva, tarata esclusivamente sul metro della ricerca di un consenso superficiale della pubblica opinione. I motivi di questo mio giudizio si basano su almeno quattro ordini di ragioni convergenti.

In primo luogo, si tratta di una scelta socialmente regressiva: l’imposta sulla casa è l’unica patrimoniale di questo paese (salvo il modesto bollo fiscale sugli investimenti finanziari). Non vale dire che dietro alla proprietà delle case ci sono i sacrifici di due famiglie italiane su tre (il 67% circa sono proprietarie, contro il 44% della Germania). Perché in realtà tra il 20% dei redditi più bassi si scende a un terzo di proprietari, mentre tra il 20% dei redditi alti si sale al 91%. La proprietà è legata al reddito, anzi è reddito patrimonializzato (non occorre aver letto il grosso tomo di Piketty per capirlo). Le statistiche sull’età sono poi decisamente correlate: il premier giovanilista fa quindi una scelta gerontocratica? In tutto il mondo civile, invece, la tassazione sulla prima casa è presente e ha un effetto (spesso blando, ma non banale) di progressività fiscale. Aiutata dal fatto che è una delle tasse meno facili da evadere. A questo proposito, casomai, il governo dovrebbe spiegarci perché, dopo vent’anni di attese, sia stata inabissata in qualche cassetto ministeriale (lasciando scadere la delega legislativa) la riforma del catasto che era in dirittura d’arrivo, da cui ci si attendeva il superamento di macroscopiche diversità di trattamento.

Si tratta poi di una scelta che rischia di creare problemi altrove: meno spese o più tasse su altri delicati capitoli, dato che la coperta è sempre cortissima. Infatti, non a caso la Commissione europea ha obiettato. L’Italia ha un problema di bilancio ancora aperto, anche se san Mario Draghi finora con l’abbattimento degli spread ci ha fatto un consistente regalo in termini di riduzione della spesa per interessi. Ma lasciamo stare la polemica con l’Europa: già la cosiddetta «clausola di salvaguardia» della finanziaria scorsa prevede aumenti automatici di imposte e tariffe per 16 miliardi nel 2016 e 25 miliardi nel 2017, se non si rispettano i saldi di bilancio. E il governo si impegna per circa 4 miliardi di regalo ai ceti medio-alti? Certo, si può anche pensare che un punto di Iva o un aumento delle accise passino più nascosti e causino meno problemi di consenso, ma è un modo di governare moderno e progressista?

In terzo luogo, l’asserita funzione di “rilancio” dell’economia, e in particolare dell’edilizia, è del tutto aleatoria. Come possono le promesse di risparmiare le poche centinaia di euro che i proprietari di case pagano essere considerate un incentivo all’acquisto di case nuove per generazioni di giovani precari a basso reddito? Piuttosto, allora, una selettiva manovra delle imposte sul lavoro sarebbe molto più utile a questo fine. Oppure, se proprio si vuole insistere con misure populiste, allarghiamo la platea dei beneficiari dello sconto fiscale di 80 euro.

Infine – last but not least – la tassa sulla casa (e sui servizi locali) è l’unica simil-federalista, in capo ai comuni, che hanno anche alcuni margini di manovra sulle aliquote. Si è sempre detto che poter decidere sulle tasse è un sistema per avviare una progressiva responsabilizzazione degli enti locali. Le cui manovre fiscali possono essere un modo di “metterci la faccia”, rispetto al rapporto che giustamente i cittadini si aspettano tra imposte e servizi. Niente di tutto ciò: la promessa che “i sindaci saranno rimborsati paro paro” nasconde una nuova centralizzazione fiscale, dopo anni di proclamazione dell’importanza delle autonomie e di chiacchiere sulla essenziale funzione dei sindaci.

Tralasciamo l’aspetto politico della questione: il fatto che proprio su questo punto il Pd di Bersani ci ha lasciato le penne nel 2013, e anche il fatto che il programma del partito prevedeva tutt’altro. Che mai saranno questi dettagli?

 

Guido Formigoni

 

2 Comments

  1. Quello che risulta assurdo della “tassa sulla casa” (parlo di “prima casa”, perché sulle seconde case il discorso è diverso) credo sia soprattutto la farraginosità delle procedure in cui il cittadino medio si vede invischiato. Tasse che quasi ogni anno cambiano nome con i più fantasiosi acronimi, che vengono suddivise, che si devono pagare prima di sapere quale sarà l’aliquota, dovendo fare calcoli astrusi, compilare modelli, fare code se non si è così evoluti da saper fare tutto via home-banking… ricorrere a un commercialista o a un CAF (altra coda) per il solo calcolo. Per i meno avveduti (o i meno giovani, ricordiamo che l’Italia è paese di vecchi) tutto ciò è un ginepraio che facilmente riesce odioso; sa di vessazione, di burocratese illogico e indisponente. Passatoia di velluto per i demagoghi, la proposta di abolire il tutto. Le somme in gioco, per la prima casa, sono tutto sommato modeste e credo siano il problema minore.

  2. Le mie perplessità sull’imposta sulla prima casa sono di carattere generale: l’imposizione fiscale dovrebbe essere fondata principalmente sulle imposte sul reddito e quelle sul patrimonio dovrebbero avere carattere straordinario e temporaneo: ritengo che questo sia il miglior modo per assicurare in concreto il rispetto del principio (sacrosanto) fissato dall’art. 53 Cost. (“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”).
    Ritengo anche che sia rischioso valutare l’equità di una imposta sulla base di presunzioni fondate su dati statistici: preferisco che si faccia riferimento ad un dato che riguardi i contribuenti uno per uno (il reddito, appunto, che dovrebbe essere possibile rilevare in maniera corretta: si apre qui il problema dell’evasione fiscale, ma scegliere una patrimoniale mi pare un modo di aggirare il problema, che andrebbe invece affrontato con grande determinazione).
    L’esigenza – validissima, come ha ben illustrato Formigoni – di assicurare risorse agli enti locali in una logica di autonomia e responsabilità può essere raggiunta anche con una imposta sul reddito.

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