Un altro modello socio-economico per le future generazioni

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Anche per via della pandemia, sembra che il pensiero economico neo liberista, dominante ormai da quarant’anni, sia entrato in crisi. La concentrazione della ricchezza nelle mani pochi, accentuatasi enormemente negli ultimi anni, è incompatibile con la democrazia. L’iniziativa della tassazione delle multinazionali della Rete è un segnale di ripensamento. Tornano le parole d’ordine degli anni settanta, riprese dai movimenti no global dei primi anni Duemila. Si torna a pensare che un altro modello socio-economico, “un altro mondo”, sia possibile.

L’articolo, qui lievemente modificato, è uscito su “Via Po – Economia”, supplemento al quotidiano della Cisl “Conquiste del lavoro” del 30 agosto.

 

 

A partire dalla primavera del 2020 la diffusione della pandemia in tutto il mondo ci ha fatto toccare con mano che ormai la “globalizzazione”, che è una tendenza naturale, non riguarda soltanto l’economia o la finanza, ma coinvolge le nostre vite e i nostri comportamenti quotidiani. Dallo studio della storia, e dall’osservazione dei fatti contemporanei, ci rendiamo conto che non possiamo più prescindere dalla visione-mondo, anche quando cerchiamo di rispondere ai problemi del nostro territorio. Il concetto di glocal (che tiene insieme il globale con il locale) è perciò ricco d’implicazioni pratiche.

Se dovessimo fare una suddivisione per fasi storiche dell’evoluzione dell’economia e del pensiero economico dopo l’Ottantanove, lo schema da utilizzare potrebbe essere il seguente. In un primo tempo prevalse l’idea che, con l’abbattimento dei regimi comunisti dell’Urss e dei paesi dell’Europa dell’est, l’unico sistema economico possibile non poteva che essere quello che si stava già sperimentando ed era personificato da Reagan e Thatcher. Chi pensava diversamente doveva mettersi il cuore in pace perché la storia era ormai finita. Margaret Thatcher al potere dal 1979 era al secondo mandato (1987) quando assiste al crollo del Muro di Berlino; la sua politica fu caratterizzata dalle privatizzazioni delle imprese pubbliche (gas, petrolio, elettricità, ferrovie) e da un duro attacco contro il potere delle organizzazioni sindacali (la sindacalizzazione passò dal 55% al 40% dei lavoratori iscritti). La patria del “welfare state” di John Maynard Keynes (1883-1946) e di William Beveridge (1879-1963) trovò nella Signora Thatcher una controparte ideologica senza precedenti. Negli Stati Uniti Ronald Reagan fu eletto per la prima volta nel 1980 e rieletto nel 1984; la sua politica, ispirata dalla “scuola di Chicago” di Milton Friedman, prese il nome di “reaganomics” (alleggerimento della pressione fiscale e taglio delle spese sociali federali). Il suo successore George Bush (1989-1995) seguì la stessa strada.

Lo studioso francese Bernard Badie nel 1992 scrisse un libro nel quale la mondializzazione veniva descritta come la costituzione di un sistema internazionale (dominato dall’Occidente) che tende alla unificazione delle proprie regole, dei valori e obiettivi, pretendendo di integrare al suo interno l’insieme dell’umanità e incitando il Sud del mondo ad adattarvisi. E l’attivista ambientalista indiana Vandana Shiva aggiungeva che la mondializzazione non comporta la fecondazione incrociata delle diverse civiltà, ma l’imposizione agli altri di una cultura propria. Se ne sono accorti per primi i giovani quando nel novembre del 1999 a Seattle contestarono il vertice dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC); il loro slogan era: “un altro mondo è possibile”. A due anni di distanza la contestazione proseguì a Genova in occasione del vertice del G8. Il monolitismo liberista ed economicista comincia così ad incrinarsi.

Gli anni Duemila andrebbero analizzati in maniera articolata. Nascono all’insegna dell’attacco alle Torri gemelle degli Stati Uniti. La contestazione all’Occidente, da parte di settori dell’islam, si trasforma in guerra aperta con diffuse azioni terroristiche che portano la morte in diverse capitali. Ma questo tipo di terrorismo è anche una lotta interna al mondo islamico per imporre la propria egemonia.

Nel frattempo il mondo progressista e liberale occidentale non aveva capito il significato della rivoluzione iraniana del 1979 che portò al potere l’ayatollah Khomeiny; la commistione tra politica e religione veniva attuata proprio da chi era stato accolto in Francia, patria della laicità. Alcuni analisti propongono di considerare la rivoluzione iraniana come momento simbolico periodizzante l’avvio di una fase dell’epoca contemporanea.

Oggi l’OMC (in inglese WTO) istituita nel 1995 come evoluzione dei preesistenti “Accordi Generali su Commercio e Tariffe” (GATT), conta 164 Stati membri e copre circa il 93-95% degli scambi commerciali mondiali. Nacque con l’obiettivo di favorire una liberalizzazione degli scambi commerciali in ambito globale, attraverso la regolamentazione e la riduzione delle barriere tariffarie al commercio internazionale. Dal febbraio di quest’anno il direttore generale per la prima volta è una donna e un’africana, Ngozi Okonjo Iweala. La Cina, con le proprie originali caratteristiche economico-politiche (comunista in politica, liberista in economia), vi entra nel 2001 e durante il periodo nazionalista di Trump partecipa alle assisi internazionali come “campione” del libero scambio. La crisi finanziaria esplosa nel 2008, frutto di una bolla speculativa sul mercato immobiliare americano, rivelava il fallimento della politica economica. Tommaso Padoa-Schioppa, che definì la crisi come uno dei molteplici squilibri dell’economia mondiale, ricorda che quando era ministro nel secondo governo Prodi del 2006 il mondo dormiva il sonno dogmatico della perfezione del mercato. Dopo il fallimento di Lehman Brothers, negli Stati Uniti venne varato un piano di 700 miliardi di dollari e nell’anno successivo il nuovo residente Barack Obama approvava un altro piano di 787 miliardi di dollari.

Nel 2019 il commercio mondiale di beni e servizi si aggirava intorno ai 19mila miliardi di dollari. La quota di mercato sulle esportazioni mondiali è così distribuita: Unione Europea 31,28%, Cina 14,91% Stati Uniti 8,22%. Nelle importazioni l’UE continua ad essere la prima, seguita dagli Usa e infine dalla Cina. Secondo la classifica Global 2000 Forbes in termini di profitto al primo posto si colloca la ICBC (Industrial e Commercial Bank of China) con un profitto superiore ai 45 miliardi di dollari. Se guardiamo il valore di mercato delle aziende ormai prevalgono nettamente quelle tecnologiche legate alla rete Internet che vengono riassunte nell’acronimo GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) che raggiungono i 7.800 miliardi di dollari. Si tratta di un oligopolio impressionante che ha fatto dire al giudice della Corte suprema statunitense Luisbranders : “Possiamo avere la democrazia, oppure possiamo avere la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe le cose”.

Anche durante il lungo periodo della pandemia le aziende legate al web hanno aumentato i profitti. Al recente vertice dei ministri dell’economia, della finanza e dei governatori delle banche centrali del G20 di Venezia (i cui paesi rappresentano l’80% del Pil mondiale) si è finalmente deciso di tassare con un’aliquota del 15 % (la Gobal Minimun Tax) le multinazionali della Rete. Un’altra decisione storicamente rilevante, perché oggetto di mobilitazioni collettive dell’ultimo ventennio in tutto il mondo, è stata quella di ridurre il debito dei paesi poveri. Il peso della finanza sull’economia reale si era già fatto sentire con i dati del 2000, analizzati da Luciano Gallino. Il volume di capitali controllati e gestiti dagli investitori istituzionali (fondi pensione, fondi di investimento, compagnie di assicurazione) superava nei soli paesi Ocse i 30mila miliardi di dollari, che corrispondeva come ordine di grandezza al PIL di un anno del mondo intero, peraltro superato dopo quattro anni.

Con la pandemia, l’oscillazione del pensiero economico ritorna al punto di partenza, quello enunciato negli anni ’70, quando si rivendicava un nuovo modello di sviluppo socio-economico basato sulla promozione del lavoro e quindi della centralità della persona. Oggi si torna a pensare che un altro modello di sviluppo sociale ed economico è non solo possibile, ma necessario per la salvezza del pianeta nel quale vivranno le future generazioni.

 

Salvatore Vento

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