Tra il buon Samaritano e Charles de Foucauld: la fraternità di papa Francesco

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“In papa Francesco quello che di definitorio sembra assente riemerge – e perfino con maggiore forza radicale – nel dato di esperienza. Non sarà che, sotto uno stile discorsivo, stia in realtà un non esibito, ma saldo, fondamento antropologico e teologico di nuovo tipo, più che una debolezza teoretica?”.

Questo l’interrogativo che l’autore, professore emerito di Letteratura cristiana antica all’Università Cattolica, si pone nelle conclusioni dell’editoriale dedicato all’enciclica “Fratelli tutti” e  pubblicato nell’ultimo numero di “Appunti di cultura e politica”, rivista bimestrale dell’associazione “Città dell’uomo”, edita dalla Morcelliana (qui il sommario).

Lo riproduciamo qui integralmente per concessione dell’autore.

 

di Luigi Franco Pizzolato

 

La nuova enciclica di papa Francesco Fratres omnes (Fratelli tutti) riprende, in un quadro più spiccatamente antropologico, la visio­ne cosmologica della Laudato si. Anche qui il legame che unisce è la dipendenza crea­turale dell’umanità da Dio, che, in quanto Padre, rende fratelli e sorelle le Sue creature. Da secoli è in corso una frattura all’inter­no dell’unità, che qui si ristabilisce, tra Dio, esseri umani, mondo. La  concezio­ne medievale tendeva più spesso a tene­re uniti, sotto una visione schiettamente creazionistica, gli esseri umani e il mondo, collocandoli, tremebondi, sotto il dominio di Dio, loro creatore e signore e giudice. Per vero, già Francesco d’Assisi aveva decli­nato quell’unità di tutti gli esseri creati co­me fraternità e sororità, nella dipendenza da un unico principio che era Padre, donde scaturiva legittimamente il dirsi figli e fra­telli.

Con l’Umanesimo aveva avuto inizio una svolta antropologica, che era consisti­ta in una divinizzazione dell’essere umano (si pensi al de hominis dignitate di Pico del­la Mirandola), che veniva separato dalla na­tura inferiore e collocato sopra di essa, fa­cendolo diventare dominus e una specie di Dio del creato. Quel principio del primato dell’essere umano aveva agito a lungo, potenziandosi grazie alle scoperte scientifiche accelerate, fino a rendere il mondo manci­pio dell’uomo, e fino a rendere poi l’uomo stesso indipendente da Dio e padrone asso­luto di sé, oltre che del mondo. Questo pro­cesso di secolarizzazione dell’essere umano, producendo un distacco suo e della real­tà creata dalla trascendenza divina, faceva perdere progressivamente il senso della dipendenza creaturale da Dio e inseriva, nello sviluppo che da Bruno conduce a Spinoza, mondo e uomo dentro l’ambito di una Na­tura divinizzata, dove le realtà si accomu­nano in quanto partecipi di questo princi­pio, che però non ha il volto di un Padre, ma di un’entità astratta: Deus sive natura. Nell’assenza di un padre, la fraternità tra esseri o scompariva (non si è figli, ma prodot­ti tutti di un principio impersonale) o di­ventava una pura metafora.

Papa Francesco riprende l’antico sentiero interrotto, ma non by-passando i nuovi per­ corsi intrapresi sul rapporto uomo-mondo e uomo-uomo dai tempi moderni, bensì pro­ponendo, con il suo stile, una visione che si fonda sulle risultanze esperienziali più che sulle deduzioni teoretiche. Egli ama narra­re esperienze e, per la loro fondazione teo­retica, di cui rispetta il valore ma che non predilige, lascia volentieri la parola ad altri, magari ai suoi predecessori (nn. 273-274). E vi si mette al riparo.

La Laudato si’ tornava a proporre la comu­nanza dell’essere umano con la natura, con­siderando, francescanamente, fratelli e so­relle le realtà del mondo, sotto lo sguardo di Dio, Padre di ogni cosa. Questo dato fonda un comportamento fraterno verso il mon­do, che diventa consapevole e responsabi­le nell’essere umano, il quale, da custode e coltivatore, accompagna il fratello mondo a realizzare quella che per tutti è la volontà di Dio Padre (è quella che un tempo si chia­mava la consecratio mundi). La Fratres omnes riprende quel discorso declinandolo pro­priamente nel rapporto tra uomini, posto sotto lo stesso sguardo. Ma papa Francesco è consapevole che la scelta di fraternità og­gi, laddove non sia giudicata  ininfluente (e, anzi, talora ingenua e dannosa: per l’eco­nomia, per lo sfruttamento delle risorse, per lo spirito di potenza… ), corre lungo questa alternativa: fraternità naturale o creaturale? Siamo, cioè, fratelli e sorelle in senso meta­forico, in quanto derivanti dalla Natura, o fratelli e sorelle in senso proprio, in quanto derivanti da uno stesso Padre? La nostra re­ligione – si sa – invita alla seconda, tanto da chiamare Dio non solo Padre, ma addi­rittura abbà, “papà” (Rm 8,15), con un co­lore perfino affettivo, tanto estraneo al cere­brale Paolo.

La scelta di papa Francesco non può che es­sere quella creaturale, cioè della fraternità basata sul concetto di creazione di Dio che affratella gli esseri e che all’essere umano, fatto a sua immagine, chiede imitazione, in quanto e nel senso che è chiamato a eserci­tare il suo principatus sulle realtà al modo del Padre. Ma non rifiuta di prendere in con­siderazione un aspetto di  comunanza  so­lo naturale,  che si  prende  cura dell’uomo e del mondo non per un’identitaria ispira­zione religiosa, bensì per un senso di pros­simità naturale, per cui «siamo tutti sulla stessa barca» (n. 30). Come ha fatto il buon Samaritano, superiore perfino all’atteggia­mento dei religiosi indifferenti. Anzi, pro­prio  dall’icona del buon Samaritano, con i suoi gesti tutti umani e non motivati reli­giosamente, parte l’enciclica. E, simmetrica­mente, si chiude con la spiritualità nazare­na di Charles de Foucauld, che contrae con l’uomo un rapporto d’amore non religiosa­mente esibito, ma vissuto come dialogo e donazione che precedono lo stesso annun­cio kerygmatico. AI modo in cui, nella vita, cosiddetta nascosta, di Gesù  nei trent’an­ni di Nazaret, Egli non ha predicato né de­clinato generalità religiose, ma è vissuto da fratello e concittadino tra uomini. In questa fraternità si vive la fede, non per la fede, co­me diceva Hermann Broch.

Papa Francesco sembra quasi più preoccu­pato di trovare il senso cristiano di questa umanità che di fondare una umanità cri­stiana. Anche se «la fede colma di motiva­ zioni inaudite il riconoscimento dell’altro» (n.  85). Ma viene da  pensare che il nostro Dio è un grande e inaudito Dio, se è vero che gli piace – o almeno gli basta – giudi­care l’uomo a partire più dai gesti di prossimità verso l’uomo-fratello che non verso di Sé. Non c’è solo una sovrana estranei­tà rispetto alla tradizionale «invidia degli dei» (phth6nos theon), ma una implicazio­ne per spogliazione di Sé, quando Egli in­dica agli esseri umani l’identità tra amore di Sé e amore degli uomini (i due precetti sono simili) e, anzi, pone a fondamento del Suo giudizio di accoglienza e dell’agire umano la pista preferenziale dell’amore fra­terno, più ancora che dell’amore verso Dio (Mt 25,31 ss.).

Dalla necessità di tenere presenti le due visioni  di  fraternità, senza contrappor­le, discende lo stesso linguaggio di papa Francesco, che non pretende la concatena­zione logica della dimostrazione e nemme­no un linguaggio dottrinale. Certo, anche la Fratres omnes risente nel suo corpo di una certa elefantiasi: sembra che un papa sia te­nuto dalla tradizione pontificia a include­re in una enciclica tutto un universo, per timore che appaia dilettantesca o parziale. Però, mentre le classiche encicliche sociali – e pressoché tutte le encicliche moderne in genere – hanno bisogno di mediatori lin­guistici che ne rendano fruibile il ragiona­mento tecnico, di fronte a questa encicli­ca la mentalità intellettualistica occidentale potrebbe richiedere stavolta, casomai, me­diatori alla rovescia, verso l’alto, che forni­scano un inquadramento e un ispessimento culturale (una glossa, cioè una ermeneutica), per paura che un linguaggio così diretto e comprensibile faccia passare per superficia­li e banali realtà profonde agli occhi raffi­nati della cultura occidentale. Nel mondo antico, era la parola la molecola del discorso teologico, e poi lo diventò la proposizio­ne, ora in papa Francesco lo è la narrazio­ne. La Fratres omnes è scritta veramente in un sermo humilis, non solo perché lingui­sticamente comprensibile, ma anche perché concreto e narrativo, epidittico, cioè «che mostra» (non di-mostra). La Fratres omnes è scritta da quel Francesco che sa che le pecore ormai sono più numerose al di fuori del recinto occidentale dove prosperano le glosse e si preoccupa di più che una sofistica­ta elaborazione non diventi il nascondiglio in cui si cela, fino a scomparire, la potenza e la carica impegnativa del messaggio. Tale è l’ evidenza e tanta la pervasività di questo stile nella enciclica che ci sentiamo esentati dal segnalarne esempi particolari.

Allo stesso modo papa Francesco ha paura che un cristianesimo culturalizzato screditi l’idea di popolo. Il concetto di popolo è in­ fatti un altro caposaldo dell’enciclica e su di esso a lungo vi insiste. Non si tratta di esseri umani e umanità come idee astratte illumi­nistiche – e di lì poi liberal-massonico-bor­ghesi e socialiste -, ma di esseri umani nel loro radicamento in un territorio fisico e culturale e, più comprensivamente, in una relazionalità, di cui il papa, accreditando le piste di una teologia  contemporanea, vede i fondamenti nella stessa Trinità (n. 85).

Con questa categoria della  relazione  pa­pa Francesco entra nel dibattito sulla fra­ternità politica e, anzi, pone essa al culmi­ne. Tramontato  ormai il pericolo marxista – che, dopo Berlusconi in Italia, solo Trump ormai va agitando -, la fraternità  politica  è messa oggi in discussione dal liberismo individualistico (n. 105), che sbandiera sì i princìpi di libertà fraternità uguaglianza, ma non tiene conto della diversa o insus­sistente possibilità storica di accedervi  per tutti (n. 110), trasformandoli in astratte de­clamazioni. Si ripropone, a ben vedere, la stessa ragione che ha messo in moto alla fi­ne del sec. XIX la «questione sociale» den­tro la Chiesa. E che ha fatto prendere nuo­va coscienza alla Chiesa del discorso della destinazione sociale dei beni del mondo, e della loro proprietà, considerata non un di­ritto assoluto e giudicata di diritto natura­le «secondario» (n. 120), mentre è l’uso co­mune dei beni a essere naturale e originario, perché li mette al servizio di tutti gli uomi­ni e, aggiunge di suo papa Francesco, del rispetto del mondo (n. 122). Sembra che al proposito papa Francesco, consapevo­le di essere classificato un “papa comuni­sta”, si tuteli: lo fa citando continuamente, per questa parte, suoi illustri predecessori, esenti da tale pericolosa nomea: Paolo VI e soprattutto Giovanni Paolo II. In realtà, il principio della destinazione universale dei beni è da sempre dottrina della Chiesa, che a partire dalle sue origini arriva dentro il Concilio Vaticano II, nella Gaudium et spes. E la destinazione vale non solo per il super­fluo, ma anche in certi casi per il necessario: «Si deve sempre tener conto di questa desti­nazione universale dei beni. L’uomo, usan­do di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unica­mente a lui ma anche agli altri» (Gaudium et spes, 69).

La presenza, in un passato che tuttora ri­cordiamo, di un bipolarismo ideologico, social-marxismo e liberal-capitalismo, fa­ceva sì che la dottrina sociale della Chie­sa, che entrambi condannava sotto diffe­renti aspetti, fosse scambiata per una «terza via» ideologica e non come l’esplicitazione di un criterio morale di valutazione di ogni invenzione umana. Ora, decaduta po­liticamente l’opzione comunista, la critica di papa Bergoglio si appunta di più con­tro il liberismo e il populismo. Ma queste non sono due posizioni omogenee, perché solo il liberismo è una ideologia (di ascen­denza antirelazionale, russoiana e ideali­stica), mentre il populismo è, per il papa, un modo di fare politica che può inquina­re ogni tipo di ideologia, di destra o di si­nistra (n. 159). Non c’è nella enciclica una vera definizione di populismo, che per al­tro è difficile formulare con precisione, ma si avverte che papa Francesco lo intende, in senso morale più che istituzionale, come un’abile strumentalizzazione dei bisogni o dei desideri del popolo, ai fini di acquisi­re un potere personale o di gruppo. Non ci stupisce. Questo è un papa nelle cui vene scorre il sangue dell’America Latina, per­corsa da tanti peronismi, che, nel nome del pueblo, lo usavano come massa di manovra contro i propri avversari; legandolo diret­tamente al leader più che promuovendolo nelle sue espressioni articolate e relazionali. Ma il papa Francesco, che ha conosciuto i lati negativi del populismo sudamericano, vede anche il pericolo che oggi è connes­so con il termine «populismo» in Occiden­te: di essere un mantello, o una maschera, che l’ideologia borghese, che ormai ha per­so per strada l’antagonista storico – cioè il comunismo-marxismo-, getta volentieri addosso, per squalificarla, a qualsiasi idea o azione che attentino all’individualismo e al capitalismo. Come una volta per offende­re l’avversario politico l’ideologia borghese usava – a proposito e a sproposito – il ter­mine e l’epiteto di «comunista». Sicché «po­pulismo» rischia di diventare l’offesa infamante che è lanciata «verso tutti coloro che difendono i diritti dei più deboli della so­cietà» (n. 165). Anche per questo il papa vuole sottrarre al concetto di «populismo» l’idea di «popolo», che incarna in sé i valori depositati e le pulsioni d’una comunità di base. Per cui il popolo è una realtà comu­nitaria – più che un’idea – che si forma, at­traverso storiche esperienze, nel senso del­la relazionalità del personalismo (n. 182), e valorizza anche i fatti istituzionali e gli or­ganismi di mediazione.

All’interno del popolo, un papa che viene dal Sud del mondo e da quella idea di po­polo (pueblo) che non è estranea alle pul­sioni post-moderne, riporta in auge la so­stanza piacevole e viscerale della fraternità, che oggi può dare sangue e cuore a una po­litica che ha lasciato l’esclusiva delle emo­ zioni all’antipolitica (questa sì «populista») o al vitalismo irrazionale delle destre na­zional-sovraniste (se non addirittura razzi­ste). La moderna mentalità occidentale in sede politica ha elaborato di più una ca­rità imposta e mediata razionalmente dal­le istituzioni politiche, il papa vede il bi­sogno di «poeti sociali» e di «artigiani delle pace». Apprezza sì la programmazione e l’istituzionalizzazione politica della frater­nità (n. 196), ma la vuole valorizzare ancor di più nella sua forza primigenia che emer­ge nei movimenti (n. 169), dove l’amo­re «imperato » (cioè ordinato e comandato dalle strutture politiche) è preceduto e re­so amabile, al di là dell’obbligo che le isti­tuzioni impongono, da un amore «elicito», cioè da una spinta verso l’altro che nasce spontaneamente dal senso ingenito di fra­ternità umana (n. 186): «Anche nella poli­tica c’è spazio per amare con tenerezza [.. .] “i più deboli, i più poveri debbono intenerirci: hanno ‘diritto’ di prenderci l’anima e il cuore”» (n. 194).

La forza della fraternità contrasta anche una visione tecnocratica della politica (que­sto mi pare che papa Francesco intenda per politica come «fisica»: n. 210), che calcola «vantaggi e svantaggi» (ibi), più che «bene e male». Questa politica fisica cura quello che chiamiamo l’interesse generale (la mag­gior forza numerica o contrattuale dei vari interessi) e non il bene comune, che è ciò che promuove tutti; e così riesce a fare solo perché conserva aperto con tutti un dialo­go e una graduazione nelle possibili «diver­se normative pratiche» che la politica deve assumere.

La negoziazione di papa Francesco conosce i percorsi costruiti «alla scrivania» (che chia­ma «architettura della pace»), ma si sente più vicino a un «artigianato della pace», cioè a «trasformazioni artigianali operate dai po­poli» (n. 231), soprattutto mediante atti di memoria e di perdono, che sono atti perso­nali comunitari, più che politici; senza l’in­giustizia della smemoratezza e senza cade­re nel circolo della vendetta (nn. 252-253). Il papa in qualche misura ci invita a correg­gere la nostra mentalità di occidentali, più adusa a cogliere la primarietà delle ideolo­gie nei processi storico-politici, e ci propo­ne invece esemplarità personali e il valore dei gesti personali. Anche se una corretta distinzione tra idea e soggetto è proprio ciò che rende possibile sia il ricordo, come atto cognitivo che non dimentica, sia il perdo­no, come atto volitivo, che prova misericor­dia per chi ha compiuto quell’atto.

La radicalità di papa Bergoglio, veramen­te Francesco, riconduce dentro la Fratres omnes l’utopia della pace assoluta e del­la condanna assoluta della guerra (n. 260), che fu di papa Giovanni. Quel principio, confinato – come si sa – solo in una nota della Gaudium et spes (80, nota 2), era sta­to proclamato nella Pacem in terris (n. 67): «In questa nostra età, che si vanta della po­tenza atomica, è estraneo alla ragione che la guerra sia ormai uno strumento idoneo a risarcire i diritti violati». Papa Bergoglio aggiunge di suo il motivo della intercon­nessione tra popoli, che porta le guerre parziali a diventare inevitabilmente guerre mondiali compiute «a pezzi» (n. 259).

Dovremmo abituarci e, anzi, essere già abi­tuati: in papa Francesco quello che di defi­nitorio sembra assente riemerge – e perfino con maggiore forza radicale – nel dato di esperienza. Non sarà che, sotto uno stile di­scorsivo, che sembra così allergico alla defi­nitorietà (e la lascia volentieri ad altri, senza contestarli, anzi utilizzandoli), non stia in realtà un non esibito, ma saldo, fondamen­to antropologico e teologico di nuovo tipo, più che una debolezza teoretica? Non si po­trebbe forse ripresentare con papa Bergoglio l’enigma di papa Roncalli e del suo Conci­lio? Un enigma che forse è più compren­sibile oggi nell’epoca post-moderna della liquidità e della destrutturazione dei valo­ri, ma che continua a scandalizzare gli Scri­bi e i Farisei.

 

Luigi Franco Pizzolato

professore emerito di Letteratura cristiana antica – Università Cattolica del Sacro Cuore

 

 

 

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