Quel reddito secondo Francesco: reddito universale e pandemia

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La vita dopo la pandemia[1]: è quasi un manifesto il titolo di uno degli e-book gratuiti che la Libreria Editrice Vaticana ha pubblicato per condensare gli interventi pontifici nella fase più dura dell’epidemia in Italia. La raccolta è funzionale ad articolare un ragionamento sull’idea di mondo che sta scaturendo dagli effetti del coronavirus come vicenda che deve ancora dispiegare in pienezza la vastità delle proprie ferite.

Se c’è vita dopo la pandemia, che segno ha? È nel tentativo di rispondere a questa domanda su un piano sia spirituale che materiale che si traduce la forza del Papa. È possibile intersecare la dimensione religiosa affidata all’evento storico in corso con uno strumento concreto (il reddito) che il Papa, assieme a fonti ecclesiali di un certo livello, ha usato in modo non tanto estemporaneo. Una prospettiva non occasionale, che indica anche alcune suggestioni affascinanti per chi è operatore del politico, pur nella distanza e differenza tra la prospettiva cristiana e le categorie materialiste. Il reddito universale è suggerito nella missiva pontificia del 12 aprile 2020, Domenica di Pasqua, ai Movimenti Popolari. Si può provare a contestualizzarla, delineando le ragioni per cui prenderla in considerazione senza considerarla una uscita paternalistica o demagogica, quanto piuttosto il pezzo di un più ampio ragionamento sulle politiche da parte delle strutture ecclesiali e di significativi opinion makers cattolici: discorsi capaci di efficacia mobilitativa verso reti organizzate e segmenti di credenti e in quanto legittimazioni sostanziali per l’operato pubblico di soggetti collettivi e individui.

La disamina affronterà tre argomenti: l’inserimento del reddito nel magistero, inquadrando i principali punti dottrinali; il contenuto e tempo in cui si propone l’intervento del Papa; le implicazioni del tema e le prospettive future.

 

Il senso del reddito per il cattolicesimo: il viaggio della dottrina sociale

La disamina deve tener conto della risposta possibile ad un primo nucleo di domande: perché un Papa dovrebbe parlare di reddito o di salario? Con che prospettiva? Nella dottrina sociale della Chiesa il lavoro, la moralità, la responsabilità verso la comunità sono sempre profondamente intrecciati con lo strumento del salario. Il senso della dignità dell’opera umana proposto dall’Antica Scrittura[2] si unisce ad un tratto chiarito da San Paolo e dagli Atti degli Apostoli[3]: i discepoli che si avventurano fuori da Gerusalemme per la predicazione della Buona Novella devono essere di esempio tramite la loro intera vita. Scrivendo alla comunità di Tessalonica, Paolo ricorda:

Noi infatti non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuni di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darci a voi come modello da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità[4].

La dottrina sociale, branca della teologia morale formatasi nel corso dell’Ottocento[5], considera il lavoro centrale sia per soddisfare il bisogno primario dell’esistenza sia come espressione creativa dell’individuo nel contributo alla Creazione. Il lavoro è fonte del diritto alla proprietà di beni che tuttavia dispongono di una complessiva destinazione universale, è azione che conferisce valore. Una dimensione quasi ascetica che, dall’inizio della rivoluzione industriale, si univa al bisogno crescente di correggerne le storture con gli strumenti dell’associazione tra lavoratori e della maggior tutela legale possibile in una società cristianamente ordinata. Il magistero pontificio in materia prende le mosse dall’enciclica Rerum Novarum, che raccoglie, peraltro, la riflessione intellettuale di studiosi come Giuseppe Toniolo. Leone XIII, soffermandosi sul ruolo della retribuzione, scriveva:

La quantità del salario la determina il libero consenso delle parti: sicché il padrone, pagata la mercede, ha fatto la sua parte, né sembra sia debitore di altro. Si commette ingiustizia solo quando o il padrone non paga l’intera mercede o l’operaio non presta tutta l’opera pattuita; e solo a tutela di questi diritti, e non per altre ragioni, è lecito l’intervento dello Stato. […] L’operaio e il padrone allora formino pure di comune consenso il patto e nominatamente la quantità della mercede; vi entra però sempre un elemento di giustizia naturale, anteriore e superiore alla libera volontà dei contraenti, ed è che il quantitativo della mercede non deve essere inferiore al sostentamento dell’operaio, frugale si intende, e di retti costumi[6].

La giusta mercede è ancorata ad una lettura etica della giustizia, necessaria per le fondamenta del regno sociale di Cristo da cui allontanare la tenebra rivoluzionaria. Dall’enciclica Quadragesimo Anno[7] tutti i principali documenti pontifici relativi alla dottrina sociale interpellano il valore del salarioMater et Magistra[8]Populorum Progressio[9]Octogesima Adveniens[10], Laborem Exercens[11], Centesimus Annus[12]. Pur confrontandosi con fasi storiche di diverso tenore, confermano la centralità morale che troverà esposizione sistematica nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa (2004). Ai numeri 302 e 303 il Compendio si sofferma sul «diritto all’equa remunerazione e distribuzione del reddito»: è «giusta» la remunerazione quando non è «inferiore al sostentamento» del lavoratore per la prevalenza della giustizia naturale sulla libertà del contratto. Il salario è ancorato al benessere economico del Paese e alla presa in carico di «meriti e bisogni di ogni cittadino». La destinazione universale di un reddito non è quindi presa in considerazione nella dottrina sociale, pur nella sempre più ampia assunzione di responsabilità verso le ingenti disparità emergenti dal capitalismo. Sulle riflessioni cattoliche del Novecento e del nostro secolo spira anche il complesso vento del Concilio Vaticano II, che nella costituzione Gaudium et Spes aveva evidenziato quattro punti cardini per le posizioni magisteriali sulla vita economica: il fine dello sviluppo nel «servizio dell’uomo […] integralmente considerato [nelle] esigenze della sua vita intellettuale, morale, spirituale e religiosa» (n. 64), «lo sviluppo economico […] sotto il controllo dell’uomo» (n. 65) e non sotto «l’arbitrio di pochi uomini o gruppi che abbiano in mano un eccessivo potere economico, né della sola comunità politica, né di alcune nazioni più potenti», lo sviluppo «di ogni gruppo umano, di qualsiasi razza o continente» (n. 64), lo sviluppo come dovere solidale dell’umanità[13]. Infine, Benedetto XVI aveva ribadito in Caritas in Veritate[14] la critica alla deregolamentazione dei rapporti di lavoro e la priorità dell’accesso universale ad un lavoro stabile e dignitoso, actus personae ancorato alla libertà del singolo come alla redistribuzione delle ricchezze. Anima delle puntualizzazioni di Benedetto era il bene comune, bene materiale della città dell’Uomo, bene relazionale nella società umana, bene spirituale come rapporto con il Divino. Consideriamo tali assunti per disporre delle chiavi interpretative corrette per “leggere” Bergoglio.

 

Il reddito secondo Francesco 

Prima della dichiarazione di aprile, un’altra occasione aveva segnato il punto di vista del Papa. Genova, 27 maggio 2017, in contemporanea col G7 di Taormina: visita pastorale al capoluogo ligure con tappa all’Ilva di Cornigliano[15]. Una lavoratrice interinale aveva interrogato Francesco, il quale, partito dal riscatto sociale propugnato dalla lavoratrice nella dialettica tra sviluppo tecnologico ed occupazione dignitosa, illustrava il problema del ricatto sociale insito ad ogni proposta di lavoro precaria. Nella sua presa di parola, lo snodo resta la dottrina sociale e la connessione tra salario, dignità della persona e lavoro, che trova fondamenta complementare nella Costituzione:

La Dottrina sociale della Chiesa ha sempre visto il lavoro umano come partecipazione alla creazione che continua ogni giorno, anche grazie alle mani, alla mente e al cuore dei lavoratori. […] Gli uomini e le donne si nutrono del lavoro: con il lavoro sono “unti di dignità”. Per questa ragione, attorno al lavoro si edifica l’intero patto sociale. Questo è il nocciolo del problema. Perché quando non si lavora, o si lavora male, si lavora poco o si lavora troppo, è la democrazia che entra in crisi, è tutto il patto sociale. È anche questo il senso dell’articolo 1 della Costituzione italiana, che è molto bello: L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro. In base a questo possiamo dire che togliere il lavoro alla gente o sfruttare la gente con lavoro indegno o malpagato o come sia, è anticostituzionale. Se non fosse fondata sul lavoro, la Repubblica italiana non sarebbe una democrazia, perché il posto di lavoro lo occupano e lo hanno sempre occupato privilegi, caste, rendite.

Il compito dei sistemi di protezione sociale, a beneficio della stessa democrazia, è stimolare il lavoro, rendendolo dignitoso ed accessibile.

Dev’essere chiaro che l’obiettivo vero da raggiungere non è il “reddito per tutti”, ma il “lavoro per tutti”! Perché senza lavoro, senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti. Il lavoro di oggi e di domani sarà diverso, forse molto diverso – pensiamo alla rivoluzione industriale, c’è stato un cambio; anche qui ci sarà una rivoluzione – sarà diverso dal lavoro di ieri, ma dovrà essere lavoro, non pensione, non pensionati: lavoro. […] Un assegno statale, mensile che ti faccia portare avanti una famiglia non risolve il problema. Il problema va risolto con il lavoro per tutti.

L’intervento, che unisce la dottrina alla prospettiva lavorista del dettato costituzionale, rilancia una legittimazione per il Pubblico in interventi sociali a sostegno delle dignità personali, senza generalizzazione di provvidenze. Alla riflessione pontificia si sarebbe opposto, tra gli altri, Franco Bifo Berardi in occasione della pubblicazione del suo Quarant’anni contro il lavoro. Colpito dalle parole di Francesco, ritenute legate al conformismo dominante, Berardi scrive:

Lei sa benissimo che la scienza e la tecnologia, il prodotto più alto del lavoro e della cooperazione umana, stanno rendendo inutile il lavoro salariato, particolarmente quello più degradante e più pericoloso. Grazie al sapere non è più un’utopia la parola di Gesù che ci invita a vivere come i gigli nel campo e come gli uccelli nel cielo. L’idea secondo cui occorre lavorare in cambio di salario è una moderna superstizione[16].

Se il lavoro è il perno dell’erogazione del reddito, in estrema sintesi, è perché la riflessione religiosa pone un fondamento assoluto nella dimensione etica che, nel contributo all’opera della Creazione, un membro di qualsiasi classe sociale può realizzare. In tal senso la diffidenza di Francesco verso un mezzo universale ed incondizionato, possibile agente di rottura di quella relazione sociale e morale che l’opera umana invece costruisce. In una lettura della globalizzazione della vita economica non del tutto positiva, l’umanesimo integrale del Papa condanna la negazione dell’umano nell’idolatria del denaro, nel consumismo sfrenato che mercifica il consumatore-cittadino, nell’economia dello scarto, nell’autonomia assoluta della finanza che conduce allo sfruttamento del lavoratore e alla sua solitudine. Il Papa per cui il capitalismo è ideologia che dà veste morale alla disuguaglianza ha pertanto titolo di non essere in contraddizione con la propria contrarietà al reddito universale.

Cosa accade tra 2017 e 2020? Lo scatenarsi del contagio globale e il lockdown in Italia potrebbe essere assunto come periodizzante per il racconto pubblico pontificio. L’epidemia offre la figura del Papa confinato, come emerge dall’intervista di Austen Ivereigh e pubblicata in italiano dalla rivista Civiltà Cattolica[17], storico presidio intellettuale dei Gesuiti. Dice Francesco:

Penso alle mie responsabilità attuali e nel dopo che verrà. Quale sarà, in quel dopo, il mio servizio come vescovo di Roma, come capo della Chiesa? Quel dopo ha già cominciato a mostrarsi tragico, doloroso, per questo conviene pensarci fin da adesso.

La pandemia è tempo di tragica trasformazione delle prospettive, come indicato nel discorso Urbi et Orbi del 27 marzo[18] e rivolto al mondo da una piazza San Pietro piovosa e buia. È il trambusto delle preoccupazioni legittime dei discepoli e dell’umanità, a fronte delle quali Dio pare dormire, il contesto unificante in cui assumere le questioni sociali:

La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità. La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di “imballare” e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di fare appello alle nostre radici e di evocare la memoria dei nostri anziani, privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità.

La tempesta pandemica diventa quasi un luogo teologico e politico ove ripensare le strategie. In tal senso si esamini la lettera del 12 aprile «a los hermanos y hermanas de los movimientos y organizaciones populares»[19]. Gli interlocutori, membri di quella Internazionale dell’umanesimo integrale radunata attorno a Francesco, sono cartoneroscampesinos, indigeni amazzonici. Già nel 2014-2016[20] il Pontefice aveva salutato la centralità delle organizzazioni sociali e delle loro attività. Ai «poeti sociali delle periferie» invitati a riunirsi come Encuentro Mundial des Movimientos Populares dal Pontificio Consiglio di Giustizia e Pace[21], Francesco rinnova il sentimento di sincera vicinanza per i temi basilari, racchiusi nella triplice T del motto «Tierra, Techo, Trabajo». L’assunto centrale della missiva è nelle difficoltà dei movimenti popolari:

Sé que muchas veces no se los reconoce como es debido porque para este sistema son verdaderamente invisibles. A las periferias no llegan las soluciones del mercado y escasea la presencia protectora del Estado. Tampoco ustedes tienen los recursos para realizar su función. Se los mira con desconfianza por superar la mera filantropía a través la organización comunitaria o reclamar por sus derechos en vez de quedarse resignados esperando a ver si cae alguna migaja de los que detentan el poder económico. Muchas veces mastican bronca e impotencia al ver las desigualdades que persisten incluso en momentos donde se acaban todas las excusas para sostener privilegios[22].

Gli interlocutori sono gli esclusi dai benefici della globalizzazione: coloro che, in modo invisibile ma tangibile, traducono ragionamenti densi di prospettiva politica in prassi solidaristiche e che, spesso, non hanno tutela legale. Compiono atti di nobiltà sociale disconosciuti, anche in tempo di quarantena. Ed è qui che Francesco scrive che «sea tiempo de pensar en un salario universal que reconozca y dignifique las nobles e insustituibles tareas que realizan; capaz de garantizar y hacer realidad esa consigna tan humana y tan cristiana: ningún trabajador sin derechos». La prospettiva universale in cui sono incardinati i beni, il senso cristiano della dignità dello sviluppo umano integrale e l’idea di un valore comunque centrale del lavoro trovano coniugazione unitaria. Il Papa non nasconde la diffidenza verso la modernità capitalista, materialista e individualista, invitando tali interlocutori sociali a costruire progetti altri:

Nuestra civilización, tan competitiva e individualista, con sus ritmos frenéticos de producción y consumo, sus lujos excesivos y ganancias desmedidas para pocos, necesita bajar un cambio, repensarse, regenerarse. Ustedes son constructores indispensables de ese cambio impostergable; es más, ustedes poseen una voz autorizada para testimoniar que esto es posible. Ustedes saben de crisis y privaciones… que con pudor, dignidad, compromiso, esfuerzo y solidaridad logran transformar en promesa de vida para sus familias y comunidades. Sigan con su lucha y cuídense como hermanos[23].

 

La sfida dell’umanesimo sociale di Francesco

Prendendo in considerazione il panorama italiano, le possibili linee interpretative dei riscontri potrebbero essere viste in due articoli: l’interpretazione di Avvenire, quotidiano dei vescovi italiani, il 14 aprile[24], a ridosso della ripresa della lettera da parte di un gaudente Beppe Grillo, e l’intervista rilasciata dal cardinale arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi, al Manifesto del 19 aprile[25], curata dal giovane storico Alessandro Santagata[26]. Un avvertimento di metodo: è consigliabile non sovrascrivere alle posizioni prese in esame l’esasperante lettura manichea dello scontro interno allo spazio ecclesiale tra presunti innovatori e presunti tradizionalisti. Non perché aggiornamento e tradizione non siano oggetto di dibattito, ma perché si tratterebbe di una semplificazione riduzionistica incapace di cogliere gli aspetti più profondi dei discorsi e del loro peso dialettico rispetto ad una comunità planetaria ricca di sfumature di fede.

Avvenire inquadra la vicenda con il caporedattore Francesco Riccardi, che interpella Maurizio Del Conte, docente di diritto del lavoro in Bocconi, Andrea Garnero, economista OCSE a Parigi, Luigi Sbarra, dirigente nazionale CISL. L’assunto comune dei tre è la visione “lavorista” cui ricondurre le parole del Pontefice: la riduzione delle disuguaglianze potrebbe avvenire non con un reddito, ma con la regolarizzazione dei rapporti lavorativi precari nell’ottica dello Statuto dei Lavori di Marco Biagi. A spingersi più in avanti, sino ad un certo punto, è Sbarra, che propone «l’attivazione immediata di un reddito universale di emergenza, cofinanziato anche da fondi europei inutilizzati, per garantire sostegni finanziari ai tanti, in particolare al Sud, che oggi restano esclusi dalle reti di tutela», riprendendo, non a caso, l’estratto del discorso genovese di Francesco che criticava il «reddito universale».

Di diverso tenore è la riflessione del cardinal Zuppi, interpellato da Santagata proprio su un possibile «aggiornamento della dottrina sul lavoro»: il prelato, formatosi in Lateranense e nella Comunità di Sant’Egidio, conferma la centralità dell’assunto “lavorista”, riconoscendo al contempo la specificità del contesto sudamericano, la novità del tempo di quarantena e delle generalizzate complessità nella ricerca del lavoro, specie per chi non dispone di tutele legali, «del tutto inaccettabile nella ricerca di una società più giusta». A causa della pandemia, «ecco allora che il salario universale può essere una soluzione», valutando «caso per caso la sua sostenibilità», in un contesto in cui la sfida politica della reciproca solidarietà vede i limiti delle istituzioni europee e le emergenze sociali si moltiplicano. La Chiesa si intesta, dunque, un progetto politico? Tutt’altro:

Il Papa non compie una scelta politica scrivendo ai movimenti, ma vede in essi un agente sociale che opera dal basso, un’altra forma di politica, fuori dagli schemi, che va nella direzione di una conversione umanistica ed ecologica alternativa al dominio del denaro. Bergoglio riconosce che i movimenti sono in questo processo interlocutori indispensabili e li invita a proseguire esattamente in quello che già fanno.

Per provare a cogliere, in conclusione, gli aspetti centrali della sfida dell’umanesimo sociale di Francesco, è importante il riferimento a Civiltà Cattolica: pur non potendosi dire l’interpretazione definitiva delle parole del pontefice, la voce della rivista è ineludibile per le sue capacità di relazione con la Santa Sede, gli intellettuali e i decisori istituzionali di livello nazionale ed internazionale. In addendum, è probabile che tale punto di vista costituisca la chiave più affine per capire la prospettiva politica-economica del discorso di Francesco, così come il fondamento delle prossime prese di parola nel mondo ecclesiale e non.

Il 6 giugno la rivista dà la parola all’economista Gaël Giraud[27]. Direttore di ricerca del CNRS francese, dall’ottobre 2020 sarà a capo del centro per la giustizia ambientale della Georgetown University. Vocazione matura al presbiterato e alla Compagnia di Gesù, già capo economista dell’Agence Française de Développement, è autore del saggio Vingt Propositions pour réformer le capitalisme (2009) e de La transizione ecologica. La finanza al servizio della nuove frontiera dell’economia (2015): una voce significativa e tra le più competenti in economia e lavoro nel cattolicesimo mondiale. Giraud esamina la riconfigurazione necessaria delle strategie macro-economiche alla luce degli impatti del virus, intravedendo un intero nuovo decennio legato ad una trappola deflazionistica, generatrice di povertà e più ampi squilibri sociali. La sfida cattolica è quindi spirituale e politica: è una «sfida teologale» in cui gli individui e gli organismi collettivi sono chiamati a conversione assieme a credenti e non credenti, affinché le «regole sociali» siano riformate. La presa di posizione chiama in causa anche la Chiesa e il suo graduale aggiornamento: non si tratta, come propone chi banalizza questo pontificato riducendolo alla trasformazione della Chiesa Cattolica in una ONG rossa, di una chiamata a de-istituzionalizzare e disarmare la morale sociale, ma di una chiave di lettura per re-istituzionalizzare, piuttosto, una relazione con la post-modernità, nel segno della teologia positiva e della normatività aperta del teologo gesuita Christoph Theobald[28], erede del pensiero di Rahner e Von Balthasar.

Semantizzare in senso cristiano il reddito è una linea politico-teologica? In un certo senso. Scrivere in modo apparentemente disinvolto di retribuzione universale, nella consapevolezza della dottrina sociale della Chiesa e della stessa espressione di diffidenza (il discorso del 2017, ndr) verso il reddito potrebbe essere un’apertura generale alla discussione per la presa in carico di misure collaterali come un salario minimo globale – scrive Giraud, a tal proposito, che «l’attuale globalizzazione del ‘mercato’ del lavoro implica logicamente che anche le regole che consentono di evitare tutte le possibili distorsioni siano globali; altrimenti imporre un salario minimo in un certo Paese o in un altro fornirà solo un incentivo alle aziende per delocalizzare le proprie attività altrove». Tale misura sarebbe certamente beneficio per la massa di lavoratori e lavoratrici poveri – l’esempio è quello tedesco – ma non sarebbe ancora il più coerente adattamento delle parole del Papa, che per Giraud ha in mente una massa sociale di emarginati non corrispondenti necessariamente agli e alle non-regolari. Per questo, il lemma più utile pare «retribuzione»: sono gli «invisibili» il soggetto preferenziale dell’attenzione, coloro cui è necessario rendere la fetta di ricchezza globale cui è precluso l’accesso. L’economista avverte:

I dibattiti che ruotano attorno alla definizione di un salario minimo o di un reddito universale sono prevalentemente condotti da coloro che appartengono al centro della società. È senza dubbio il momento di dare voce ai senza voce, in modo che essi stessi possano aiutare a decidere quale significato dovrebbe essere dato a una «retribuzione universale», piuttosto che subire ancora la violenza delle definizioni e degli standard imposti dal centro.

I modelli sarebbero il barometro statistico delle disuguaglianze utilizzato in Francia[29] e la riflessione di Joseph Wresinski, fondatore di ATD Agir tous pour la Dignité – Quart Monde (1957), influente sulla legislazione francese del Reddito Minimo d’Inserimento del governo socialista di Michel Rocard. Il Papa opererebbe un avvicinamento nella possibilità: «l’interpretazione che proponiamo qui implica che sia possibile che la retribuzione universale a cui allude Francesco sia intesa come reddito universale nel senso comune, qualora gli invisibili delle nostre periferie decidessero così». Tale reddito universale si intenderebbe come combinazione di versamento periodico, trasferimento monetario personalizzato, universale ed incondizionato. Per darlo a chi? Già nel 2018 il 60% della popolazione mondiale viveva al di sotto della soglia di povertà economica indicata dalla Banca Mondiale: percentuale destinata ad aumentare, a causa delle ferite socio-economiche del virus. Da qui l’idea di «prelevare» un quarto della ricchezza dell’1% più ricco del mondo – che detiene l’80% del reddito mondiale – per consegnare ad ogni essere umano un reddito minimo di 7.4 dollari al giorno. Forse un esproprio in salsa cattolica? Più che altro, una voluta polemica verso il liberismo.

Non pretendiamo di sostenere che un tale «prelievo» sia politicamente facile da mettere in pratica. Tuttavia queste semplici cifre ci ricordano che, contrariamente a una comune convinzione, il problema del finanziamento di un reddito di base non consiste nella «mancanza di risorse». […] L’immaginario neo-liberale della scarsità, che ci conduce facilmente a pensare che una proposta generosa sia impossibile, è fuorviante: viviamo su un Pianeta sovrabbondante – sebbene minacciato da una crisi ecologica – e in un’economia mondiale molto ricca, sebbene rischi di diventare considerevolmente più povera a causa del lockdown e del confinamento.

L’autore conosce le alternative visioni di reddito propugnate da Friedman e dal BIEN, cui in particolare riconosce l’eredità dell’antropologia relazionale cristiana; conosce le conseguenze delle sperimentazioni pilota in Canada (Manitoba e Ontario) e India. È il caso dell’Alaska ad attirare Giraud, con la distribuzione dei dividendi petroliferi del 1982, «compensazione per il diritto di sfruttamento di un bene comune, il petrolio, che in realtà appartiene a ciascuno dei residenti». Da tale lettura, oltre che dal concetto teologico di destinazione universale dei beni, l’autore ricava un elemento ulteriore di originalità: se è dal godimento della res communis (i commons) che si trae ricchezza in termini individuali, perché non distribuirne il valore in termini universali? Nei fatti, è l’annuncio di una tendenza teologica politico-economica, cristiana, anti-liberista, per l’Antropocene, in cui c’è il protagonismo per un «reddito di base, anche solo parzialmente universale» antitetico alla «logica perversa della onnipotenza della privatizzazione, che oggi si traduce in un secondo movimento di enclosures, che colpisce i nuovi commons, come i beni e i servizi dell’ecosistema, il genoma umano, la proprietà intellettuale, le produzioni artistiche e potenzialmente tutte le attività umane». L’economista rilancia una imposta globale sulle emissioni di carbonio e sulle rendite delle grandi proprietà, da destinare a seconda delle riflessioni delle interlocuzioni e relazioni con i soggetti direttamente coinvolti: è il senso affidato al discernimento, poiché «nessun discernimento collettivo davvero fruttuoso può essere fatto su tali questioni fondamentali finché quelli di noi che sono relegati nelle periferie della nostra società non possono prendervi parte attiva».

In conclusione, è utile comprendere come l’intervento del Papa sul reddito si inquadri in una strategia transnazionale di umanesimo integrale che è tra le cifre distintive del pontificato, aggiornato per l’impatto del virus e arricchito nella relazione con i soggetti popolari. Nell’attenzione verso invisibili ed esclusi si apre una pista di ricerca non scontata né, tanto meno, semplificabile in uno schema confezionato. Gli elementi di novità su una retribuzione universale chiamano in causa una relazione sociale diversa, una strategia economica, una assunzione di responsabilità politica. Dalle parti della Chiesa cattolica, quindi, c’è una lettura attenta dei rapporti di forza che tiene conto del pluralismo dei pensieri politici e non si propone di forzare la mano in senso invasivo rispetto allo spazio del politico, pur non facendo mancare la presenza spirituale di una matrice comune per l’impegno pubblico nella cura della casa comune[30]. Una matrice elaborata in soggetti votati alla presa di parola pubblica e alla sedimentazione intellettuale. Dopo l’emergenza, non è possibile ripartire con gli stessi schemi del passato[31]: la normalità era il problema, anche per il Papa.

 

Ettore Bucci

 

[1] Francesco, La Vita dopo la pandemia, Libreria Editrice Vaticana, 2020

[2] Cfr. Ger 22, 13-14, Sir 34, 21-22.

[3] Cfr. At 18, 1-3; 20, 33-35; 1Cor 4, 12; 9, 1; 11, 7; 12, 13; 1Tes 2, 9; 4, 11-12; 2Tes 3, 7-12.

[4] 2Tes 3, 7-12.

[5] Cfr. Dizionario di dottrina sociale della Chiesa: scienze sociali e magistero, Centro di Ricerche per lo studio della dottrina sociale della Chiesa, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, Edizioni Vita e Pensiero, 2004. Per una storiografia minima, segnaliamo J.Y. Calvez, J. Perrin, Chiesa e società economica. L’insegnamento sociale dei Papi da Leone XIII a Giovanni XXIII (1878-1963), Milano, Centro Studi sociali, 1964; M.D. Chenu, La dottrina sociale della Chiesa. Origini e sviluppo (1891-1971), Brescia, Queriniana, 1977; B. Sorge, Introduzione alla dottrina sociale della Chiesa, Brescia, Queriniana, 2006.

[6] Leone XIII, Rerum Novarum, 15 maggio 1891, 34.

[7] Pio XI, 15 maggio 1931.

[8] Giovanni XXIII, 15 maggio 1961.

[9] Paolo VI, 26 marzo 1967.

[10] Paolo VI, 14 maggio 1971. Peraltro, è il primo documento magisteriale in cui è preso in carico, in connessione con i temi sociali ed economici, la necessità di tutelare l’ambiente dallo sfruttamento e dall’eccessiva urbanizzazione.

[11] Giovanni Paolo II, 14 settembre 1981.

[12] Giovanni Paolo II, 1 settembre 1991.

[13] Cfr. J.Y. Calvez, «La vie économico-sociale», in Y.M. Congar, M. Peuchmaurd (ed.), L’Eglise dans le monde de ce temps. Gaudium et spes, t. II, Paris, Cerf, 1967, pp. 483-516.

[14] Benedetto XVI, 29 giugno 2009.

[15] Francesco, Incontro con il mondo del lavoro. Discorso del Santo Padre, Stabilimento ILVA, 27 maggio 2017 .

[16] Franco Berardi Bifo, Lettera di Bifo al Papa, Editoriale, DeriveApprodi.

[17] Austen Ivereigh, «Il papa confinato. Intervista a Papa Francesco», in Civiltà Cattolica, 8 aprile 2020.

[18] Francesco, Momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia27 marzo 2020.

[19] https://movimientospopulares.org/>

[20] Cfr. Francesco, Discorso ai partecipanti al 3° incontro mondiale dei movimenti popolari, 5 novembre 2016.

[21] Diretto dal card. Peter Turkson, ha assunto il rango di dicastero per lo “Sviluppo Umano Integrale” nel 2016, prima dell’incontro con i movimenti popolari svoltosi nell’Aula Paolo VI in Vaticano: il senso profondamente politico e spirituale di un diverso assetto istituzionale è quello di permettere alla Chiesa universale di disporre di uno strumento di massimo rango per assumere orientamenti dottrinari, ecclesiali e pastorali. Il dicastero è «competente nelle questioni che riguardano le migrazioni, i bisognosi, gli ammalati e gli esclusi, gli emarginati e le vittime dei conflitti armati e delle catastrofi naturali, i carcerati, i disoccupati e le vittime di qualunque forma di schiavitù e di tortura» (Francesco, Humanam Progressionem, 31 agosto 2016 .

[22] «So che molte volte non ricevete il riconoscimento che meritate perché per il sistema vigente siete veramente invisibili. Le soluzioni propugnate dal mercato non raggiungono le periferie, dove è scarsa anche l’azione di protezione dello Stato. E voi non avete le risorse per svolgere la sua funzione. Siete guardati con diffidenza perché andate al di là della mera filantropia mediante l’organizzazione comunitaria o perché rivendicate i vostri diritti invece di rassegnarvi ad aspettare di raccogliere qualche briciola caduta dalla tavola di chi detiene il potere economico. Spesso provate rabbia e impotenza di fronte al persistere delle disuguaglianze persino quando vengono meno tutte le scuse per mantenere i privilegi».

[23] «La nostra civiltà, così competitiva e individualista, con i suoi frenetici ritmi di produzione e di consumo, i suoi lussi eccessivi e gli smisurati profitti per pochi, ha bisogno di un cambiamento, di un ripensamento, di una rigenerazione. Voi siete i costruttori indispensabili di questo cambiamento ormai improrogabile; ma soprattutto voi disponete di una voce autorevole per testimoniare che questo è possibile. Conoscete infatti le crisi e le privazioni… che con pudore, dignità, impegno, sforzo e solidarietà riuscite a trasformare in promessa di vita per le vostre famiglie e comunità. Continuate a lottare e a prendervi cura l’uno dell’altro come fratelli».

[24] Francesco Riccardi, «Dopo le parole del Papa. Retribuzione (non sussidi) e diritti ai lavoratori. Ecco come»Avvenire, 14 aprile 2020.

[25]  Alessandro Santagata, «I movimenti vanno nella direzione giusta, sono indispensabili», intervista al cardinale Matteo Zuppi, il Manifesto, 19 aprile 2020.

[26] Autore de La contestazione cattolica. Movimenti, cultura e politica dal Vaticano II al ‘68 (Viella, 2016), Santagata è stato anche protagonista dello storico incontro del 2016 dell’arcivescovo di Bologna con il centro sociale TPO e con Luciana Castellina, la cui base di discussione era appunto l’incontro tra Francesco e i movimenti popolari.

[27] G. Giraud, «Una retribuzione universale. Un urgente discernimento collettivo», in Civiltà Cattolica, 4079, 6 giugno 2020, pp.429-442.

[28] Cfr. Ch. Theobald, Le christianisme comme style. Une manière de faire de la théologie en postmodernité, Paris, Cerf, 2007.

[29] <http://www.bip40.org/>.

[30] Cfr. Francesco, Laudato Si’, 24 maggio 2015.

[31] Cfr. G. Giraud, «Per ripartire dopo l’emergenza Covid-19», in Civiltà Cattolica, 4075, 4 aprile 2020, pp. 7-19.

 

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