Memoria del limite, primato dell’essere umano. Per una transizione antropologica    

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Non saranno le varie transizioni (ecologica, digitale…), a cui lavora il nostro governo, a segnare la rinascita dell’umano, senza una transizione antropologica, cioè senza il passaggio dall’io al noi, dall’individualismo che divide al personalismo che condivide

 

 

Di transizione si cominciò a parlare intorno alla metà del secolo scorso, per dire che, con la fine della modernità, iniziava un periodo di passaggio, tanto lungo quanto incerto, verso una nuova epoca. E, negli anni Sessanta, la letteratura sociologica e filosofica, cercò di dare un nome a questa fase transitiva, parlando di “società postindustriale”, di “condizione postmoderna”: espressioni nelle quali il prefisso post indicava una successione temporale più che una qualche discontinuità e l’ancoraggio al passato più che l’apertura al futuro.

Nei decenni successivi, si diffuse la consapevolezza di trovarci in una fase di passaggio, da un passato che tardava a passare verso un futuro ancora lontano e si fece strada in quegli anni una “cultura del presente”, vissuta come provvisorietà e incertezza ma anche come urgenza ed emergenza. Bauman, il maestro della “modernità liquida”, parlerà di “società dell’incertezza” e la Commissione europea, nel documento Insegnare e apprendere, del 1995, dirà: “Il mondo attraversa un periodo di transizione e di profondi cambiamenti. Tutto indica che la società europea, al pari delle altre, sta per entrare in una nuova era, probabilmente più mutevole e imprevedibile delle precedenti”.

Intanto, la transizione ha varcato le soglie del nuovo secolo e si è insediata come modus vivendi di questi anni, non a caso segnati dall’emergenza, altro nome della transitio. Così, non si tratta più di una fase di passaggio ma di un fattore permanente del cambiamento, che evoca le figure mutevoli della vita e la scena passeggera del mondo, mentre si fa memoria del limite nel quale nasce e si svolge la vicenda umana.

Questa memoria, che l’attuale paradigma tecnocratico dello sviluppo ha tentato di cancellare è stata riattivata dalla pandemia, “epidemia totale”, che, nel ricordarci la strutturale vulnerabilità della natura umana non è riuscita ancora a convincerci che, all’origine del “sistema dell’esclusione e dell’inequità”, vi è, come sostiene papa Francesco, sin dagli inizi del suo pontificato, “una profonda crisi antropologica: la negazione del primato dell’essere umano”.

Perciò, non saranno le varie transizioni, fiore all’occhiello del nostro governo, a segnare la rinascita dell’umano, senza una transizione antropologica, cioè senza il passaggio dall’io al noi, dall’individualismo che divide al personalismo che condivide.

La memoria della nostra fragilità ci è stata riconsegnata dalla pandemia attraverso il signum drammatico del passaggio ultimo, il transitus estremo, la morte di tanti, troppi pazienti. Il termine transitus ha la stessa etimologia di transizione e, nella tradizione religiosa, indica il passaggio dalla terra dell’uomo al cielo di Dio.

Ma quale custodia stiamo esercitando di questa memoria, che ci ricorda le morti, consumate nelle solitudini, forse disperate, di un letto di ospedale senza il conforto e la benedizione di una mano amica? Abbiamo ancora tempo per intraprendere una severa e serena meditatio mortis, ricordando che la morte non è una componente marginale della nostra esperienza ma appartiene all’essenza costitutiva di ogni vita, di essere indirizzata verso la morte, poiché è elemento costitutivo di ogni struttura vivente e di ogni coscienza vitale.

Se in certi periodi storici, come il nostro, la morte viene considerata un fatto contingente e archiviata come incidente di percorso, ci deve essere una causa che rimuove dalla coscienza collettiva quella naturale certezza del morire.

Analizzare le cause di questa rimozione è la lezione della pandemia, muovendo dalla convinzione di Francesco e nostra che all’origine c’è la mancata transizione antropologica, con la contestuale negazione dell’essere umano.

 

Lino Prenna

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