Cattolici e politica, una presenza contraddittoria

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di Luigi Viviani

L’autore, già sindacalista ed ex senatore del Partito Democratico, interviene sul dibattito cattolici e politica in una situazione di crisi e grande trasformazione del Paese, per un contributo sulle sfide da assumere.

Alcuni aspetti dell’esperienza veneta

In questa fase di ripensamento sul futuro della Chiesa, sollecitato dalla multiforme pastorale di Papa Francesco e anche dalla recente scomparsa di papa Ratzinger, l’esame non può che riguardare anche la politica, dove, in modo più evidente, si addensano i problemi e l’inadeguatezza della presenza e del ruolo dei cattolici. Tutte le ricerche sul campo testimoniano che tale presenza è distribuita su tutto l’arco dei partiti che formano il sistema politico, ma varie risultano le modalità con le quali, nei diversi schieramenti, i cattolici testimoniano la loro fede. Assodata la conquista storica della laicità come metodo essenziale con il quale si pratica la politica da parte degli stessi cattolici, la situazione del nostro Paese presenta alcune specificità. In particolare, in una Regione come il Veneto, nella quale, data la configurazione religiosa di partenza, i processi di cambiamento si sono manifestati con maggiore profondità ed evidenza. Nella società veneta del dopoguerra, dove la maggioranza della popolazione costituiva il popolo cattolico, e in politica la Dc gestiva praticamente tutto il potere sul territorio, con una schiera di ministri nel governo nazionale, una nutrita rappresentanza parlamentare, e la stragrande maggioranza dei sindaci del territorio, si manifestarono una serie di processi interessanti. Nella prima fase postbellica, il partito cattolico possedeva una classe dirigente di una certa qualità. In  parte proveniente dal Partito popolare di Sturzo, temprata e selezionata attraverso gli orrori della guerra e, in gran parte, tramite la partecipazione alla Resistenza, per cui si impegnò a ricostruire la società sul territorio e ad avviare lo sviluppo, frenando progressivamente il processo di emigrazione verso altre zone del Paese e all’estero. Uno degli aspetti positivi che emerse in quel periodo, fu che, in generale, a guidare le istituzioni locali si scelsero gli uomini migliori, indipendentemente dalla loro posizione nel partito. A Verona, per esempio, pur essendo la provincia con la Dc più a destra della Regione, per le maggiori cariche istituzionali si scelsero amministratori locali in maggioranza di centrosinistra. Anche in tal modo si crearono le condizioni per un vero avvio del miracolo economico con la nascita di tante nuove imprese e una crescita spettacolare dell’occupazione. Ma negli anni successivi, naturalmente con le ovvie eccezioni, le nuove classi dirigenti, concentrate nella gestione del potere, persero progressivamente la spinta iniziale ad innovare, e il processo di sviluppo incominciò a registrare limiti e contraddizioni. In questa fase, in seguito all’accelerata secolarizzazione della società, la sostanziale ispirazione cristiana della politica si sfilacciò, tanto che il processo di rinnovamento conciliare interessò soltanto un’esigua minoranza della politica militante e qualche centro culturale ad essa collegato. Una importante occasione persa, frutto anche dei limiti dell’azione pastorale della Chiesa veneta, che nei confronti della politica mantenne un atteggiamento essenzialmente diplomatico, e si accontentò di un cristianesimo di semplice schieramento, consistente, nell’affermazione di alcuni principi accompagnata da qualche scontro con gli avversari. Fu in questa fase che in Veneto si rafforzò l’opposizione ad alcune scelte nazionali della Dc, come l’apertura a sinistra che Moro, anche se non compreso dalla maggioranza della gerarchia cattolica, concepì e cercò di realizzare per riprodurre un clima di collaborazione tra le maggiori forze politiche, analogo a quello della Costituente. Nella Dc veneta tale scelta provocò un duro scontro, con una divisione che determinerà situazioni di progressivo sfrangiamento delle posizioni dei cattolici, e, nel tempo, diventerà un terreno favorevole al radicamento e all’espansione della Lega. I canoni della politica leghista fondati su una propagandata autonomia territoriale che, nei fatti si dimostrò una forma di egoismo collettivo sulla gestione delle risorse del territorio, in un contesto di chiusura verso l’esterno fino a forme di vero e proprio razzismo antimeridionale e antimigranti. Valutata in sede storica la politica della Lega, non solo non ha favorito le diverse possibilità di sviluppo territoriale delle aree della Regione, ma ha determinato una loro progressiva contrazione riducendo le opportunità di relazione e di collaborazione con altri territori italiani ed europei. Il recente ridimensionamento elettorale manifesta tale sostanziale fallimento. che la perdurante popolarità di Zaia, frutto del suo attivismo, rallenta ma non riesce a invertire. Nella Lega la presenza cattolica è numerosa ma in termini prevalenti di appoggio passivo, con qualche sollecitazione a favore delle chiese locali, ma mai capace di influenzare in modo significativo la linea strategica del Carroccio. I cattolici sono stati pure presenti nel centrodestra in alcuni raggruppamenti post-democristiani come Ccd e Cdu, e soprattutto in Forza Italia contribuendo a rafforzare la maggioranza della coalizione, sostanzialmente con la medesima funzione di presenza più o meno subalterna, preoccupandosi di fare qualche battaglia a sostegno formale dei valori cristiani tradizionali, come la famiglia e l’aborto. Le recenti elezioni politiche del settembre 2022 hanno registrato una forte sostituzione di FdI alla Lega nel consenso dei veneti, e ha fatto una certa impressione che, in alcuni paesini della montagna veneta, FdI abbia raggiunto il 30% dei voti. Ora il dibattito politico regionale si sta concentrando sulla questione dell’Autonomia regionale che la Lega rivendica e cerca di realizzare in tempi brevi, forzando la situazione politica con la condizione per cui, o si realizza la riforma o cade il governo. In sintesi, dentro tali processi nel centrodestra i cattolici vivono normalmente inseriti nei diversi partiti, spesso senza particolari esigenze di testimonianza quando non svolgono un ruolo di copertura ideologica di posizioni non sempre conciliabili con i principi evangelici. In quest’area il problema del ruolo dei cattolici in politica non viene sostanzialmente percepito, perché la loro presenza, ancorché marginale, è considerata sufficiente, in un contesto ritenuto, nel complesso, favorevole ai principi cristiani, anche se la scelta religiosa si riduce spesso a semplice e utile corredo dell’identità politica. Del tutto diversa l’esperienza dei cattolici nel centrosinistra. Dopo lo sbandamento postdemocristiano e l’avvio di qualche esperienza di dialogo con la sinistra,  molti cattolici aderirono con convinzione all’Ulivo di Prodi ma la sua breve esistenza li ricacciò in una specie di limbo politico, che la successiva nascita della Margherita solo in parte è riuscita a rappresentare. Da ultimo il Pd, che nel Veneto, sia per l’assenza di significativi leader locali che pet una precedente, profonda divisione ideologica tra gli aderenti alle due culture chiamate a realizzare una nuova sintesi, non è mai riuscito a raggiungere una identità significativa né una dimensione organizzativa all’altezza delle aspettative. Inoltre, la diffusa logica delle correnti, peraltro strettamente dipendenti dal livello nazionale, si è tradotta in un ulteriore impoverimento dell’azione del partito. Pur con questi limiti, oggi i cattolici e la cultura cattolico-democratica sono chiamati a dare un contributo per costruire identità e strategia del Pd. Un compito di particolare rilevanza che tuttavia contrasta con il ruolo avuto finora da gran parte dei cattolici in quest’area, che quasi sempre non sono riusciti ad affrancarsi da una partecipazione ad una redistribuzione dei posti di potere in un contesto di diffusa minoranza.

 

Cattolici e sinistra, il dovere di fronte alla storia

In Veneto il problema del rapporto tra cattolici e politica nel Partito democratico acquista un particolare valore anche perché, in questo territorio. esso può più concretamente contribuire a far uscire il partito da una crisi profonda che lo ha ridotto ai minimi termini. Va ricordato che alle ultime elezioni esso e arrivato al 16 % nettamente sotto il pur negativo risultato nazionale, frutto di una gestione de partito subordinata essenzialmente agli interessi delle diverse correnti nei territori provinciali. Qui probabilmente più che altrove ha pesato una incapacità delle due culture di riferimento, quella della sinistra storica e quella cattolico-democratica, di operare una sintesi in direzione di una identità definita del partito. Lo stesso Congresso, anche per il depotenziamento politico operato da Letta con la sua dichiarata volontà di non ricandidarsi, da assise costituente si è progressivamente trasformato in un percorso elettorale tra i candidati, e lo stesso “Manifesto del nuovo Pd nel 2030” non ha aggiunto granché  agli analoghi documenti precedenti. Lo strumento delle primarie aperte, per eleggere il nuovo segretario, ha dato avvio a un dibattito circa la contraddizione tra l’elezione del segretario come atto essenziale di democrazia rappresentativa, e l’ammissione al voto dei non iscritti, con evidente disincentivo all’iscrizione al partito. Dibattito che dovrebbe concludersi con un ripristino della differenza di funzioni e poteri tra iscritti e no, mentre le primarie possono diventare un importante strumento di partecipazione aperta anche ai non iscritti se vengono usate per consultare  il popolo del Pd sulle più importanti scelte politiche del partito (primarie tematiche). La realtà attuale del Pd manifesta quindi che questo partito non ha risolto i suoi problemi perché finora ha scelto la strada sbagliata di definire le regole di funzionamento interno, e di selezione della sua classe dirigente in un contesto rigidamente correntizio. Ciò interroga la cultura cattolico-democratica come parte in causa per contribuire a superare tale limite. L’esperienza di un corretto funzionamento del partito ci suggerisce che la via migliore per conquistare una identità politica definita, rimane quella di un confronto approfondito con la realtà nella quale esso è chiamato a operare. Per il Pd tale obiettivo si concretizza nella costruzione di una nuova sinistra idonea a interpretare e governare la realtà di oggi. Una sinistra ad un tempo riformista, inclusiva e di governo, del tutto diversa da quella del ‘900. Tanto più che negli ultimi anni si è operata, in Italia e nel mondo, una trasformazione che per profondità ed estensione appare tra le più rilevanti nella storia dell’umanità. Essa si avvale di due motori fondamentali: lo sviluppo scientifico e tecnologico e la globalizzazione dell’economia, che intervengono nei diversi aspetti della vita personale e sociale. La novità di tale processo richiede, a sinistra, nuove mediazioni, decisamente diverse dal passato, tra i valori di libertà, uguaglianza e solidarietà e la nuova realtà in trasformazione. Serviranno quindi meno ideologia e più capacità di comprensione e di sperimentazione di nuove politiche. In particolare, sarà necessario un nuovo rapporto con il capitalismo fondato sulla capacità di intervenire sulle sue contraddizioni come via di rafforzamento della democrazia. In questo ambito la cultura cattolico-democratica essendo stata meno coinvolta nelle esperienze della sinistra del passato, può favorire più concretamente gli aspetti di novità. Operando in contesto di pluralismo e laicità, il politico cattolico, per svolgere il ruolo richiesto, deve essere dotato di formazione cristiana integrale, capacità di interpretare la realtà sulla quale intervenire, assumere il coraggio di proporre, sulle questioni in discussione, soluzioni di ispirazione cristiana, che spesso non traducono direttamente i principi cristiani ma ne rappresentano una mediazione parziale, che il politico cristiano assume con la sua piena responsabilità. In tal modo egli compie un dovere di testimonianza dentro la storia del suo tempo, accettandone tutte le conseguenze, forse anche con un rapporto difficile con la Chiesa.

 

La Chiesa e la politica

La fase che si sta aprendo nella vita del nostro Paese richiede una riflessione particolare della Chiesa italiana nei confronti della politica, sulla base di una riconsiderazione critica di tale realtà e dei rapporti intrattenuti con essa in precedenza. Il punto di partenza rimane la considerazione della politica come particolare testimonianza cristiana a servizio dei bene comune. Essa è stata definita dagli stessi vescovi, ad un tempo : impegnativa testimonianza di fede, l’organizzazione della speranza e la forma più esigente di carità. Quindi una via particolarmente impegnativa  di vivere il cristianesimo secondo una vocazione rivolta al bene dell’intera società. Nel corso degli ultimi decenni è cresciuto il divario tra il valore di questa vocazione e la prassi politica concreta di tanti cattolici per cui, mentre in passato, nelle fasi migliori della Dc. la politica, nella classe dirigente più impegnata, rappresentava un ambito avanzato di testimonianza cristiana da parte dei laici, con particolari livelli di coerenza e responsabilità, la politica di oggi   diviene spesso veicolo di diffusione di forme di presenza cristiana contrassegnate da incoerenza e prioritaria attenzione a raggiungere posizioni di potere, ancorché marginali. Tanto che, credo, non sia esagerato affermare che la politica oggi appare l’ambito nel quale il ruolo dei laici nella Chiesa indicato dal Concilio risulta largamente disatteso. Una situazione frutto della difficoltà particolare di esprimere e vivere scelte di ispirazione cristiana nel contesto della politica di oggi, e anche di un insufficiente rapporto e dell’assenza di una adeguata pastorale da parte della Chiesa gerarchica nei loro confronti. Se è vero che l’impegno politico, sempre più necessario per il futuro della nostra comunità, richiede un grado particolarmente elevato di virtù cristiane per rendere più consapevole ed efficace la presenza dei cattolici in questa attività, diventa indispensabile che la Chiesa, riconosca il particolare valore di questa vocazione e la sostenga con una specifica azione pastorale tesa a favorire una formazione cristiana idonea a tale compito. Non credo che a questo scopo siano sufficienti le antiche scuole fondate sui principi della dottrina sociale della Chiesa, né tanto meno scuole di generica formazione politica realizzate in ambito ecclesiale. Serve invece una formazione cristiana, qualificata in direziona di questa particolare vocazione, con un rapporto di sostegno successivo dei partecipanti, unito a un giudizio esigente sul loro operato. In tal senso mi pare che alcuni segnali positivi provengano, sulla scia di Papa Francesco, dal rapporto che il presidente della Cei cardinale Zuppi, dimostra di voler intrattenere con il mondo politico e i suoi problemi, fondato su un rigoroso rispetto dell’autonomia della politica unito a un interesse più ravvicinato alla sua realtà.

 

 

Finita definitivamente l’era del Dc, caratterizzata da una egemonia politica dei cattolici, per effetto della trasformazione del rapporto tra fede e modernità, è subentrata una dispersione dell’impegno dei cattolici nei vari schieramenti politici secondo criteri in gran parte di preferenza personale o di piccoli gruppi. Ciò ha comportato oltre che una evidente marginalizzazione complessiva dei cattolici nelle scelte politiche fondamentali oltre che una progressiva riduzione dell’ispirazione cristiana nell’azione politica, proprio nella fase in cui la Chiesa ha cercato di elaborare, sulla base dei segni dei tempi, una proposta teologica e pastorale nei confronti della modernità con il Concilio Vaticano II. Così, mentre in passato la politica era anche un fronte avanzato ed esposto del ruolo dei laici nella Chiesa e nella società ,per cui, ad esempio, politici cattolici di particolare qualità, come De Gasperi e Moro, ebbero talvolta rapporti difficili con la gerarchia ecclesiastica circa scelte essenziali e strategiche nella loro azione politica, oggi, specie negli ultimi tempi, assistiamo allo spettacolo poco edificante di una politica, anche dei cattolici, divenuta veicolo di diffusione in gran parte di forme di presenza, magari formalmente riferite ai principi cristiani, ma lontane da una loro testimonianza autentica e di segno anticonciliare. L’esito complessivo di tale processo, accanto al permanere di una presenza largamente minoritaria di cristiani autentici, peraltro quasi sempre politicamente ai margini, è che l’incidenza dei cattolici nel processo politico risulta sempre più insignificante, quando non si riduce a copertura ideologica di posizioni del tutto lontane dallo spirito del Vangelo. Una situazione di particolare gravità che chiama in causa gli stessi vescovi, che nel nostro Paese, nonostante gli stimoli e le sollecitazioni di alcune voci profetiche, hanno in generale non sempre compreso il significato e il valore della politica per il futuro umano e civile dell’Italia, e tenuto nei confronti del potere politico un atteggiamento informato in prevalenza a rapporti diplomatici, accontentandosi troppo spesso che il ruolo dei cattolici si limitasse ad una adesione  di massima ai valori cristiani. Oggi, nella situazione di crisi e di grande trasformazione del Paese, operare per ridare senso, valore e risultati concreti al ruolo dei cattolici in politica diventa un problema di tutta la Chiesa. Nel rigoroso rispetto della laicità della politica e delle distinte funzioni dei diversi soggetti, ognuno deve è chiamato a dare un concreto contributo per rendere il ruolo dei cattolici fattore positivo nella costruzione di un futuro di benessere e di pace dell’Italia.

2 Comments

  1. ringraziando l’autore per la chiarezza delle sue considerazioni, aggiungo un ricordo che riconduce agli anni dopo la fine della guerra, a genova, dove la guida dei cattolici esercitata dal vescovo cardinale giuseppe siri pose seri problemi di obbedienza, che due preti, don gaspare canepa e don giuseppe ivaldi, seppero affrontare ponendosi sul piano dell’educazione di lungo periodo di centinaia di ragazzi
    per una ventina di anni, a monteleco ( un nucleo di case sull’appennino genovese/alessandrino) i ragazzi furono ospitati, orientati, sostenuti in un percorso di scoperta di possibilità e capacità personale di interpretare e valutare situazioni culturali e politiche della comunità in cui vivevano
    genova, città non facile (chi ne conosce la storia degli ultimi 150’anni sa cosa vi abbiano significato modernismo e comunismo) ebbe cosi la possibilità di intravedere quanto si pone oggi come prospettive non più rimandabile: il superamento di una politica intesa solo come contrapposizione di ideali che, inevitabilmente, si tramutano nel tempo in ideologie vincolanti e violente, ma decadenti, mancando di un vero progetto di trasformazione della società
    non è più rimandabile, quindi, il tema di nuove strategie dove molti (credenti e non) trovino i punti di convergenza che consentono di superare l’individualismo egoista che sta riproponendo solo il conflitto (politico o bellico che sia) come soluzione
    dove si concorda si governa e dove non si concorda si continua a confrontarsi e discutere, tenendo quindi ben distinti (che non vuol dire separati, cioè ignorati) il lavoro di ministri e parlamentari e reintroducendo quindi la distinzione tra visione di medio e lungo periodo, da troppo tempo abbandonata
    e qui davvero la “sinistra” dovrà fare esame di coscienza

  2. Considerazioni generiche, vuote. Un modo ipocrita di nascondere una realtà che è sotto gli occhi di tutti. Il Pd è un partito radicale, di stampo pannelliano e la vittoria della Schlein accentua questa caratterizzazione che fa sue le istanze di nuove soggettività, di nuovi individualismi:diritti civili, ovvero la filiera della libera morte in libero Stato (aborto, eutanasia, morte assistita, e poi uteri in affitto, legalizzazione della droga). , la politica di genere ( legge Zan). Siamo in pieno post-comunismo e post-cattolicesimo, in un ibrido che ha superato, cancellato le tracce di due tradizioni, che nella loro dialettica in Italia sono state a lungo egemoni.

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