Tecnica e politica

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1. Nessuna stagione al pari di quella che stiamo vivendo ha mai segnato un così vistoso distacco tra politica e tecnica, intesa la prima come organizzazione della pluralità in una razionale convivenza dei diversi in termini di almeno relativa eguaglianza e la seconda come utilizzazione necessaria, ancora una volta in chiave di razionalità, di tutti gli strumenti (economici, giuridici, scientifici) idonei a realizzare, nelle contingenze date di tempo e di luogo, le prospettive di un ordinato equilibrio sociale.

A lungo si è ritenuto che la politica si risolvesse ormai nel pregiudizio verso la politica, senza neppure rendersi conto che il pregiudizio sulla politica è di per sé un fatto politico, posto che, negando la politica, si finisce per ottenere, lo si voglia o no, il consolidamento in forma dispotica di chi gestisce il potere. Senza dire che – come aveva da tempo lucidamente avvertito Hanna Arendt – surrogare il giudizio con il pregiudizio diventa rischioso proprio quando invade la sfera politica, perché il pensiero politico si fonda essenzialmente sul giudizio che impone una effettiva esperienza del presente, laddove invece il pregiudizio si colora sempre di accadimenti passati, così prevenendo e ostacolando ogni responsabile valutazione dell’attualità storica. A ciò si aggiunga l’effetto costrittivo che discende dall’uso pervasivo dei c.d. social, che, restringendo il perimetro valutativo nella perentorietà dell’algoritmo, sono di per sé di freno ad ogni forma argomentativa di tipo persuasivo, così frapponendo un ulteriore ostacolo alla possibilità stessa di impostare i presupposti di un giudizio.

Nell’esperienza degli ultimi anni si è venuto tuttavia consolidando anche un pregiudizio verso la tecnica, espresso attraverso le forme di una radicale contestazione di tutte le élites, intese queste come il corpo di coloro che sono dotati di competenze specifiche ignote ai più. La prevaricazione dei nuovi strumenti comunicativi tende a realizzare una sorta di idealizzazione del popolo in opposizione a tutte le élites, concepite come autoreferenziali, distanti, ostili, con conseguente propensione ad affidare a leaders carismatici – attraverso la valorizzazione di strumenti di c.d. democrazia diretta estranei ad ogni forma di rappresentanza e con radicale superamento di tutti quei corpi intermedi che il nostro impianto costituzionale aveva considerato preziosi strumenti di democrazia autenticamente pluralista – la soluzione di problemi che pure esigono conoscenze specifiche e competenze tecniche. Esempio emblematico di questo atteggiamento si è avuto nella perentoria risposta di un autorevole membro del Governo alle osservazioni di un alto esponente della Banca d’Italia sul documento di programmazione economica: “Se vuole avere titolo a parlare si faccia eleggere”. Come se l’elezione fosse di per sé strumento legittimante per la soluzione (anzi per la stessa discussione) dei problemi nella loro valenza tecnica. Tutto ciò che assume, agli occhi delle masse, rilievo intellettuale o sapore di competenze specifiche merita di essere accantonato nel segno di quel “l’uno vale uno” che è il presupposto formale della democrazia, non lo strumento risolutivo dei problemi che essa pone. La soluzione di un problema di economia o di statica non può dipendere dal voto (attivo o passivo) di chi la propone, ferma comunque la necessità di trovare sempre un punto di equilibrio tra la forza del numero e la legge di ragione.

La convergenza di questi due rifiuti pregiudiziali verso la politica da un lato e verso la tecnica dall’altro tende ormai a segnare negativamente l’esperienza sociale del nostro tempo, posto che la politica è una necessità ineliminabile per la vita umana, sia per la vita del singolo che per quella della comunità. Poiché l’uomo non è autarchico e dipende nella sua esistenza dagli altri deve esservi una cura dell’esistenza che riguarda tutti e senza la quale non sarebbe possibile convivere. Peraltro l’attuazione della politica nel segno della libertà non può porsi al di fuori di precise consapevolezze tecniche, consapevolezze che anzi la realtà contemporanea tende a rendere sempre più sofisticate e specialistiche.

2. A mio giudizio, la crisi di rapporto tra tecnica e politica segna una delle ragioni fondanti delle difficoltà in cui si avvita l’esperienza politica del nostro tempo. Nel momento infatti in cui il programma politico diventa mera prospettazione dei fini senza indicazione dei mezzi idonei a conseguirli e comunque senza possibilità di alcun serio dibattito tecnico sulle modalità attuative di questi mezzi, tutto si risolve nella generica ricerca di un consenso fine a se stesso, consenso oltre tutto destinato a dissolversi di fronte alla prospettiva di nuovi fini sempre più velleitari ed astratti. In questa chiave la domanda non è più quale sia il senso della politica, ma semmai se la politica abbia ancora un senso. In fondo, per questa via si finisce per ripristinare la vecchia convinzione che il dominio sia il concetto centrale della teoria politica.

Il generico ed insistito riferimento al modello di un diffuso “populismo” non fa che riflettere questa condizione di distacco tra le attese della collettività e gli strumenti tecnici idonei a soddisfarle, con conseguente accentuazione di una politica fatta di promesse demagogiche cui segue il successivo ribadito diritto-dovere di realizzarle senza nessuna possibilità di lasciar intendere che, quando si tratta di promesse palesemente illusorie, propagandistiche, irresponsabili, il dichiarato tentativo di realizzarle non è certamente una virtù. Dobbiamo vincere la tentazione di convertire la democrazia della rappresentazione in democrazia dell’identità, la volontà del popolo in acclamazione del popolo, la sfera pubblica in pubblicità, il corpo elettorale in campione statistico, il suffragio universale in sondaggio di opinione. E’ ovvio che il populismo, dissolvendo il corpo del popolo nella totalità liquida dell’opinione pubblica, finisce per asservire alle sue pulsioni sia la tecnica, come responsabile valutazione di tutte le conseguenze legate alle scelte di governo, sia la politica, intesa come investimento di lungo periodo che tenga conto anche delle attese di generazioni future, ovviamente sottratte ad un immediato riscontro elettorale. Non è senza significato il fatto che i governi c.d. populisti registrino i loro maggiori attriti con i tecnici dell’economia (interni ed internazionali), chiamati ad evidenziare la necessità della coerenza finanziaria e del vincolo principale che ogni scelta pubblica è tenuta a rispettare, nel quadro dei principî di cui agli artt. 81 terzo comma e 97 primo e secondo comma cost., che sanciscono rispettivamente il principio di equilibrio dei bilanci e di sostenibilità del debito pubblico nonché quello del buon andamento dell’attività amministrativa. Assumere iniziative a debito che contraddicono a quei principî e che determinano pesanti ricadute future significa negare all’un tempo tecnica e politica perché si tratta di scelte di cui non si valutano i riflessi né di medio né di lungo periodo. Sintomo di questo atteggiamento, che, nel segno di un immediato consenso, nega sia la tecnica che la politica, è l’uso sconsiderato del sistema dello spoyl sistem attuato dai più recenti governi non nei termini previsti all’origine ma in maniera generalizzata volta a realizzare una sintonia di parte fra le strutture ministeriali e l’assetto del governo. La continuità dei tecnici dell’amministrazione aveva in passato garantito, nonostante le diverse connotazioni politiche legate alla successione dei governi, un minimo di coerenza economica ed amministrativa. Oggi invece questa continuità viene negata in radice e ad ogni cambio di governo si realizza un rinnovamento radicale di gran parte delle strutture di vertice delle amministrazioni pubbliche con conseguenze deleterie sulla stessa funzionalità della macchina burocratica. Senza dire poi delle conflittualità fra strutture tecniche legate a diverse parti politiche: emblematica quella tra la Presidenza del Consiglio e il Ministero dell’economia e delle finanze spesso mettendo in crisi lo stesso ruolo istituzionale della Ragioneria generale dello Stato.

3. La radicale antitesi proposta da Weber tra “etica della convinzione”, che riguarda i fini, ed “etica della responsabilità” che concerne i mezzi, sembra aver trovato oggi la sua manifestazione più evidente, con l’aggravante che mentre, secondo Weber, solo la prima è passibile di essere sottoposta al vaglio della ragione nella forma del “se…allora”, la seconda non lo è, e nel suo ambito siamo chiamati a prendere atto della “irrazionalità del mondo”. Su questo presupposto oggi i politici di professione pretendono di assegnare il connotato della ragione alle loro scelte, assumendo che nessuna verifica è consentita, ma semmai un’adesione maggioritaria in chiave di consenso elettorale. Non v’è dubbio che la razionalità che governa la politica sia quella strategica, ma ciò non esclude che, una volta individuato il fine, la scelta dei mezzi non possa essere consegnata al politico di professione, dovendo di necessità misurarsi con alcuni precisi (e non aggirabili) condizionamenti tecnici.

Naturalmente il sapere dei tecnici, per potere efficacemente influenzare le decisioni politiche, deve rispondere a rigorosi requisiti. Innanzitutto deve scontare l’autonomia da condizionamenti esterni: il che, nel mondo attuale, accade sempre meno di frequente, posto che continuano a prospettarsi “tecnici di area”, cioè persone che, contraddicendo al loro ruolo, si sforzano di adattare lo strumento al fine anche quando è oggettivamente impossibile. Ciò non significa naturalmente assumere che le scelte tecniche siano tutte neutrali, ogni traguardo offrendosi, salvo casi limite, a scelte alternative quanto ai modi per conseguirle, ma significa semmai escludere posizioni che finiscano ambiguamente per confondere due profili che, pur coordinandosi, devono rimanere rigorosamente distinti. In secondo luogo la tecnica deve rispondere ad una coerenza disciplinare ed offrirsi ad un basso livello di critica: ed anche questo accade oggi sempre meno di frequente, anche in funzione dell’uso strumentale che i grandi mezzi di comunicazione fanno delle informazioni che hanno una ricaduta di segno politico, artificiosamente distorcendo risultati che in sede tecnica godono invece di una serena prevalenza. Non dobbiamo dimenticare che per Aristotele la tecnica è sinonimo di cultura: è una forma di sapere che, generato dall’esperienza, si eleva oltre la conoscenza del particolare al quale rimane relegata l’esperienza.

Si è venuto oggi affermando un modello culturale (ma sarebbe meglio dire un luogo comune) che, mentre riconosce la crescente penetrazione della scienza e della tecnica in ogni ambito della vita quotidiana, tende invece ad ammetterla nella sfera politica solo in un senso deteriore, quando, per esempio, si tratti di spiegare l’ottundimento delle capacità di giudizio dovuto alle nuove forme di comunicazione e alla loro azione subliminale. Non ci si rende in tal modo conto del fatto che postulare l’impermeabilità dell’arena politica alla penetrazione di logiche tecniche e scientifiche significherebbe fatalmente, nella cornice della società del sapere, condannare le istituzioni ad una arretratezza che finirebbe per favorire soltanto la disgregazione sociale.

Si tratta allora oggi, nella linea indicata da Perelmann, di ridefinire i contorni di una “logica delle azioni” che sia in grado di confrontarsi con i problemi del “senso” e dei “fini”. Non è più consentito collocare i due atteggiamenti su piani assolutamente paralleli. I fini debbono essere posti in rapporto con i mezzi idonei a perseguirli e i politici, nelle loro prospettive di quadro, debbono potere costantemente dialogare con tecnici capaci di valutare quella idoneità. Dobbiamo liberarci dallo stereotipo di un politico che disprezza la tecnica. Solo in tal modo sarà possibile intendere il senso di una verità collegata alla prassi, purché si tratti di una prassi condivisibile in chiave di ragione.

Dobbiamo oggi ripartire – rompendo i paradigmi di forme comunicative del tutto meccaniche e superficiali – da una razionalità intesa come campo dell’argomentazione, rendendola immune sia dal dogmatismo sia dall’estenuazione scettica ed educando ciascuno di noi a capire che la logica dei fini deve sapersi coniugare con quella dei mezzi riscoprendo l’autentico senso della socialità, che non può stemperarsi nell’ottica riduttiva di scelte morali e politiche contingenti, destinate in quanto tali a rimanere prive di giustificazione.

Il problema consiste nel trovare un giusto punto di equilibrio tra la necessità per le istituzioni politiche di essere recettive nei confronti delle consapevolezze dei tecnici, ovviamente evitando il rischio della strumentalizzazione politica del sapere e l’esigenza di evitare che rilevanti decisioni politiche siano prese sotto la copertura della “ragione tecnica”. Oggi l’impressione prevalente è che la tecnica risulti disprezzata e comunque sottomessa alla forza assorbente del numero, quasi che le prospettazioni di un tecnico, anziché essere sottoposte alla dialettica propria della scienza di cui è cultore, possano essere esclusivamente offerte ad una verifica elettorale. Si tratta cioè di vincere l’affermazione di  Heidegger, secondo il quale all’età della tecnica non sarebbe attribuibile un sistema politico, e men che meno un sistema democratico.

Al di là della stessa ambiguità semantica del termine “politica”, certo è che una condizione minima, ma al contempo anche necessaria, per identificare ciò che è politico consiste nel vedervi l’“arte della conciliazione” che, in presenza di molteplici e variegate forme di conflitto, tende a creare spazi di accordo consensuale, evitando fin dove è possibile il ricorso all’imposizione. La cultura occidentale è vissuta a lungo nell’alternativa se lo Stato fosse ente di ragione, secondo la prospettiva hegeliana, o non piuttosto luogo dell’esercizio della forza, secondo l’impostazione marxiana. Oggi, nella stagione del postmoderno, in cui lo Stato ha perduto gran parte dei suoi poteri e viene comunque sempre più rifiutata ogni forma di accentramento del potere, si tratta di riscoprire – ma anche nel segno di una valorizzazione delle competenze tecniche – il punto di collegamento tra autorità e razionalità. La prima si legittima in forza di una razionalità che la società sia in grado di intendere e di condividere; la seconda tende progressivamente a consolidarsi in forme capaci di acquisire autorità.

4. L’artificio che sottende il modo in cui il nostro sistema politico oggi intende il rapporto con la tecnica è evidenziato anche dall’ambiguità del riferimento a c.d. “governi tecnici” (Ciampi, Dini, Monti) che si sono in Italia determinati, sempre sulla base di un ampio appoggio parlamentare, in momenti di particolare difficoltà economica, al solo fine di non imputare ad una piuttosto che ad altra parte politica provvedimenti di peso per il comune cittadino. L’unica connotazione che li distingue è quella di essere presieduti da un non politico professionale e di essere in massima parte composti da non parlamentari, ma ciò evidentemente non incide sul loro ruolo essenzialmente politico, anche se di una politica esercitata in contingenze che sembravano non ammettere alternative nella scelta degli strumenti tecnici.

Nel tempo presente il rapporto fra tecnica e politica si viene colorando di una serie di indici ulteriori, un tempo sconosciuti. E’ stato giustamente e da più parti osservato che oggi i governi degli Stati membri dell’Unione europea debbono ricevere oltre alla fiducia (in senso tecnico) delle Camere, anche la fiducia (in senso atecnico) degli Stati membri e delle istituzioni dell’Unione europea nonché dei “mercati”. Nonostante la sostanziale autonomia dei due circuiti, essi reciprocamente si influenzano di guisa che il giudizio dell’Unione europea e dei mercati finisce per incidere sul successo o l’insuccesso dell’azione di governo, spesso condizionandone i tempi e le modalità di svolgimento quando non la sua stessa composizione. La vicenda, a tutti nota, della scelta, ad ogni cambio di governo, del ministro dell’economia sempre indirizzata ad individuare una figura dotata di un solido profilo tecnico e comunque di una sua autonoma notorietà presso le istituzioni economiche internazionali, ne sono un chiaro indice. In termini formali si è addirittura sostenuto che il nostro quadro costituzionale non è esclusivamente fornito dalla Carta del 1948, risultando questa integrata sia dalla clausola aperta di cui all’art. 11 cost., sia dai richiami più puntuali all’ordinamento dell’Unione europea più di recente collocati negli artt. 97 (con la legge costituzionale n. 1 del 2012) e 117 primo comma (con la legge costituzionale n. 3 del 2001). Nella complessità di questo contesto la costituzione italiana deve ritenersi integrata dai Trattati dell’Unione europea e dalle norme da questi derivati. In questo quadro va letta la famosa lettera a firma congiunta del Presidente della Bce Trichet e del Governatore della Banca d’Italia Draghi che, quale che sia il giudizio che ne hanno dato i costituzionalisti, testimonia comunque l’incidenza sulla politica economica dello Stato di un organismo come la Bce non rappresentativo politicamente né eletto democraticamente.

E’ tuttavia evidente che la complessità di un contesto così articolato rende ancor più necessaria l’integrazione tra tecnica e politica, essendo indispensabile che le scelte politiche si radichino su di una serie di indici che certo non appartengono alle consapevolezze del cittadino comune. Questo viene sollecitato ad adesioni emozionali ed epidermiche mentre poi l’attuazione delle scelte di governo richiedono tecnicalità di segno economico e non solo, che non sono certo nel bagaglio culturale corrente.

A ben vedere, i rigurgiti di sovranismo ai quali andiamo assistendo sono segno non solo di un radicale sovvertimento di quella prospettiva di cooperazione internazionale che si era aperta al mondo dopo la caduta del muro di Berlino, ma anche di questa crisi di rapporto tra tecnica e politica. Nel momento in cui le modalità tecniche di attuazione di un progetto politico escono dalla prospettazione razionale del quadro, l’idea stessa di democrazia si viene svuotando di qualsiasi contenuto riducendosi nella modalità di un’investitura oltre tutto sempre più indebolita da un lato dalla superficialità degli strumenti pubblicitari di sollecitazione del consenso, dall’altro dal crescente incremento dell’astensionismo elettorale. Né può dirsi che quella democrazia di esercizio che si riflette sulla acquisita consapevolezza del rapporto tra il fine proposto e i mezzi idonei ad attuarlo possa ridursi nell’interrogativo secco posto ai pochi eletti iscritti ad una rete telematica da un esperto della comunicazione. Si può anzi dire che la logica rigida dell’algoritmo, che suppone l’accettazione o la negazione di un quesito secco da altri formulato contraddice al meccanismo di una argomentazione di tipo persuasivo che permette di costruire dialetticamente e progressivamente una volontà collettiva.

Il superamento di una simile crisi apre certo ad un tragitto difficile, che sembra contraddire con i paradigmi del nostro tempo, ma è una via che sarà indispensabile percorrere se si vorrà davvero uscire dalle strettoie di una democrazia intesa come periodica investitura di capi (oltre tutto da parte di una minoranza), che è, com’è ovvio, l’equivalente di una democrazia illiberale. Solo così sarà possibile riconquistare il primato della persona e del cittadino e quindi riacquisire il senso autentico di una sovranità (che è l’opposto del sovranismo) quale vero strumento di giustizia.

5. Nella dissociazione fra tecnica e politica si viene consumando una delle più gravi crisi che sta vivendo l’esperienza della moderna democrazia, una crisi che, nel conflitto fra vari centri di potere e nell’impossibilità di realizzare un costruttivo dibattito sui mezzi, finisce per accentuare quello che è stato definito il c.d. “potere di blocco” che si risolve nella non decisione. La contrapposizione fra fini prospettati in astratto senza un serio processo di selezione fra le possibilità attuabili finisce per far avvitare il sistema in un processo paralizzante. Nel momento in cui i procedimenti tecnici di attuazione escono dalla dialettica politica o vengono comunque lasciati sullo sfondo, il quadro si risolve in un incremento delle alternative di fronte ad una platea di insoddisfatti e quindi inevitabilmente aumenta la possibilità della non decisione.

Rimane tuttavia sullo sfondo, inespressa ma non per questo meno significativa, quella che potremmo chiamare la nostalgia dei valori che, nella conflittualità del postmoderno, si tende sempre più a concentrare nei principî costituzionali. La risposta pesantemente negativa che in Italia si è avuta ai tentativi di mettere mano ad una modificazione della costituzione per asserite ragioni di migliore funzionalità del sistema parlamentare ne sono un chiaro sintomo. Di fronte ad un mondo che appariva sempre più preda di mille poteri, anomico, deprivato di ogni forza, dominato da presenze anonime di stampo mercantile, finanziario, sovranazionale, il comune cittadino ha ritenuto di doversi aggrappare ai principî della costituzione, quasi a salvaguardia di una prospettiva politica ancora ritenuta possibile in chiave di valori.

Io credo che solo partendo da qui sia consentito rifondare una politica che non risolva se stessa in una tecnica del potere, ma sappia dialogare con le varie tecniche in un equidistante rapporto tra mezzi e fini. Si tratta di trovare – e non è possibile farlo che in una razionale dialettica fra questi due poli – il punto di equilibrio di una cultura che continuamente oscilla tra l’idea della polis, nel suo significato letterale, e quello della civitas, ora affermando la supremazia del tutto sulla parte, ora accentuando i diritti delle parti sul tutto. Solo un responsabile ritorno alle consapevolezze tecniche che debbono supportare ogni scelta politica sarà possibile evitare la sterile contrapposizione tra la pretesa di offrire – secondo l’immagine di Benjamin Constant – al popolo nel suo complesso l’olocausto del popolo in alcune delle sue parti e quella alternativa di cavalcare il libero gioco degli appetiti individuali nella speranza che la somma di tali soddisfazioni raggiunga poi il terreno della collettività.

Si tratta di vincere due rischi opposti: quello di una politica che si risolva in una mera prospettazione di traguardi da raggiungere nella ricerca di un consenso fine a se stesso e quello di una politica che si riduca ad amministrazione ordinaria divenendo l’ordine esecutivo dell’intelligenza della tecnica. Nel primo caso la politica diventa mera predicazione, nel secondo si formalizza in una procedura.

Certo, delineato il quadro, non è facile individuare le terapie. Il punto di partenza è sicuramente dato dall’ancoraggio ai valori costituzionali e alle garanzie che dai medesimi derivano. Se ogni scelta dei fini fosse necessariamente proposta in questa chiave ne discenderebbe la necessità di giustificarla in una prospettiva di lungo periodo rifiutando il ripiegamento nell’immediato. Ciò inevitabilmente determinerebbe la duplice esigenza di una giustificazione in chiave di valore anziché di opportunismo e di un connesso ripristino della centralità delle competenze. Si tratta – e inevitabilmente ciò implicherà un lungo tragitto attuativo – di educare ad un pensiero critico, che non si risolve mai nell’adesione emozionale e simpatetica ad un traguardo, ma esige la consapevolezza dei pesi e contrappesi idonei a conseguirlo.

Tutto ciò naturalmente implica il ripristino di una seria mediazione giuridica che rifiuti ogni burocratismo od eccesso di legislazione e recuperi il senso di un diritto inteso come principio di ragione comunemente condiviso. Per limitarsi ad un esempio soltanto in cui la politica come mera proclamazione aveva dimenticato ogni ricaduta tecnica, basterebbe far richiamo alle norme limitative dell’accesso degli stranieri ad una prestazione sociale (art. 11 d.l. 112/08), delle quali la Corte costituzionale (sent. n. 166/18) nel cancellarle dall’ordinamento, ha pesantemente scritto che “attingono gli estremi dell’irrazionalità intrinseca”.

In questa ottica, io credo, si potrà ripristinare in chiave moderna il senso dell’ideale platonico che vedeva nella politica quella sintesi capace di “far trionfare una giusta causa” (Platone, Politica, 304 s.) attraverso il coordinamento e il governo delle singole tecniche. Nell’età della tecnica, anziché predicare il tramonto della politica, si tratta di riscoprirne il valore ideale aiutandola ad acquisire, con il supporto delle diverse tecniche, uno sguardo a lungo raggio capace di ripristinare quella concezione finalistica della storia che consente di superare ogni artificiosa manipolabilità nell’ottica riduttiva del contingente, riaffermando la soggettività quale paradigma normativo della razionalità e dei valori.

Nicolò Lipari

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