Natale. Felici perché?

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don Enrico Ghezzi

 

Più incontri l’umanità e più ti sembra sia necessaria, tra  persone diverse, la presenza di un punto di unità e di comunione.

Così ti accade nei luoghi quotidiani dove ti trovi in mezzo alla folla di altri uomini e donne,  dove ti senti anonimo e schiacciato da un movimento ondeggiante che ti spinge di qua e di là, senza darti la possibilità di aggrapparti a un’ancora sicura.

E’ dicembre e torna la festa del Natale. Già i popoli antichi, di ogni civiltà, cultura e religione celebravano le stagioni dell’anno con feste, riti, sacrifici e preghiere. La vita era legata ai cicli della terra, come la stagione della semina in autunno o il raccolto nei mesi caldi. La stessa festa della Pasqua ebraica aveva radici remote: si celebrava il ringraziamento per i primi raccolti della terra; solo in seguito verrà ricordata, ogni anno, l’uscita prodigiosa dall’Egitto.

 

Cos’è Natale per le folle ammassate sui bus delle metropoli della nostra civiltà? Ora che è perduto per sempre l’odore grasso dei campi e delle stalle e il calore degli animali domestici che un tempo frequentavano i cortili dei nostri paesi? Ora che è diventato sconosciuto il silenzio dei boschi e delle foreste delle nostre montagne, e che  i nostri cieli nascondono la luce delle stelle, offuscate dai bagliori delle illuminazioni notturne?

Perduto il contatto con la terra, l’uomo si trova sempre più folla ammassata, senza parola. Nella solitudine.

 

Nei vangeli, Gesù  è detto profeta, messia, figlio di Dio o dell’uomo, salvatore, signore. Che senso hanno, oggi, questi titoli? Come sfiorano il cuore dell’uomo?

Se diventano  parole di vana retorica, come capita di sentire in tante chiese spoglie di profezia, anche il Natale scorre via inefficace e vuoto. Quel bambino Gesù, esposto nei presepi, rimane un pezzo di gesso circondato da pupazzetti artificiali.

 

Per Francesco, inventore del presepio la prima volta a Greccio nel 1223, Gesù bambino, congiungeva Dio con l’umanità. La folla anonima, ondeggiante, sola, è stata presa in carico, ognuno nella propria carne, dal bambino che dice di Dio.

 

Senza questo bambino, che dice di Dio, la folla che vedo senza nome né speranza  può nutrire sentimenti di felicità? Sola, ognuno nel grande mucchio dei corpi, senza sogni né futuro…?

Francesco, in quella mirabile notte della sua creazione poetica, tiene il bambino stretto tra le braccia e raccolto nel presepio vivente che egli aveva predisposto. La paglia del giaciglio, un uomo e una donna,  e  gli animali della tradizione,  un bue e un asinello, rappresentano così tutta la creazione.

Piange Francesco, di consolazione e di gioia, come se abbracciando il bambino potesse accarezzare tutta l’umanità raccolta nel fanciullo nato a Betlemme.

 

Se Dio, che diventa bambino, assume in sé la bellezza e la desolazione dell’uomo, perché non pensare che ognuno, nella grande folla itinerante delle nostre città, è come una delle infinite stelle che illuminano l’immenso cielo che sta sopra di noi? Gesù non viene forse dal cielo?

 

Don Enrico

 

 

 

 

 

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