L’Internazionale democristiana e l’America Latina

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Il movimento cattolico democratico, popolare, inteso come nato dal Partito popolare di Sturzo e democristiano, ha sempre cercato di strutturarsi in una organizzazione che tenesse i contatti fra le varie forze nazionali. Basti ricordare,  fra le due guerre durante l’esilio antifascista, il tentativo di Sturzo e Ferrari, prezioso per elaborazione culturale e politica, seppur di fatto poco incisivo sul piano organizzativo,

Tentativi che, seppur generosi e profondi a livello di elaborazione, non sono mai riusciti a raggiungere quella incidenza e quella capacità di aggregazione e di connessione che hanno avuto altre esperienze dello stesso tipo, come, su tutte, quella comunista.

La cosiddetta “internazionale bianca” ha avuto sempre contorni più “sfumati” di quest’ultima, nonostante gli sforzi di tanti dirigenti e uomini politici. È stata comunque una palestra di libertà nella libertà, di confronto tra forze che vivevano il loro ruolo nazionale anche in ambiti di governo (penso alla Dc e alla CDU) e partiti in “costruzione” che vivevano difficoltà di vario tipo.

L’ultimo libro di Raffaele Nocera, Il sogno infranto. Dc, l’Internazionale democristiana e l’America Latina (1960-1980), edito da Carocci quest’anno, ha l’indubbio merito di aprire uno squarcio su quello che è stato un elemento caratterizzante dei partiti democristiani in Europa e cioè il rapporto con le forze simili presenti in America Latina, mettendo particolarmente in risalto il legame fra la Dc italiana e il Pdc cileno. Oltretutto ciò viene analizzato attraverso le carte di archivio del fondo Rumor e di quelli cileni, nonchè tramite l’impegno dell’UMDC (Unione mondiale democratica cristiana), di cui Rumor fu presidente a lungo.

Il lavoro è di particolare interesse perché leggendo in filigrana nella vicenda si può percepire quanto, in quell’ambito e in quel quadrante del mondo, contassero, negli equilibri generali, i rapporti delle forze politiche di ispirazione cattolica con gli Usa, vissuti in alcune vicende in modo diverso dai partiti europei, nel quadro degli sviluppi del cristianesimo e del cattolicesimo in un continente “vivace” dove alla forma ufficiale della Chiesa si affiancarono esperienze sia rivoluzionarie che reazionarie.

Il focus del volume sta comunque nell’amicizia fra Dc e Partido demócrata cristiano cileno: rapporto che assurge a paradigma di tutto lo sforzo delle relazioni fra Internazionale bianca, Dc italiana e mondo politico cattolico democratico del Cile, anche perché incrocia il nodo importante, non solo per il Sudamerica, del golpe del 1973. Ricorda l’autore come: “Il caso del PDC è, ad ogni modo, centrale, nella misura in cui il suo percorso – dall’ascesa al potere nel 1964, passando per la controversa linea adottata in occasione del golpe dell’11 settembre 1973, fino ad arrivare alla faticosa costruzione di un’opposizione credibile alla dittatura militare – scandisce l’evoluzione stessa dell’organismo internazionale democristiano e condiziona il modo in cui esso rispose alla differenti prove che si presentarono in America Latina nell’arco di quegli anni”.

La Dc assurgeva, quindi, a modello delle forze cattoliche democratiche sudamericane. Nella transizione degli anni ’60 essa appariva come partito che, uscendo dalla prospettiva centrista, si proiettava verso l’esperimento dell’apertura a sinistra. Il Pdc cileno, il suo leader Frei, guardavano con grande interesse e con speranza allo sforzo di Moro e Fanfani in questo senso, convinti che un tale passaggio di fase avrebbe potuto essere un viatico per fortificare la sua formazione nel perseguimento di una linea “popolare e progressista”. Scrive Nocera che: “Alla base della nascita e della diffusione delle formazioni democristiane in America Latina vi furono, però, soprattutto la diffusione della dottrina sociale della Chiesa, l’espansione dell’elettorato (in particolare con l’incorporazione del voto femminile), e la necessità, molto sentita da alcuni settori, di introdurre riforme strutturali con le quali contrastare, dopo la rivoluzione castrista, la crescente minaccia del comunismo. Fu, così, solo durante gli anni Sessanta. Sulla scia del Concilio Ecumenico Vaticano II […] che si ebbero, in forma irregolare e variando da paese a paese, più alti livelli di collaborazione e convergenza tra la Chiesa e la Democrazia cristiana“.

E l’insegnamento e il modello italiano, ed europeo, che interessava e stimolava i colleghi cileni, era considerato importante perchè rispondeva ad uno schema generale che si attagliava alla realtà sudamericana. Un prototipo valido di impegno politico dei cristiani in quanto forniva la traccia sia per seguire gli insegnamenti sociali della Chiesa drenandone, però, gli eccessi rivoluzionari, e reazionari, che nella zona erano frequenti; delimitava, inoltre, quelli che erano gli ambiti fra un impegno cristianamente profuso, proprio dell’azione politica, e quello specifico della Chiesa; dava, oltre al resto, strumenti di opposizione al comunismo secondo, però, una formula non conservatrice ma in grado di promuovere un approccio progressista e aperto sia politicamente che socialmente.

Certo in tale quadro generale restavano alcune differenze fra cui quella forse dirimente e focale: il rapporto con gli Stati Uniti. Fondamentale in Europa, di confronto, per usare un eufemismo, in America Latina. Una cornice nella quale si giocava anche il rapporto fra la Dc italiana, il cattolicesimo democratico europeo (l’autore segnala anche il rapporto della Cdu tedesca con il Copei venezuelano) e le formazioni latinoamericane.

Nel Pdc il Governo italiano e la stessa Dc individuavano la possibilità concreta di una “terza via”, quasi d’esempio, che permettesse di costruire un percorso differente tra il comunismo e le dittature di destra. La vittoria nelle elezioni del paese andino che consegnò a Frei una maggioranza assoluta e diede la prospettiva, poi rivelatasi illusoria, per una generale espansione delle forze del cattolicesimo democratico nel continente, sembrava dare loro ragione.

Il passaggio dirimente, condizionante un po’ di tutto, fu il golpe di Pinochet con le titubanze, le esitazioni e le contraddizioni del Pdc cileno nel valutare e condannare l’atto dei militari.

C’era stata, a dire il vero, tutta una serie di perplessità e di critiche nei confronti della politica del Presidente Allende che erano state esplicitate agli amici italiani da parte degli esponenti del Pdc. Reazioni che si possono condensare nell’intervento di Frei durante il XII Congresso della Dc tenutosi a Roma nel giugno del 1973, dove questi disse che il suo partito stava  fronteggiando un governo che: “sta portando il paese verso una dittatura totalitaria e che ha distrutto in due anni e mezzo l’economia del paese in una maniera prima inimmaginabile […] La Dc si oppone alla distruzione della democrazia, dei valori che hanno reso rispettabile la nostra Patria, si oppone a coloro i quali seminano odio e violenza“. Va detto che la sinistra del partito cileno coltivava una visione differente del triennio di Allende, si vedano le riflessioni di Tomic e Fuentealba.

Il golpe spazzò via tutto. La Direzione nazionale del Pdc, il 12 settembre, guidata da Aylwin (questi rivedrà poi criticamente questa sua posizione), approvò l’azione delle forze armate nell’errata convinzione che si trattasse di un intervento che avrebbe favorito un ritorno alla democrazia. Critica dell’azione dei militari, anche pubblicamente, fu invece la sinistra del partito, con Tomic e Bernardo Leighton.

La Dc italiana prese posizione contro il golpe. Con una dichiarazione pubblicata su “Il Popolo”, presente nel volume, veniva condannata l’azione dei militari: “l’espressione di semplice ‘rincrescimento’ non ci sembra adeguata alla gravità degli avvenimenti. Difficile a comprendere è poi il passaggio dalla realtà di una violenta interruzione del processo democratico-costituzionale, sino a tre giorni fa sostenuto come l’unico corretto anche dalla Dc cilena, all’ottimistica attesa, per l’evolversi di un intervento che la Dc italiana […] condanna“.

I rapporti si erano decisamente “raffreddati” o, più precisamente, non avevano più l’intensità passata. Frei scriveva a Rumor cercando di difendere il suo operato e smentendo connivenze con i militari. Anche Aylwin cercò di giustificare, scrivendo sempre a Rumor, la posizione del partito, seppur con scarsi risultati. La condotta del Pdc mutò, poi, seppur lentamente, tanto che – come scrive Nocera – Aylwin definì la posizione del partito, citando un memorandum di Vergottini, incaricato d’affari italiano in Cile: “con la formula ‘indipendenza attiva e critica’, che esclude da un lato la resistenza, dall’altro la collaborazione“.

La frattura si sarebbe ricomposta, anche se non del tutto. Il Pdc cileno sarebbe stato in prima fila contro la dittatura nella sua ultima fase, contribuendo al suo definitivo tramonto.

La cosiddetta “Internazionale Dc” mostrava comunque la corda, con l’incapacità di rimodulare le proprie prospettive ed il proprio operato di fronte alla crisi degli anni ’70, dopo lo slancio riformatore e costruttivo del periodo precedente. Scrive l’autore: “Nata al principio degli anni Sessanta, in un decennio, cioè, di grandi speranze di cambiamento, l’Internazionale democristiana non seppe fronteggiare la crisi degli anni Settanta, trascinandosi per tutto il decennio seguente e mostrando un sussulto di operatività verso la fine della Guerra fredda. Non in tempo, però, per riqualificarsi e per essere in grado di rispondere alle nuove sfide poste da un sistema internazionale che stava inesorabilmente mutando“.

Una difficoltà che non era propria solo dell’organizzazione in questione ma che era oramai, in qualche misura, cronica all’interno degli stessi partiti democristiani anche in Europa e soprattutto in Italia. Una difficoltà organizzativa, ideale e politica, che avrebbe condotto di lì a qualche anno allo scioglimento della Dc in Italia e al tramonto della prima repubblica.

 

Luigi Giorgi

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