Giovanni Sartori e l’impero Moghul

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di Alberto Guariso

Ci sono almeno tre aspetti che colpiscono nell’articolo sulla cittadinanza a firma del prof. Sartori al quale il Corriere di ieri ha deciso di attribuire l’onore della prima pagina. Il primo è l’arroganza nei confronti del Ministro Kienge qualificata di volta in volta “la nostra oculista”, “la Ministra nera”, “la nostra presunta esperta di immigrazione”, persona che nulla può sapere di “integrazione” e persona persino ignorante, visto che probabilmente “non ha letto il mio libro”. Certo il buon contadino non è necessariamente un buon ministro dell’agricoltura, ma va rispettato perché quantomeno ha fatto e visto ciò di cui si deve occupare; e Sartori, infatti – se un ministro contadino ci fosse – l’avrebbe sicuramente rispettato assai più di quanto fa con un Ministro che, piaccia o no, ha fatto e vissuto ciò di cui si deve occupare (l’emigrazione e l’integrazione).

Il secondo è la constatazione che la Dea Cultura irretisce e condanna i suoi discepoli troppo ossequiosi. Così Sartori si fa vanto di poter attingere (lui sì e non la povera e ignorante Ministra) alla storia dell’impero Moghul per concludere che popoli interi possono non integrarsi mai anche se nati sullo stesso territorio. Bella scoperta. Peccato che Sartori non circoli per le scuole lombarde ad ascoltare lo strascicato dialetto bresciano di ragazzini con la pelle nera e quindi da buon studioso dei secoli passati non sia in grado di capire cosa significa – in termini di integrazione – aver passato 18 anni in Italia con genitori stranieri.

Il terzo è il proliferare irrefrenabile di argomentazioni da bar-sport: il peggiore dei quali è la consueta litania della “sinistra-porte-aperte-agli-stranieri-perché-ha-perso-ogni-altro-riferimento”.

A parte la banale considerazione che la cultura di destra (che evidentemente Sartori predilige su questa materia) non è mai riuscita a partorire nulla se non leggi dall’aria feroce, cadute una ad una sotto la scure della Corte Costituzionale, della Corte di Giustizia Europea o semplicemente del buon senso che ha costretto ad abrogarle. A parte questo, ciò che appare più grave è l’incapacità di distinguere i problemi: la questione delle “porte aperte” o “porte semi aperte” (chiuse non è neppure ipotizzabile) riguarda appunto le norme sull’immigrazione, che in Italia richiederebbero una profonda revisione; la questione della cittadinanza, invece, non riguarda gli arrivi o gli ingressi, ma la possibilità di stipulare il “patto sociale” con persone che comunque hanno scelto di fare qui il loro progetto di vita: e che pertanto qui resteranno comunque, con o senza cittadinanza.

La questione è, dunque, se ci devono restare come ospiti a tempo indeterminato (Sartori non sa che la “residenza permanente”da lui proposta esiste già, disciplinata da una direttiva comunitaria che delinea una sorta di “cittadinanza di residenza”, riempita di contenuti quasi identici a quelli della cittadinanza) oppure se può essere loro offerta la possibilità di un nuovo patto, fatto di diritti e di doveri, ma prima di tutto di un vincolo di solidarietà.

A Sartori e ad altri come lui la seconda ipotesi non piace. Meglio l’impero Moghul dove indu e musulmani si sono guardati in cagnesco per millenni. Si accomodino pure sulla macchina del tempo e mettano la retromarcia; noi faremo di tutto perché le cose vadano diversamente.

 

One Comment

  1. Ottima analisi critica. Il “progressista” Sartori ignora (e non medita) le concrete esperienze canadesi, australiane e USA. Quanto agli stereotipi di cui infarcisce il suo pezzo, sono la porta d’accesso al pregiudizio e alla discriminazione.

    U. Bernardi, CULTURE E INTEGRAZIONE, uniti dalle diversità, Editore Franco Angeli, Milano, 2004.

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