Generare processi, non “occupare” spazi. Riflessioni sulla Rosa Bianca, aspettando Terzolas

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Riflessioni, opinabili e provvisorie, nate dal rispetto e dalla gratitudine verso chi ha saputo generare e custodire una storia collettiva originale e bellissima, con l’intento di aprire un dialogo vero.

 

Memorie…

Non ricordo esattamente quando sentii parlare per la prima volta della Rosa Bianca, intesa come associazione fondata da Paolo Giuntella e altri ed “erede” della Lega Democratica di Ardigò, Gorrieri e Scoppola.

Credo che fossero gli ultimi anni della presidenza di Giovanni Colombo e che, a latere di un’iniziativa di formazione a Monte Sole, me ne avesse fatto cenno un caro amico di Modena, impegnato nel volontariato e in politica; erano i primi anni duemila.

Io ero reduce dall’impegno di Genova, Firenze e (per alcuni amici più fortunati e intraprendenti) Porto Alegre, stavo concludendo l’università e sentivo il bisogno di un ritorno alle radici dopo la bella, multiforme, complessa, avventura del movimento per un’altra globalizzazione, vissuta prevalentemente sulla frontiera di Schengen, a Gorizia.

Ma quell’anno non andai alla scuola estiva della Rosa Bianca che iniziai a frequentare qualche tempo dopo, successivamente al mio trasferimento per lavoro a Roma, dopo averne sentito parlare dal mio amico Osea Giuntella, figlio di Paolo.

Grazie anche ai ricordi di Osea, a qualche frammento di Paolo stesso, alla ricostruzione dei racconti in particolare di Grazia Villa e di Luisa Broli, e alla mia passione per i “passati politici”, ricostruii i momenti “mitici” delle scuole estive di Brentonico, di quel “riamare” la politica che accompagnò la Rosa Bianca per tutti gli anni ottanta e per i primi anni novanta, fino all’incontro complesso e, in parte controverso, con Leoluca Orlando e con l’avventura dirompente e poi deludente de “La Rete”.

Raccontava Grazia Villa proprio della “fortuna” dell’associazione a fine anni ottanta (e io ricostruii un dibattito-scontro con padre Alex Zanotelli credo del 1989, con padre Alex da poco “fatto” fuori da Nigrizia da Craxi e Andreotti e l’allora segretario generale aggiunto della Cisl mariniana, il carnitiano Mario Colombo) quando gli incontri dell’associazione, totalmente autofinanziati (persino i relatori si pagavano il viaggio…) erano quasi diventati una sorta di “contromeeting cattolico democratico”, vista la contemporaneità temporale dei fine agosto con la sempre più rampante assise ciellina di Rimini.

Certamente c’è una prima fase de La Rosa Bianca che si chiude con il 1992-1993: è la fase dei capodanni a Montesole, a confronto con un Dossetti ancora silente nella sua comunità nell’appennino bolognese, dei dibattiti con Ardigò, Scoppola e Ruffili, e del percorso verso il compimento del progetto della Lega Democratica: il dialogo e l’incontro tra le culture cattolico democratica e della sinistra, anche comunista, in un divenire che aveva atteso il crollo del Muro ii Berlino e di quella che Scoppola definiva “La Repubblica dei partiti”, per trasformarsi non solo in visione, ma in “carne” concreta di un approdo politico possibile.

Certo la Rosa Bianca era più “movimentista” della Lega Democratica (ricordo un libro affidatomi a metà anni duemila da Paolo Giuntella per portarlo alla biblioteca del Centro Ferrari di Modena in cui si rivolgeva ad Ermanno Gorrieri con una dedica (da lui mai consegnata) seguita al loro acceso confronto sull’atlantismo dell’Italia e sul dispiegamento dei missili nucleari Cruise a Comiso nel 198): il rapporto stretto con Leoluca Orlando e l’esperienza de La Rete lo dimostra.

Penso di poter dire che la Rosa Bianca non fu mai solo l’incontro tra la sensibilità della sinistra democristiana e di quella del riformismo comunista, ma sempre un arcobaleno di colori che l’hanno collocata nell’ambito di una sinistra plurale, con un ispirazione cristiana, personalista e comunitaria che mai sono stati argine, vessillo od ostacolo a contaminazioni feconde e ardite.

Anche le non episodiche “leadership” femminili de La Rosa Bianca ne fanno intravedere il carattere di inclusività, quell’essere associazione “fiume” che resiste e si trasforma, senza scatti violenti, ma con un carattere originale e di interesse.

 

Tempi che cambiano…

Certo i tempi cambiano, la seconda repubblica e il progetto politico del Partito Democratico hanno deluso le attese (anche se ricordo, di fronte alle mie consuete perplessità, Paolo Giuntella mentre lavava i piatti in cucina dopo una pizza dirmi come fosse quello l’approdo senza dubbi sognato da lui e da tutta la sua generazione) e la Rosa Bianca si trova in un contesto non semplice.

C’è stato anche il passaggio obbligato del “serrare le fila”, il farsi riconoscere di fronte al tentativo maldestro di appropriazione di un nome e di una storia da parte di un progetto politico neo-centrista, durato nemmeno lo spazio e il tempo di una campagna elettorale.

Rosa Bianca come cerniera di mondi diversi, resistenti, ma minoritari al tempo della “politica biodegradabile”, per citare il titolo azzeccato di una scuola estiva di alcuni anni fa, testimone di una Chiesa intrisa di contraddizioni e dell’inattesa e, forse, incompiuta dirompente novità di Papa Francesco.

La Rosa Bianca, per molti diventa “associazione di seconda militanza”, rischiando talvolta, secondo una riflessione di Paolo Giuntella che non voglio strumentalizzare e che va contestualizzata, di virare verso un gruppo di amici talora che può apparire bastevole a se stesso, e che si confronta con un difficile presente, rilanciando spesso la politica dei territori e delle città, rispetto a quella delle grandi narrazioni, inesorabilmente in crisi.

Il programma aggiornato della scuola di Terzolas di quest’anno è estremamente ricco, ma sembra confermare questo approccio: dalle politiche locali (spesso intese come “istituzioni locali”) a traiettorie più generali.

Oggi un ulteriore scatto della politica biodegradabile ci ha regalato il governo giallo-verde-nero, mentre l’imbarbarimento del quadro sociale, in particolare rispetto al tema dell’immigrazione, interroga profondamente tutti e ciascuno.

Una questione non troppo lontana da noi è anche quella delle elezioni europee del 2019, con l’incubo sovranista sovrannazionale che rischia di esplodere e, allo stesso tempo, la necessità di marcare una distanza vera da chi lo ha reso possibile con le politiche dell’austerity e di smarrimento della prospettiva sociale europea.

 

Domande.

Una domanda non più rimandabile non può essere che questa: di fronte al turbine dei cambiamenti, può la Rosa Bianca limitarsi ad aggiustamenti, a reindirizzare solo parzialmente il proprio sguardo, le proprie modalità associative, il proprio progetto collettivo?

Occorre schierarsi oppure no?

Ma prima di ciò…

Quali trasformazioni, rigenerazioni, alleanze (è sufficiente il dialogo con i contigui movimenti e associazioni di C3dem?), quali nuove contaminazioni la attendono per non limitarsi ad un “gruppo di amici”, mentre molto, troppo crolla (un verbo inquietante in questi giorni, dopo l’immane tragedia di Genova) intorno?

Un contributo su questo tema, da me sinceramente non molto condiviso, ma utile per aprire un dibattito è costituito dal testo di Urbano Tocci: “La Rosa Bianca e la Terza Repubblica”, pubblicato dall’ultimo numero della rivista Il Margine.

Quali sono i nuovi grandi testimoni del nostro tempo da incontrare, interrogare, supportare?

Quali i riferimenti da riscoprire e reinventare, possibilmente non per un solo anno, non per una sola scuola?

Quali le parole contro-corrente che sanno anche rimettere in discussione noi stessi, e l’associazione?

Quali rapporti con la politica e con il Partito Democratico (obiettivamente molto rappresentato nella scuola che sta per cominciare…)?

 

Essere associazione oggi.

Il tema del tessuto associativo è forse quello più spinoso, anche perché continua la spinta generale alla “disintermediazione”. In questi anni non c’è oggettivamente stato l’impulso di costituire e valorizzare i gruppi locali, anche se l’impegno della presidenza e del gruppo “di testa” è stato encomiabili e sotto gli occhi di tutti.

Appare importante provare a dare ulteriore consistenza al tessuto associativo, alle esperienze locali a come impegnarsi per integrare diversi piani di impegno, senza che essi seguano un piano scollegato, non coordinato. Occorre ovviamente che in tanti si dimostrino disponibili a dare un contributo, un impegno concreto.

Ma perché ciò avvenga, occorre chiederlo, occorre renderlo possibile e auspicabile, in un’ottica partecipativa non semplice, a volte faticosa, ma coerente con l’impostazione generale di apertura dell’associazione.

E’ con queste riflessioni aperte e senza troppe risposte in tasca, che mi avvicino, nel 2018, a Terzolas, orgoglioso e riconoscente del continuare non solo ad essere, ma ad esistere di questa associazione, molto più longeva della stragrande maggioranza dei partiti oggi presenti nel campo politico, ma anche con il timore-tremore che occorra continuare a cambiare per esserci, per generare processi positivi, non per occupare spazi (non peraltro ora particolarmente ambiti), parafrasando Papa Francesco.

 

Frammenti e rammendi…

Certo, in questo tempo di “frammenti” e “rammendi”, forse non occorre cercare la risposta o l’interpretazione giusta, ma mettersi in ascolto, in cammino, in discussione.

Scriveva il grande filosofo e sociologo ebreo tedesco Martin Buber in un testo intitolato “il rammendo” e rilanciato dal blog “Persona e comunità”:

“Un chassid del Veggente di Lublino decise un giorno di digiunare da un sabato all’altro. Ma il pomeriggio del venerdì fu assalito da una sete così atroce che credette di morire. Individuata una fontana vi si avvicinò per bere. Ma subito si ricredette, pensando che per un’oretta che doveva ancora sopportare avrebbe distrutto l’intera fatica di quella settimana. Non bevve e si allontanò dalla fontana. Se ne andò fiero di aver saputo trionfare su quella difficile prova; ma, resosene conto, disse a se stesso: “E’ meglio che vada e beva, piuttosto che acconsentire a che il mio cuore soccomba all’orgoglio”. Tornò indietro, si riavvicinò alla fontana e stava già per chinarsi ad attingere acqua, quando si accorse che la sete era scomparsa. Alla sera, per l’apertura del sabato, arrivò dal suo maestro. ‘Un rammendo’, esclamò lo zaddik [il maestro] appena lo vide sulla soglia” (Martin Buber, Il cammino dell’uomo, ed. Qiqajon).

Come ci racconta Rossana Rolando nel blog citato, questo breve racconto suggerisce diverse letture. Con la sapienza chassidica e con Martin Buber, esponente del filone novecentesco della filosofia ebraica, ci muoviamo nell’ambito di una riflessione che vuole parlare dell’uomo nella sua esperienza vitale, nelle sue contraddizioni e inquietudini più vere e profonde, un pensiero esistenziale e sapienziale, che utilizza l’aneddoto come insegnamento.

Potrebbe trattarsi di un invito rivolto a ciascuno di noi e potrebbe essere formulato così: “dai a te stesso una meta, vivi una tensione profonda, misurati con un impegno. Non perderti in mille esperienze, decidi dove vuoi andare e vai. Ciò che vuoi raggiungere deve costituire il senso e la direzione della tua vita. Per quello scopo dovrai essere capace di fare rinunce, sacrifici, sforzi. Ne varrà la pena.”

In questa linea interpretativa si potrebbe collocare il significato della conclusione a tutta prima un po’ enigmatica. Perché il maestro, riferendosi allo sforzo del discepolo, dice “un rammendo”? Ricucire, rattoppare, riprendere, rinforzare… e, metaforicamente, indietreggiare, oscillare, ritornare…: questo vuol dire rammendare. Ed è una bellissima descrizione del lavoro interiore del discepolo: non un andare sicuro, deciso alla meta, ma un andare e poi ritornare sui propri passi, un metter mano ad un’impresa per poi rischiare di abbandonarla. E allora “rammendo” suonerebbe come un rimprovero: “l’opposto del rammendo è il lavoro fatto di getto”. La vita di un uomo può essere un “rammendo”, in una molteplicità di sentimenti, di esperienze, di contraddizioni che dividono e paralizzano l’anima, oppure un “lavoro fatto di getto”, in cui si sceglie che cosa essere e lo si segue con fedeltà e risolutezza Ma il racconto potrebbe contenere un altro messaggio, per certi versi opposto. Potrebbe significare: “ricordati che sei una cosa fragile, che puoi cadere in ogni momento e che tutti i tuoi progetti possono andare in fumo. Se lo sai, se lo tieni ben presente, la tua debolezza non ti dominerà, non sarà la tua ossessione”.

Nel racconto il discepolo – una volta accettata la sete – si avvicina alla fontana per bere un sorso d’acqua e si accorge che la sete è scomparsa, la sua ossessione non lo domina più. E allora il “rammendo” potrebbe non essere un rimprovero. Suggerirebbe piuttosto la reale condizione di ciascun uomo, che continuamente deve fare i conti con un’anima molteplice, in conflitto con se stessa, spezzata e sfilacciata. L’arte del rammendo permette di convivere con le proprie lacerazioni interiori, di perdonare le proprie indecisioni e contraddizioni, per rimettere insieme i pezzi dell’esperienza interiore e non lasciarsi soggiogare, riprendendo ogni volta il cammino.

 

E’ questo che auguro alla Rosa Bianca. Imparare dalla propria fragilità e debolezza, per riprendere ogni volta il cammino.

Proprio oggi, in cui tutti i riferimenti paiono essere venuti meno, nel pieno di una crisi dell’orizzonte di senso che rischia di trascinarci tutti in un vortice sospeso tra rancore e sensazione di impotenza.

Occorre partire e ripartire e il prepolitico, accompagnato da un pensiero forte, anche se non monolitico è, forse ancora più di ieri il luogo giusto.

Certo, ancor più di ieri, è necessaria la consapevolezza dei propri limiti, dell’essere minoranza, o, come disse Grazia Villa in un’intervista al Manifesto di una decina di anni fa, sulla “scomparsa del cattolicesimo democratico”, una “minoranza di una minoranza”.

Questo non significa, non può significare accontentarsi, il tempo presente non lo permette, ci incalza, ci interroga, ci percuote.

Occorre, rubo una bella immagine inviatami da Osea Giuntella, saper essere “minoranza intensa, forte e rinnovata, consapevole di essere ispirati da una causa ‘alta’ e di muoversi attraverso riferimenti chiari”.

Forse, anche per questo, pur in un’associazione “fiume”, come la Rosa Bianca, qualche scelta, in forma condivisa e partecipata, va fatta, va compiuta.

In una condizione in cui ricucire-rammendare non è una scelta di ripiego, ma è un po’ come rivivere e far rivivere, rinnovarsi senza perdersi, “cercare un fine”, senza smarrire l’occasione dell’alimentare dialoghi, incontri, percorsi condivisi, scoprendo fiducia nel proprio e nell’altrui divenire.

 

Francesco Lauria

Ogliastro Cilento, 14-15 agosto 2018

 

 

 

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