“Dobbiamo preoccuparci dei ricchi?”,

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Maurizio Franzini – Elena Granaglia – Michele Raitano – Il Mulino, 2014, pp 198, euro 16

 

No, viene spontanea la risposta, proprio “preoccuparsi” no. E invece il libro di Franzini, Granaglia, Raitano spinge, nella non casuale provocazione, ad analizzare un punto centrale della questione sociale ed economica (e quindi alla fine politica) della crisi che stiamo attraversando. Ossia: tentare di ridurre le estreme disuguaglianze di cui l’occidente sembra afflitto è, non solo eticamente giusto, quanto piuttosto utile economicamente ad una redistribuzione della ricchezza che favorisca un efficace allocazione di risorse e quindi foriera di sviluppo? E se sì come, con quali strategie e che rischi indotti si corrono?

Antica questione, tanto dibattuta e spesso condizionata da visioni ideologiche spesso segnate da fattori ed elementi che di economico hanno poco o nulla.

Gli economisti che hanno scritto questo testo, invece, si sono interrogati proprio attraversando i terreni delicati dei numeri e delle evidenze statistiche. E ne sono emersi con tesi che reggono alle più banali contestazioni.

Si parte dal considerare quelle ricchezze non casualmente acquisite, ma frutto del lavoro, sia esso dipendente, non dipendente, o autonomo. Ossia i super redditi, siano frutto di contrattazioni con aziende private (manager e dirigenti), o nel settore pubblico. Ma anche i super-ricchi del mondo dello spettacolo e dello sport, cioè di autori di quelle prestazioni che oltre all’abilità e allo sforzo (preparazione, allenamento, performance) introducono fattori di seduzione e capacità di conquista di quote mercato che, pur potendo in qualche modo essere considerate alla prova dei fatti delle abilità, sconfinano spesso nel non classificabile e che comunque generano decisive parti di reddito.

Ecco: proprio la vulgata comune che accompagna la valutazione delle capacità del mercato, cioè definire e attribuire indiscutibile merito (“se guadagna tanto vuol dire che il mercato lo consente…”), andrebbe scardinata secondo le considerazioni degli autori. Perché sono troppe le variabili che incidono su una “meritocrazia” sostanziale: “anche nella versione formale, la meritocrazia contempla una visione di uguaglianza delle opportunità assai più ricca di quanto è spesso riconosciuto sia dai suoi difensori sia dai suoi oppositori. Lungi dall’esaurirsi nelle dotazioni personali, essa investe anche il disegno dei mercati e la loro effettiva capacità di premiare i meriti”. Il disegno dei mercati: gli autori insistono tanto sull’effettiva “oggettività” che molti attribuiscono come dote a prescindere dei mercati, e di conseguenza in grado di assegnare il giusto a chi merita. E invece “i mercati sono artefatti umani, soggetti a regolazioni da parte della collettività, non luoghi naturali. Ancora: i valori non di mercato, come la fiducia, facilitano il gioco stesso del mercato”. Così come valori non monetizzabili (tipo la cura di persone e ambienti), il volontariato, la solidarietà, ecc, ne rimangono fuori.

Altra questione: oggi redditi sempre più alti si percepiscono grazie al “consumo congiunto”, ossia la replicabilità smisurata dello stesso bene o servizio (video, musica, testo on-line, software) che garantisce un introito a costo marginale zero. Senza, di fatto, dover riprodurre nulla. Quindi guadagni potenzialmente illimitati, nella enorme platea che oggi facilmente accede, grazie al web, a beni e/o servizi. I saggi si chiedono: se oggi le entrate si possono moltiplicare senza che vari l’azione compiuta grazie alla moltiplicazione smisurata dei consumatori, non si pone, forse, la questione del quantum di disuguaglianza accettabile? Allentare senza limite il collegamento fra premio e merito non fa perdere senso alla nozione stessa di meritocrazia?” (p90).

Il tutto a partire da un discorso che più “liberale” non si può: se ci fosse effettiva e completa concorrenza non ci sarebbero queste disuguaglianze enormi. “Nei mercati concorrenziali – scrivono – dovrebbero essere sempre attivi i meccanismi che portano ad insidiare le posizioni meglio retribuite: pertanto le disuguaglianze nei rediti da lavoro non possono esser così elevate e così persistenti come esse, invece, sono nella realtà … Tra concorrenza e super redditi sembrerebbe esservi una chiara incompatibilità.”. Più in generale: “non vi sarà piena concorrenza quando esistono barriere all’entrata che possono essere di tipologie diverse (inclusa quella, di norma sottovalutata, della notorietà); quando gli assetti istituzionali non favoriscono la diffusa acquisizione delle abilità che il mercato mostra di premiare; quando le scelte dei consumatori sono debolmente razionali perché influenzate da carenze informative o dalla propensione al conformismo”.

Dunque che fare? Antica questione.

Contenere i super redditi è produttivo, oppure avrebbe, invece (a prescindere anche dal come), tali effetti perversi da risultare controproducente anche per chi ricco no è?

O al contrario: consideriamo, dicono alcuni, l’effetto di aumentare senza limiti le potenzialità anche di chi sta al vertice della piramide la sua posizione reddituale, non favorisce quell’effetto “sgocciolamento” (trickle down) di cui a cascata si avvantaggia chi sta al centro o in basso? O, altra metafora, se la marea si alza per alcune barche (le migliori) finirà anche per sollevare tutte le altre. Versione più elegante di chi dice che se la torta non cresce cosa si può distribuire?

No, per gli economisti autori di questo testo, proprio no. Cancelliamo le ambiguità di questi concetti: le evidenze empiriche e le statistiche prodottesi negli anni (per i numeri in dettaglio rimandiamo al testo. Basti solo questo: nel periodo 1979-2007 ogni anno 1.000 miliardi di dollari si sono spostati verso l’1% più ricco e nello stesso periodo la variazione annuale del redito di mercato per il 20% più povero della popolazione degli Stati Uniti è stata negativa dello 0,4%) dimostrano che la ricchezza concentrata in poche mani non ha favorito per nulla la ricchezza complessiva, e in particolare dei meno abbienti.

Con in più tre fattori deprimenti di particolare importanza: primo, che sempre più persone e famiglie nel comparare la propria posizione con quella dei più ricchi, alimentano insoddisfazione e sfiducia pur beneficiando di piccoli avanzamenti di reddito perché vedono in concreto aumentare a dismisura la distanza; secondo, complessivamente il livello del costo della vita e della qualità dei servizi pubblici, parametrata sul benessere dei pochi, sfavorisce di rimbalzo i molti. E infine la considerazione più politica che emerge dal pensiero di un grande liberale come Toqueville: “lo spirito pubblico si alimenta dell’uguaglianza delle condizioni. Più si è uguali, più si condividono interessi e propensioni, più ci si sente sulla stessa barca e si è interessati a sostenersi reciprocamente … se le distanze aumentano, cresce la probabilità che chi occupa le posizioni di maggior privilegio si chiuda in una sorta di recinto, riducendo, fino ad annullarle, le interazioni con il resto della società”.

In altre parole: è quel virus che ha colpito la nostra democrazia e che la sta rendendo fragile e ammalata agli occhi di molti.

Gli esperti non si limitano all’analisi. Seppure consapevoli della difficoltà di avanzare proposte che possano essere universalmente accettate (torna in gioco il discrimine che la politica – se c’è – favorisce), sul campo si possono avanzare alcune considerazioni.

Rendere più progressiva l’imposta sui redditi, soprattutto quando questi siano frutto di posizioni di vantaggio acquisito da rendite, è la più nota e parimenti controversa.

Ma “la responsabilità dei governi nei confronti della disuguaglianza nelle sue variegate manifestazioni, dipende anche da molte altre loro scelte (o non scelte) politiche e in particolare dal modo nel quale disegnano i mercati o, se si vuole, il capitalismo”. E qui veniamo proprio ai temi del nostro Convegno di Milano del 29 novembre.

Intanto: “prevedendo l’insorgenza delle rendite si limita anche la concentrazione del potere, ch e può rappresentare il più serio ostacolo al contrasto delle disuguaglianze stesse. Per queste ragioni, operare preventivamente allo scopo di impedire la formazione di disuguaglianze estreme appare decisamente preferibile all’alternativa che consiste nel cercare di porvi rimedio a cose fatte”.

Quindi ridisegnare il mercato e cercare di circoscrivere l’impatto delle rendite, per di più tentando di “ripartire fra tutti i consociati le rendite dovute all’interazione sociale” (scuola, ambiente i vita, relazioni, reddito di cittadinanza, ecc…).

Il tentativo di ridisegno complessivo assume anche un obiettivo più grande: “quello di rendere ‘contendibili’, nelle forme di volta in volta più appropriate, le posizioni meglio remunerate … La concorrenza dovrebbe operare nella parte alta della distribuzione, senza danneggiare chi si colloca nella parte bassa. Questo si può ottenere, da un lato, introducendo un pavimento ai redditi minimi e alzando i costi opportunità, cioè la possibilità di accesso ad alternative che garantiscano trattamenti comunque dignitosi e, dall’altro, contribuendo a regolare sapientemente i mercati in modo sia da attenuare le diverse forme di scarsità sia, e soprattutto, da evitare la loro trasformazione in rendite che alimentano i super rediti”. In sintesi, si tratta di “eliminare le barriere all’entrata, moltiplicare gli sforzi per produrre le abilità più remunerate e di non permettere che la scelta dei ‘migliori’ diventi anche occasione per attribuire a questi ultimi rendite elevatissime, come avviene se è loro consentito di operare di fatto come monopolisti”.

Alla luce di queste idee, appaiono ancora più amare le considerazioni finali, proprio se si segue il dibattito politico di queste ultime settimane: “L’urgenza di interventi di questo tipo a noi pare difficilmente discutibile. Il fenomeno dei super-ricchi rischia di aggravarsi, con il suo carico di conseguenze negative. Illudersi che tutto possa essere risolto con la ripresa della crescita e che soltanto a questa dovremmo affidarci anche per alleviare il peso delle disuguaglianze estreme è sbagliato”.

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