Cpr. Se mai scriverete questa storia, chiamatela Il Giorno del Sangue

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Dalla newsletter di Cristina Giudici.

Sono entrato e ho visto subito che ero ad Alcatraz. Dividono le persone in buoni e cattivi, i cattivi vanno al blocco B e soprattutto al blocco C. Quando arrivano le visite, fanno visitare solo il blocco A. I blocchi B e C sono dimenticati da tutti. Nel blocco C non entra quasi il sole.

C’erano almeno cinquemila persone alla manifestazione di Milano, il 6 aprile, per chiedere la chiusura dei Cpr, i centri di permanenza e rimpatrio. Non-luoghi dove vengono trattenuti i migranti senza permesso di soggiorno e destinati al rimpatrio, anche se spesso capita che, per uscire dallo stato di dannazione, siano gli stessi migranti a chiedere di tornare nei loro Paesi o, peggio, tentino il suicidio perché è preferibile un atto fatale alla permanenza in strutture diventate dei pozzi profondi di disumanizzazione e tortura.
La manifestazione si è mossa a tappe, ad ogni stop interventi e rappresentazioni sceniche delle varie questioni dirimenti che riguardano i Cpr: dalla distribuzione degli psicofarmaci – usati nei Cpr per stordire i migranti – alla compilazione di richieste d’asilo impossibili, i fogli di via, il racconto dei frequenti atti di autolesionismo.

Sono uscito pochi giorni dopo questi fatti, quando abbiamo deciso di manifestare tagliandoci tutti. Io ho macchiato tutta la faccia di sangue, ho bevuto sangue. Il corridoio era pieno di sangue, i muri erano pieni di sangue, i vestiti. Se scrivi questa storia la devi intitolare così: “Il Giorno del Sangue”

Questa testimonianza drammatica è di un trattenuto-detenuto che racconta cosa ha visto nel Cpr di Macomer, in provincia di Nuoro, prima di riuscire ad uscire dall’ex carcere di massima sicurezza dove in passato sono stati “custoditi” gli islamisti condannati per terrorismo. Le condizioni di isolamento e di abbandono dei migranti hanno portato la Garante dei detenuti della Regione Sardegna, Irene Testa, a chiedere l’intervento del Cpt, il Comitato di prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa. Per chi vive l’incubo nei Cpr non esiste ancora un giudice a Berlino. Qui trovate un racconto-resoconto di quanto accade a Macomer, le interrogazioni parlamentari e quanto si può dire, per ora.

«I Cpr non sono riformabili. A 25 anni dalla loro nascita “vanno chiusi tutti”», hanno ribadito i promotori della manifestazione milanese della Rete Mai più Lager–NO ai CPR che stanno riuscendo a documentare tutte le memorie del sottosuolo dei nove Cpr presenti in tutta Italia, grazie al telefono SOS CPR dell’associazione Naga a cui arrivano voci, filmati, richieste di aiuto, denunce. Per gli attivisti, il Cpr di Milano è la prova che sono luoghi che non si possono raddrizzare: pur essendo sotto inchiesta della procura di Milano da dicembre 2023, commissariato a gennaio e dal primo febbraio con una nuova direttrice pro tempore – in attesa che la Prefettura faccia il nuovo bando di gestione – le cose non sono cambiate, anzi. Febbraio e marzo hanno registrato una crescita allarmante di atti autolesionismo, come documentato da una recente ispezione fatta dal consigliere regionale Luca Paladini insieme al medico Nicola Cocco che più volte ha ribadito: «Le persone si rompono un braccio o una gamba per finire in ospedale, ingoiano lamette, calcinacci, pezzi di vetro per farsi dimettere».

Il blocco C era tutto pieno di sangue: con disegni, croci, noi bevevamo il sangue. Noi eravamo zombie lì, ci sono zombie lì.

«Il Cpr normalizza la violenza e disumanizza le persone», hanno detto gli attivisti. Le loro indagini hanno permesso di bucare quelle mura invalicabili. «Milano è il Cpr sul quale sappiamo più cose grazie al lavoro fatto in questi anni», ha raccontato l’attivista del Naga Teresa Florio, «altrove le cose vanno anche peggio e bisogna intervenire».

C’era questo ragazzo che ha tentato di impiccarsi, ci siamo incontrati in isolamento, ha spaccato tutta la cella. Lo hanno picchiato dentro l’isolamento, hanno buttato spray al peperoncino dentro per calmarlo. Loro non uscivano più a respirare e sono usciti e hanno lasciato me dentro

Non esiste un caso Cpr. A Roma, nel Cpr più grande d’Italia che ha anche una sezione femminile, i trattenuti-detenuti non hanno alcuna possibilità di comunicare con l’esterno, sebbene il regolamento lo permetta. I tentavi di suicidio sono quotidiani e nella sezione femminile alle nigeriane vittime di tratta si aggiungono anche badanti che hanno perso il permesso di soggiorno, mentre in quella maschile, il 3 marzo scorso c’è stata una protesta per ricordare il suicidio di Ousmane Sylla, un ragazzo della Guinea di 22 anni che non poteva essere espulso perché mancano gli accordi fra l’Italia e il suo Paese. Sul muro della cella aveva scritto: «Mi manca mia madre, voglio tornare in Africa» e poi si era impiccato la notte del 3 febbraio (qui potete trovare un racconto su Ponte Galeria). A Potenza c’è un’indagine in corso per il Cpr di Palazzo San Gervasio per maltrattamenti, violenza privata pluriaggravata, falso ideologico e i magistrati stanno ragionando anche sull’ipotesi del reato di tortura. E ancora: dal Cpr di Gradisca d’Isonzo è arrivato il 23 marzo questo video agghiacciante su un migrante che ha cercato di impiccarsi alle inferriate delle sbarre.

I Cpr sono strutture gestite da cooperative o multinazionali che prendono appalti milionari dalle prefetture e li gestiscono di fatto come carceri private dove non esiste alcuna difesa, alcun diritto, umanità ma solo la damnatio memoriae contro cui gli attivisti combattono a mani nude. Perché è legittimo protestare per le guerre, gli eccidi, ma magari bisognerebbe guardare prima cosa accade nel nostro “privilegiato” stato di diritto: nei Cpr dove ogni giorno o quasi si potrebbe scrivere “Il Giorno del Sangue”.

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